[FOTO] Visita al bunker anti-atomica del Maresciallo Tito

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[FOTO] Visita al bunker anti-atomica del Maresciallo Tito

«È Bosut che vi chiama. Il Paese è sotto attacco. Niroč, Herceg, Malina, Srdoč, Bosna, Lazina e Ljuboten, rispondete. Andate quanto prima verso gli aeroporti di Malina e Kristal. Stesso ordine per Ravan, Labud, Velebit, Istok, Ravanka… Una volta arrivati a Malina o Kristal verrete trasferiti quanto prima verso Istanbul». Sono frasi in codice. È questo lo scenario previsto all’epoca dal governo di Tito in caso di attacco militare verso l’ex Jugoslavia. Uno scenario di guerra teso a proteggere le massime cariche del Paese, sia politiche, sia militari. Infatti, come noto, l’ex Jugoslavia si era messa in una posizione di neutralità senza legarsi né al blocco dell’Occidente, futuro Patto NATO, né all’Oriente, a quello che sarà il Patto di Varsavia. Come tale il Paese, dal punto di vista militare nella sua neutralità, poteva diventare bersaglio delle mire potenzialmente espansionistiche di una delle due potenze.

Finita la Seconda guerra mondiale il Paese cominciò a consolidarsi e a pensare alla propria sicurezza. Così con l’imperversare della Guerra fredda lievitò il timore di un attacco atomico, che in ogni caso oggi, col segno del poi, si può dire che rasentasse la paranoia, ed ha fatto sì che negli anni si costruissero per volere di Tito stesso diverse edificazioni militari all’avanguardia e destinate a proteggere il Paese sotto tutti i punti di vista. L’obiettivo era quello di avere un quartier generale a prova di attacco atomico dove potersi rifugiare e dal quale poter continuare a esercitare il comando. Sono tre le costruzioni più famose e più costose nella storia dell’ex Jugoslavia: l’aeroporto militare di Željava, vicino a Bihać (di cui abbiamo già trattato), in Croazia il porto militare Lora, a Spalato e il cosiddetto bunker di Tito, vicino a Konjic.

TOP SECRET

Quest’ultimo, noto con il nome di D-O ARK (Atomska Ratna Komanda, comando per la guerra atomica) era il progetto più segreto della SFRJ e risale al periodo che va dal 1953 al 1979. La ricerca di un posto neutrale nel Paese, dove in caso di guerra portare al sicuro tutte le persone più importanti, andò alla lunga, fino a quando si arrivò alla scelta di un posto sperduto nella Bosnia Erzegovina centrale. Difficile arrivarci ancora oggi, figuriamoci all’inizio degli Anni ’50, quando venne scelto. Il posto doveva avere una posizione quanto più centrale rispetto al resto del Paese, ma essere pure pratico, vicino a degli aeroporti e ben protetto da attacchi sia da terra sia da aria. È così che si arrivò alla scelta della montagna dello Zlatar, a una decina di chilometri da Konjic.

OGGI MUSEO

Ci si può arrivare faccendo la strada che collega Mostar e Sarajevo, una strada vecchia e tortuosa che attraversa più volte il fiume Neretva. Arrivati a Konjic, oggi città di 26mila abitanti, bisogna deviare verso Polje Bijela. Soltanto grazie alle diverse indicazioni stradali si può individuare il luogo. Il bunker si trova a metà strada tra Polje Bijela e Džajići, dall’altra parte della Neretva. Attraversato il ponte  di cui sopra, dopo un paio di chilometri si arriva al cancello d’ingresso dell’ex complesso militare di Konjic, ora chiamato caserma Konjičkih brigada.

Oggi buona parte del bunker è trasformata in museo, mentre nel resto c’è un’industria militare per la produzione di munizioni. Una volta entrati, controllati dalle forze militari bosniache, dopo meno di un chilometro ci si ferma davanti a due semplici case a un piano, dall’aspetto modesto. Si nota il recente rinnovamento esterno delle strutture. A primo impatto sembra solo una sosta, ma non è così. Infatti questi due caseggiati, e un terzo poco distante, costituiscono i tre ingressi del bunker… Entrando nella prima casa alla sinistra troviamo una sala riunioni e un magazzino e alla destra una stanza spoglia con una finestra e un manifesto, più una porta. Il poster rappresenta la mappa dell’intero bunker e dei suoi piani sotterranei con indicate tutte le stanze. Quella porta è proprio l’accesso nel bunker.

Comincia così l’avventura nei sotterranei dello Zlatar che durerà ben due ore. In base alla lingua scelta avrete una guida che vi porterà in buona parte del complesso illustrando i contenuti e gli usi delle varie stanze e vi spiegherà il tutto con dovizia di particolari.

Varcata la pesante porta in acciaio si percorrono lunghi e gelidi corridoi. È un tunnel curvo, fatto per attutire l’impatto di un bombardamento. Segue un’altra porta pesante prima di entrare nella zone delle stanze. In totale al pianterreno ci sono 12 blocchi completamente separati tra di loro e autonomi. Sono numerati dal numero zero all’11.

La nostra visita inizia col blocco sette che è quello dei militari addetti alla manutenzione. In quest’aera, come pure negli ambienti adiacenti, c’è la zona dell’aerazione e della climatizzazione (blocco 9), quella dell’elettricità, quella della comunicazione (blocco 6), la zona cisterna del gasolio (blocco 10), la zona dell’acqua (blocco 11) con una vasca di 170 metri cubi che garantisce le indispensabili riserve idriche  (in caso di emergenza delle pompe erano in grado di attingere e purificare acqua da una sorgente sotterranea inglobata nella struttura), e poi la zona cucina e la zona ospedale. I blocchi più vicini all’entrata sono le zone riservate per il funzionamento dell’intero complesso. Sono blocchi enormi costruiti con la miglior tecnologia dell’epoca.

26 ANNI PER COSTRUIRLO

La costruzione, durata 26 anni, avvenne in gran segreto. Gli operai venivano prelevati di notte, bendati e caricati su dei camion che prima di arrivare sul luogo eseguivano lunghi e tortuosi percorsi al fine di disorientarli completamente. Ognuno lavorava esclusivamente su una piccola parte del progetto affinché nessuno potesse essere in grado di capire che cosa stava costruendo.

L’area era da sempre “zona militare”, ma pochi sapevano quali attività vi si svolgessero. L’obiettivo primario era creare un posto del tutto sicuro, anche a prova di bomba atomica. L’idea era di portare qui, in caso di necessità, le 350 persone più importanti della Jugoslavia: dal generale Tito e consorte (unica donna prevista dal piano), ai presidenti delle repubbliche e delle regioni autonome, fino ai militari/generali di più alto grado, oltre a un certo numero di militari di sostegno per la manutenzione e l’assistenza di base. Era previsto che tutti potessero vivere qui per un periodo di sei mesi in piena autonomia e senza collegamenti esterni. Le scorte di viveri equelle mediche, incluse tante dosi di sangue, venivano sostiuite ogni sei mesi. Inoltre tutta la costruzione ha un clima quasi perfetto con una temperatura media di circa 22 gradi con 60-70% di umidità. Ancora oggi all’interno non c’è traccia né di umidità, né di polvere. Le condizioni di vita potevano ritenersi del tutto ideali. È interessante rilevare che viste le tantissime stanze non ci sono dei veri e propri dormitori nei vari bunker, ma spazi/camere con due-quatto posti letto. Stanze comode con tanto di WC.

Nella zona centrale del bunker, anche se sarebbe più corretto chiamarla una città sotterranea, c’è un vano per le riunioni e le comunicazioni con il mondo esterno. Qui si trovano tante linee telefoniche, indipendenti dalla posta dell’epoca. Tanti i teleprinter Siemens (uno dei rari marchi stranieri presenti). Troviamo pure la zona dei magazzini con tutti i possibili pezzi di riserva: dal bullone più piccolo ai pezzi dei generatori.

STANZE OVALI

Andando avanti si arriva nella parte più profonda della montagna, a circa 200 metri dall’entrata. Questa è la zona prevista per le più alte cariche politiche e militari. Troviamo le stanze per le riunioni operative con tanto di telefono rosso riservato esclusivamente a Tito per poter comunicare con le persone più importanti del Paese sia nel bunker che fuori. Andando avanti, nella zona più lontana delle entrate ci sono due stanze ovali (alla Casa Bianca ce n’è una) per le riunioni più estese: avevano una capienza di circa 70 persone.

Fatto il giro saliamo al primo piano. Siamo nella zona più importante. Entriamo prima nella stanza del segretario generale, da dove si accede alla sala di attesa per arrivare all’ufficio che era previsto e riservato a Tito. Subito accanto la grande stanza privata del maresciallo, con un WC privato. Segue quella che si ritiene sia stata la stanza della moglie Jovanka. Infine si arriva alla stanza del presidente del governo e si torna nella stanza del segretario generale. Altre stanze erano previste per i presidenti delle Repubbliche e delle regioni autonome (tutte e otto previste soltanto per loro, senza famiglie al seguito) che portano a una sala riunioni.

Ci sono ancora diversi piani verso la cima della montagna, ma per ora non sono stati aperti al pubblico. Inoltre c’è pure un tunnel di salvataggio in caso di attacco da terra, attraverso la Neretva. Sulle porte e sui muri non ci sono indicazioni particolari.

Dicono che Tito non abbia mai visitato l’imponente struttura che dopo la fine della Guerra fredda fu in parte abbandonata, ma mantenuta comunque in buono stato fino al crollo della Jugoslavia nei primi Anni ’90. Un’altra versione della storia legata al bunker racconta che Tito vi sarebbe venuto più volte per inaugurare diverse cose, tra le quali pure un modesto cinema. Credere che sia venuto tante volte da queste parti senza mai venire a vedere come procedevano i lavori in questa città sotterranea è del tutto improbabile.

DISTRUZIONE EVITATA SUL FILO DI LANA

Il governo bosniaco ha fatto parecchie richieste a Belgrado per ottenere la documentazione ufficiale sul progetto del bunker, ma si sono visti sempre rispondere picche visto che il segreto militare dura per 50 anni. L’esistenza della struttura venne scoperta con l’inizio del conflitto in Bosnia-Erzegovina. L’Armata jugoslava, consapevole di poter perdere il complesso, fece partire il piano per farlo saltare in aria. L’esplosivo venne installato, i detonatori e i cavi elettrici collegati fra di loro e sistemati nelle zone nevralgiche. Fortuna volle che fra quelli che avrebbero dovuto portare a termine l’operazione ci fossero due bosniaci: sapendo quanto stava per accadere disconnessero per tempo tutti i collegamenti elettrici, tagliarono i cavi ed evitarono così la deflagrazione.

A Belgrado ci furono dei processi, però si capì ben presto come andarono le cose. Al contrario dell’aeroporto di Željava, che in parte venne distrutto, il bunker rimase intatto. E si rivelò di fondamentale importanza per gli abitanti della zona che fecero proprie le enormi quantità di cibo, materiale ospedaliero e medicinali che erano conservate all’interno del complesso. Durante la guerra le forze dell’APJ tentarono in cinque occasioni di bombardare questa zona e ben per tre volte gli aerei furono abbattuti dalle forze bosniache. Ebbero così la conferma di quanto sia stata ottima la scelta di costruire il complesso incuneato tra più montagne.

Pian piano l’intero bunker sarà aperto al pubblico. Già negli Anni ’90 ci si rese conto di quale “importante vicino di casa” avessero gli abitanti della vicina Konjic. Dal 2011 l’ingresso nel complesso è libero al pubblico. Dal 2011 al 2017 ha ospitato anche la Biennale dell’arte contemporanea. Oggi il 68% del bunker appare com’era in origine. Una parte delle stanze ospita ancora delle installazioni artistiche della Biennale.

MISTERI

Oggi l’intera zona, oltre al rafting sulla Neretva, “campa” sempre di più grazie al bunker e ai turisti che arrivano qui perchè lo vogliono visitare. La maggioranza dei visitatori arriva dalla Slovenia, anche se ci sono pure tanti turisti statunitensi e di altri Paesi.

Sono diversi i misteri legati a questo complesso che non sono stati ancora svelati. Uno tra tutti, perché abbia ricevuto il nome in codice Istanbul. Le ultime supposizioni in merito dicono che a finanziarlo siano state in buona parte le forze americane che hanno portato i soldi attraverso Istanbul. Gli altri nomi in codice dell’inizio del testo? Indicano le varie capitali: Bosut-Belgrado, Niroč-Lubiana, Herceg-Zagabria, Malina-Sarajevo, Srdoč-Titograd/Podgorica, Bosna-Skopje, Lazina-Priština e Ljuboten-Novi Sad. E poi ci sono i centri militari ed altre importanti città dell’ex Jugoslavia, come Kristal-Mostar, Ravan-Pola, Labud-Fiume, Velebit-Željava, Istok-Spalato, Ravanka-Kotor. Nomi di pura fantasia, per confondere il nemico.

Finita la visita ci si rende contro di quanto il complesso sia fatto all’avanguardia ed è incredibile che il tutto si trovi dentro una montagna. Decisamente una zona da visitare, per due ore che voleranno… È il segno tangibile che la storia di e su Tito fa ancora presa all’estero e nei Paesi dell’ex Jugoslavia.  Si può sfruttare turisticamente e benissimo. E se funziona con un rifugio antiatomica in Bosnia,  allora perché non dovrebbe funzionare anche con la nave “Galeb”, che fu del Maresciallo e che Fiume si appresta a restaurare in vista del 2020, anno in cui sarà Capitale europera della cultura?

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