La casa galleggiante

Aveva il tetto spiovente, il camino, le finestre, il ballatoio e un piccolo orto ospitato in diversi barili sfondati, ripieni di terra. Si trovava nel porto di Genova. Alcuni anni fa fu spostata in un altro punto che non aveva una storia romantica, dove cessò di esistere. Al suo posto sorse quella che è la parte nuova della darsena turistica, con le vele dell'Architetto Piano e il grande acquario proteso sul mare

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La casa galleggiante

Un freddo boia, un vento teso di tramontana fischiava tra le sartie delle barche all’ormeggio facendo tintinnare con violenza i moschettoni e i grilli d’acciaio contro gli alberi zuppi di pioggia. Ombre e luci danzavano con il beccheggio e il rollio, dando alla banchina della darsena un’immagine da “porto delle nebbie”. Verso l’angolo a ridosso del molo, sotto la luce innaturale di un lampione che il vento dondolava e faceva cambiare d’intensità con lo sbattere del braccio allentatosi da chissà quanto tempo, soffocata dall’ombra di una biga gigantesca s’intravedeva appena una costruzione che nulla aveva a che fare con l’ambiente che la circondava. Era una casa con tanto di tetto spiovente, di camino, di finestre, ballatoio e con un piccolo orto ospitato in diversi barili sfondati, ripieni di terra, dai quali spuntavano verdi piantine che parevano incolte tanto erano ammucchiate le une sulle altre.

Video: Sergio Loppel

Un vecchio barcone

La casa era costruita su di un vecchio barcone ancorato a prua con lunghe catene che finivano chissà dove sotto il fango del porto di Genova e ormeggiato a poppa a una vecchia bitta in disuso sistemata sul molo della darsena. La chiamavano “a casa” e basta. Ricordo che qualcuno una volta raccontò di una cartolina di saluti spedita dall’Argentina e recapitata normalmente anche se per indirizzo avevano scritto solamente “a casa Zena Italia”. La “casa” aveva le pareti di legno, pitturate però di un rosso marrone: forse erano dipinte con il “minio” antiruggine che si usava per proteggere le sovrastrutture delle navi. Sulle pareti, a tratti, erano disegnate le righe a copiare la giunzione dei mattoni. Nella penombra, a colpo d’occhio, parevano proprio i mattoni a vista di un muro sbrecciato. Le finestre contornate di bianco, i vetri a rettangoli, il tetto di lamiera con vaghi riporti di ardesia facevano sembrare questa strana abitazione quasi facesse parte di un complesso sorto chissà per quale capriccio di un costruttore pazzo. Con il sole, nelle giornate di primavera, “a casa” riacquistava una sua particolare vivacità grazie a quei rampicanti che adornavano la parete rivolta a mezzogiorno, a quel verde cespuglio di rosmarino che incredibilmente, anno dopo anno, s’infoltiva crescendo sprofondando le radici nel bidone di latta che conteneva la terra.

Basilico e acciughe salate

Più avanti, verso la prua del barcone che faceva da cortile, in sgangherate cassette di legno crescevano piantine di basilico dal profumo che aggrediva il forte odore del salmastro e della juta delle gomene, che aleggiava ovunque. D’estate, nel pieno della calura, chi transitava vicino alla “casa”, assieme all’odore dell’olio bruciato con il quale era calafatato il pontone, veniva inondato del caratteristico tanfo del pesce che maturava in salamoia. Alla “casa” preparavano le più buone “acciughe salate” che si potessero trovare in tutta la Liguria. A due passi, al mercato del pesce o anche direttamente dai pescatori, quelli della “casa” acquistavano le famose acciughe nostrane nei giorni e nei periodi più convenienti e, all’aperto sulla prua del barcone, senza tema di sporcare, preparavano i pesci mettendoli nei recipienti attingendo il sale a piene mani da capienti sacchi di tela.

Un magnete per i gabbiani

I gabbiani impazziti volavano attorno alla “casa” cabrando e scivolando d’ala, azzuffandosi con grida roche ogni qualvolta le teste e le interiora delle acciughe erano gettate fuori bordo. Non era raro vedere un gabbiano più intraprendente degli altri piombare improvvisamente sulle cassette delle sardine e con gran schiamazzo impadronirsi di qualche pesce che poi, per un attimo, brillava d’argento prima di sparire nell’ingorda bocca.
L’odore delle spezie

Andavamo in tanti a comperare le “arbanelle” d’acciughe salate alla “casa”. Io, ogni agosto, mi fermavo spesso di fronte alla casa, quando la città sembrava acquietarsi abbandonata dalla calca degli altri mesi e quando il selciato dei moli del porto sembravano tingersi di quei riflessi densi dell’odore forte delle spezie che “respiravano” trasportate ancora a sacchi nelle stive dei “carghi” invece che costrette nel buio soffocante dei container, come avviene oggi. Ero affascinato non tanto dalla costruzione galleggiante quanto da quell’atmosfera che aleggiava attorno. La gran confusione delle cime, la passerella per salire a bordo, lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo, l’imponente immobilità del pesante barcone che pareva continuare verso il fondo, i profumi del catrame, dell’olio e di tutto ciò che sapeva così intensamente di mare.

Camallo, il portatore di sacchi

Un giorno, passando dal molo, mi soffermai a guardare un signore che seduto a cavalcioni di una trave posata tra due barili sulla tolda del barcone, immobile quanto basta a ogni pescatore di canna, attendeva il “tocco” di una preda. Un discorso tira l’altro e ben presto nacque tra di noi una certa confidenza, man mano che scoprivamo di essere stati vicini di casa alcuni anni prima. Potenza della città. È proprio vero che non si conosce neppure l’inquilino che abita sul nostro stesso pianerottolo. Una vita la sua, trascorsa ad operare nel porto come camallo: come portatore di sacchi, quando le navi si scaricavano a mano e lunghe file di camalli facevano faticosamente la spola dal ventre dei bastimenti con un sacco a spalla fino ai carri in attesa di essere caricati per diverse destinazioni. Lui era stato però un camallo speciale, sicuramente uno di quelli che venivano considerati i più forti: i carbonè. Trasportavano ceste piene di carbone, caricate nella stiva delle navi da altri uomini a forza di pala. Riempivano, lucidi di sudore nero le grandi coffe e aiutavano i carbonè a sistemarle sulle spalle coperte dal sacco incappucciato in testa. La loro abilità era, oltre al peso sostenuto, il loro modo di transitare sulle lunghe passerelle posate tra la nave e le chiatte carbonaie, quasi danzando, percorrendole in equilibrio tra cielo e mare.

La vecchia osteria

Mi raccontava, il mio amico, che la sera o dopo il turno di faticoso lavoro i camalli si radunavano all’osteria che è stata forse il primo locale in assoluto sorto come cooperativa. Si chiamava Biscassa ed era gestito direttamente da loro. Il vino sempre accuratamente scelto, veniva bevuto a quinti, in una tazza che misurava appunto un quinto di litro, retaggio di antiche misure di capacità risalenti nientemeno che alla Serenissima. Repubblica Genovese. Questo succedeva negli anni Trenta e Quaranta: a cavallo tra le due guerre mondiali. L’ultimo conflitto ha dato un deciso cambio a ogni struttura ambientale nel porto e con esso anche alle abitudini e al modo di gestirsi emotivamente. Il Secondo conflitto mondiale e soprattutto l’ultimo terribile periodo che vide Genova soffrire sotto l’occupazione nazista aveva trasformato il porto in un duro terreno di scontro tra la Gestapo e i partigiani che traevano nell’ambiente molte delle loro possibilità di resistenza.

Un «buco d’uscita»

La casa galleggiante era diventata, in diverse circostanze, il momentaneo “buco di uscita” che aveva salvato anche qualche vita di partigiano braccato dai tedeschi. Un caso rimase famoso e proprio il mio amico pescatore me lo raccontò una volta. Mi disse: “Me lo ricordo come fosse oggi perché fui proprio io a provocare un tale casino costruito su bugie, falsi scopi e cambi di marcia che riuscimmo a scongiurare una tragedia, salvando la vita ad un paio di ragazzi”. Erano stati mandati, quei due ragazzi, dal comando partigiano in porto con lo scopo di individuare i punti mimetizzati delle strutture dello scalo genovese in cui i tedeschi avevano realizzato i fornelli da mina in preparazione della possibilità di distruggere il porto stesso. I movimenti dei due ragazzi avevano però insospettito la polizia tedesca che decise di arrestarli. Conoscendo la casa galleggiante, i ragazzi si rifugiarono lì sperando in Dio, come dissero.

Una sera d’inverno…

Era una sera d’inverno, molto fredda come lo sono a Genova le serate spazzate dalla tramontana. Dovete sapere che a quei tempi di tragedia ogni tanto qualcuno della casa galleggiante invitava qualche sottufficiale tedesco della polizia militare dislocata in porto a bere un bicchiere al caldo dentro questa strana costruzione. Si beveva un vinello liquoroso, una specie di sciacchetrà che giungeva dalle vigne di un socio di Monterosso, molto apprezzato dai soldati tedeschi e non solo da loro. Spesso i militari se ne andavano poi felici e contenti e con la mente un po’ annebbiata. Era un modo di fare la guerra anche questo che più di qualcuno, in seguito ricorderà pubblicamente. Il caso volle che la pattuglia tedesca che quella sera cercava i due ragazzi inviati dai partigiani nel porto fosse comandata proprio da un sottufficiale il quale già parecchie volte era stato “ospite bevente” della casa galleggiante. Perciò era ben conosciuto e, quello che più contava, era anche in confidenza con gli occupanti della casa.

Bottiglie di vino buono

I due ragazzi erano stati nel frattempo nascosti nella sentina del barcone, quasi sommersi dall’acqua di mare densa di olio e degli scarti della pittura usata per rinfrescare le sovrastrutture. Immobili e pieni di paura, speravano proprio negli uffici della loro buona stella. Quelli del piano di sopra, accolsero con trasporto il sottufficiale e la sua squadra. Comparvero subito alcune bottiglie del buon vino che fu offerto, come sempre e con grande trasporto, adducendo un particolare anniversario di qualcuno. Fu la mossa vincente. “Se ne asciugarono parecchie di bottiglie quella sera”, ridendo e scherzando. I ricordi di casa, le difficoltà del mestiere della guerra e i brindisi s’intrecciarono numerosi, ma ne valse la pena perché la pattuglia se ne andò scordandosi dell’impegno di polizia cui erano stati comandati, mentre tutti avevano la mente forse più annebbiata del solito.

Due ragazzi in salvo

I due ragazzi si salvarono, infreddoliti e impauriti dello scampato pericolo e poterono così ricongiungersi ai loro commilitoni. La casa galleggiante continuò ancora per molti anni ad ospitare camalli, piloti del porto, trasportatori, barcaioli, tutti in età della pensione, che lì ritrovavano vecchi amici per ricordare tempi diversi, avventure, insomma le solite storie che fanno la società, magari davanti a qualche bicchiere di quel buon vino che buggerò la pattuglia tedesca. Rimase ancorata alla darsena sino a pochi anni fa, quando un ordine di sgombero la rimorchiò da un’altra parte, in un altro angolo del porto che non aveva una storia così romantica, dove cessò di esistere. Al suo posto sorse quella che è la parte nuova della darsena turistica, con le vele dell’Architetto Piano e il grande acquario proteso sul mare. La sua memoria ormai è stata cancellata.

Ogni tanto, nel ritornare a passare lungo quei moli ormai privati dal fascino del tempo e che mi videro ragazzo, mi sorprendo a insistere nel volgere lo sguardo alla ricerca della vecchia casa galleggiante.

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