La casa del futuro è lo specchio del mondo

A Venezia, passeggiando tra i padiglioni della Mostra internazionale di Architettura curata dall’architetto, docente e ricercatore Hashim Sarkis. «In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme»

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La casa del futuro è lo specchio del mondo

Quando si decide di andare a Venezia per visitare una mostra, una galleria o una collezione è difficile tornare a casa avendo la certezza di averci capito qualcosa. Venezia è uno specchio fluido che acceca, una meraviglia di marmi, pietre e disegni geometrici in cui perdersi, un palcoscenico di personaggi di ogni lingua che vagabondano per le calli, callette e calleselle. Un rimbombo di bellezza che colpisce sensi e ragione. Da Fiume in auto fino a Trieste e poi col treno dritti nel cuore della laguna alla stazione di Santa Lucia in una nebbiosa giornata autunnale. Nebbiosa come la Biennale 2021, una proposta di soluzioni scarsa di quegli elementi che comunemente si associano al linguaggio dell’architettura come disegni, modelli in scala e prototipi.

 

«Come vivremo assieme?»

Dopo quindici mesi di attesa – causa ritardo da pandemia – dall’apertura di questa Biennale 2021, la domanda posta dal curatore, “Come vivremo assieme?”, avrei detto che sia stata pensata su misura alla ricerca di proposte concrete dopo isolamenti, nella confusione dei confini tra casa e ufficio e la ridefinizione del concetto di spazio pubblico. Hashim Sarkis, curatore della mostra, architetto e decano al MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, ha rilasciato diverse dichiarazioni spostando l’attenzione su una serie di scelte più globali che acquisteranno nel tempo sempre più importanza, ad esempio: il cambiamento climatico, le migrazioni di massa, la polarizzazione della politica e le crescenti disuguaglianze sociali, economiche e razziali. Ho ricevuto così una risposta indiretta alla mia aspettativa di influenza della pandemia sull’architettura, che ha offerto soluzioni a problematiche che in parte hanno contribuito anche alla diffusione del virus.

Idis Turato firma il padiglione croato alla Biannale 2021

Proposte provocatorie e bizzarre

Da dove cominciare l’esplorazione? L’offerta propone una moltitudine di proposte stipate da una parte nel vecchio cantiere navale dell’Arsenale e dall’altra nei Giardini della Biennale, che ospitano anche i padiglioni nei quali i Paesi partecipanti presentano le loro mostre di architettura. Inizio dall’Arsenale e mi pare subito di entrare in un museo delle scienze a carattere didattico; il mio sguardo viene catturato da un braccio robotico che si muove sopra un grande plastico che riproduce un paesaggio bitorzoluto di terra compattata. Si notano piccole cavità da cui emergono ciuffi rosa di funghi. La didascalia dell’opera segnala che si tratta di un “ecosistema di empatia e coesistenza”, in cui la flora fungina e l’arto meccanico vivono insieme in perfetta armonia. Nelle vicinanze si sentono gorgogliare alcune grandi ampolle occupate a coltivare, come in un laboratorio da film di fantascienza anni ‘80, puzzolenti alghe verdi che ci “libereranno” dall’anidride carbonica, dall’inquinamento e saranno nutrimento in ambienti sovrappopolati. Intanto, mentre una nuvola di piumose creature acriliche si libra sopra una misteriosa costellazione di colonne che emettono un ronzio inquietante, fanno capolino un busto di Nefertiti fatto di cera d’api e un grosso tavolo di quercia progettato per ospitare una conferenza inter-specie.

Dai probiotici ai post-umani

Proseguo il mio cammino percorrendo una struttura di “architettura probiotica”, simile a una capanna e realizzata in spugna artificiale, nelle cui cavità coesistono microbi “sani” che illustrano come a livello invisibile avvengano una miriade di scambi e trasformazioni chimico-fisiche in grado di promuovere la nostra salute collettiva. Qualcosa di più provocatorio è offerto da “Catalog for the Post-Human”, che immagina un futuro in cui i lavoratori dell’economia turbo-capitalista saranno costretti ad “accrescere” sé stessi, aumentando le proprie abilità per rimanere competitivi. All’occorrenza una sorta di tuta da astronauta sarà in grado di rilasciare di continuo nel corpo complessi cocktail di nutrienti ed elettroliti. La provocazione si spinge ancora più lontana secondo un team di architetti che ha pensato a un futuro in cui la vita sarà progettata in laboratorio, partendo da zero. In un mondo senza genitori ecco una macchina denominata “Heavy duty love”, che assomiglia a quelle da palestra multistazione in grado di garantire abbracci e compressioni del corpo dentro materiali morbidi.

I Paesi nordici reinterpretano gli spazi comuni

La Luna e i suoi crateri

Una sezione della mostra è dedicata alla vita sulla Luna e al suo cratere Shackleton ricco di acqua, esposto per gran parte al Sole, da cui estrarre ossigeno e “benzina spaziale” come base d’appoggio per missioni più lunghe. Un rumore si insinua nelle orecchie, proviene da una scatola di metallo rimbombante che simula il suono degli iceberg che si rompono in Antartide accanto a una pioggia di pezzi di ossidiana penzolanti, in un’allegoria dell’Antropocene come a ricordarci una primordiale architettura nata nelle caverne dell’Africa. Quasi nessun progetto, in questa prima parte della mostra, in termini di proposte spaziali concrete che potrebbero affrontare il come le nostre città e i nostri habitat possano essere ripensati per un futuro più equo. Piuttosto una serie di progetti che usano le crisi globali come ispirazione per un’arte fatta di installazioni, spesso difficile da comprendere se non grazie ad abbondanti spiegazioni servite sui numerosi pannelli guida. Tuttavia vi sono stati anche gruppi di architetti che si sono occupati più del presente, cercando di portare delle proposte al disagio dei profughi e ai problemi di sovrappopolazione e coesistenza di immigrati nelle grandi città.

Rifugiati e immigrati

Il gruppo italo-palestinese DAAR, presenta un film provocatorio sul loro tentativo di riconoscere il campo profughi di Dheisheh come patrimonio mondiale dell’Unesco. Situato a sud di Betlemme, il campo è stato fondato nel 1949 per servire 3.000 persone. Ora ne ospita circa 15.000, con una società civile attiva. Esplorando l’idea di “patrimonio apolide”, il gruppo DAAR si chiede chi ha il diritto di nominare i siti, che cosa significherebbe una tale designazione per il diritto al ritorno dei rifugiati e come valorizzare il patrimonio di una cultura in esilio. Altri gruppi di studio presentano invece progetti di pianificazione urbana più tradizionali come uno studio con sede a Barcellona, che espone modelli in scala per la riqualificazione di un quartiere a Clichy-sous-Bois, vicino a Parigi, ricco di immigrati africani e con ripetute frizioni interne. La riqualificazione in questo caso prevede un piano di abitazioni collettive, un mercato e una stazione della metropolitana. L’iniziativa fa parte di una più ampia iniziativa a Parigi che estenderà le linee della metropolitana della città per collegare meglio la periferia al centro. Per ravvivare un quartiere spento e dare allo spazio un’idea di appartenenza alla gente che ci vive, gli architetti hanno creato un pergolato colorato per la stazione, ispirato ai motivi decorativi dei vari migranti africani che vivono nella zona.

I padiglioni nazionali

Finalmente, nel pomeriggio, raggiungo i giardini della Biennale, sotto una pioggia ormai fastidiosa; qui si trovano i padiglioni nazionali, che hanno tentato di dare risposte diverse e pragmatiche al tema proposto. All’ingresso rimango un po’ impressionato da un imponente telaio in legno prefabbricato che copre la facciata del neoclassico padiglione anni Trenta che ospita gli Stati Uniti. È curato dagli architetti di Chicago Paul Andersen e Paul Preissner e racconta la diffusione massiccia e ordinaria della tipica struttura in legno nell’edilizia americana, dai magazzini del XIX secolo fino al 90 p.c. delle case americane costruite oggi. Facile, economico e infinitamente flessibile, è il più grande contributo USA all’architettura.

Il legno e l’acqua

Il legno ha un ruolo importante anche nel contributo finlandese della porta accanto, che analizza l’affascinante storia sociale del fenomenale successo del sistema di alloggi per affrontare la crisi dei rifugiati della Carelia, quando circa 420.000 persone furono sfollate a causa della guerra, le case costruite in fabbrica divennero una delle maggiori esportazioni del Paese, spedite in più di 30 Stati, da Israele alla Colombia, dove molti dei caratteristici bungalow si trovano ancora. Le impressionanti fotografie documentarie mostrano come sono state adattate e personalizzate nel corso degli anni. Ancora legno, ma declinato in un concetto di comunità estesa oltre che agli umani anche agli animali e ai vegetali il padiglione danese, dove la natura entra in un circuito in cui l’acqua piovana scorre dal tetto all’interno dell’abitazione e si raccoglie in fiumi e vasche. La stessa acqua che fa crescere muri di piante e spezie. Le stesse piante da cui posso sorseggiare una buona tisana calda alla salvia seduto comodamente in un salotto galleggiante posto nella vasca più grande. Insomma, un’idea di casa come sistema vivente perfettamente integrata nella natura. I Paesi nordici lasciano invece la natura “fuori” dalla casa, ma per gli spazi abitativi propongono strutture di legno massello e flessibile. In questa grande “comune”, costruita in scala 1:1, è possibile trascorrere del tempo coricati o seduti insieme ad altri ospiti. Rigorosamente senza scarpe e in un silenzio contemplativo è facile capire come sia importante nella comunità la responsabilità del singolo.

Il padiglione danese

I giapponesi e il «recupero»

I giapponesi hanno inviato a Venezia anche una casa di legno, ma piuttosto che ricostruirla hanno disposto i pezzi smontati intorno al loro padiglione, creando un cantiere di recupero “wabi-sabi”. Il padiglione britannico affronta il tema spinoso dello spazio pubblico privatizzato, con sei diverse pratiche che esaminano in modo diversificato il pub, la strada principale, la terra comune e il giardino recintato. Argomento interessante che cattura l’occhio, ma con poca sostanza dietro i divertenti oggetti di scena. Il tempo stringe e non si riesce a capire e vedere tutto in un solo giorno nella consapevolezza di aver tralasciato troppi dettagli negli altri padiglioni, così passo dopo passo cerco di passare in rassegna il più possibile, nel padiglione israeliano mi fermo davanti alla mostra fotografica e video, che esamina la relazione tra gli esseri umani, l’ambiente e gli animali, in particolare mucche, capre, api, bufali d’acqua e pipistrelli. Nel padiglione croato l’architetto fiumano Idis Turato ricombina gli elementi classici di una casa: tetto fondamenta e mura, mentre nel padiglione italiano si affrontano le questioni climatiche e sociali con una serie di progetti multidisciplinari attraverso un linguaggio espositivo estremamente contaminato dal mondo dei fumetti e del cinema.

Il cantiere di recupero “wabi-sabi” nel padiglione giapponese

Innovazione e dialogo

A visita compiuta il tentativo di descrivere la Biennale coincide con quello della Biennale di rispondere alla domanda: “Come vivremo insieme?”. Un tentativo di difficile formulazione, in cui forse non è importante nemmeno fornire una risposta univoca. Si punta a nuovi materiali come le fibre di carbonio, ma anche a un ritorno di quelli classici come il legno, ma con nuove tecniche di assemblaggio; si punta al riciclo, si cerca un dialogo interdipendente e paritario tra natura e tecnologia. Si torna anche a riconsiderare lo spazio pubblico e la vita comunitaria, ma con nuove soluzioni abitative. Si prendono alcuni luoghi come laboratori naturali o artificiali per trovare nuovi modelli generativi di idee, come i confini per il padiglione della Svizzera o i crateri sulla Luna. Quello di cui sono convinto è che sia valsa la pena concedersi questa gita fuori porta e di approfittare di questa breve distanza da Fiume per lasciarsi sedurre da una delle città più affascinanti del mondo, capace di ospitare ancora un evento che è alla sua altezza.

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