Festival Periskop: un forte impulso all’individualismo

La settima edizione della manifestazione fiumana dedicata alla danza contemporanea e al nuovo circo ha proposto sette spettacoli che dimostrano diverse caratteristiche in comune

0
Festival Periskop: un forte impulso all’individualismo
Lucija Stanojević, Mario Miličić e Nikolina Majdak in “Dovere”. Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

È da ormai sette anni che l’associazione fiumana Prostor Plus, attiva nel campo della scena teatrale indipendente, organizza il Festival Periskop, dedicato alla danza contemporanea e al nuovo circo. Oltre a un programma di spettacoli di compagnie croate e internazionali che vengono rappresentate presso la Casa croata della Cultura (HKD), negli spazi della Filodrammatica e in altri punti della città, la rassegna comprende di anno in anno una serie di iniziative ed eventi collaterali, tra cui mostre, incontri con artisti e laboratori pratici che offrono a tutti gli interessati la possibilità di avvicinarsi al mondo delle arti performative. Quest’anno, la programmazione della manifestazione si è articolata in sette spettacoli che, se esaminati, mettono in luce alcune delle caratteristiche chiave dell’attuale produzione nel campo della scena teatrale indipendente.

Il pubblico della prima serata del Festival.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Le doti fisiche dei performer
Il Festival Periskop del 2022 è stato inaugurato con “Duello” (Duel), una co-produzione tra l’associazione croata Cirkorama, l’organizzazione artistica serba Cirkusfera e la compagnia francese Un loup pour l’homme. Lo spettacolo vede in scena quattro performer – Danka Sekulović, Hristina Šormaz, Jelena Kalaica e Nemanja Jovanović – che a varie riprese mettono in risalto le proprie doti fisiche, sfidandosi a vicenda. Nell’ambito della programmazione del secondo giorno della manifestazione, ha avuto la sua “première fiumana” lo spettacolo “Parte Parte”, ideato e interpretato dalle note danzatrici zagabresi Petra Chelfi e Petra Valentić, le quali abbiamo avuto modo di intervistare nei giorni scorsi. Ha seguito poi “Mia babusja non conosce l’espressione biopower” (Moja babusja ne poznaje izraz biopower) di Nastasja Štefanić Kralj e Matija Kralj Štefanić, una performance contro la guerra in Ucraina, in cui la danzatrice racconta il rapporto con la nonna materna, tuttora residente nel Paese occupato dall’esercito della Federazione Russa.

Jelena Kalaica, Hristina Šormaz, Nemanja Jovanović e Danka Sekulović in “Duello”.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Una risposta all’angoscia
Nell’ambito del quarto giorno del Festival sono andati in scena due spettacoli: “Spontaneously vulnerable experience (SVE)” di Lucija Romanova, una performance basata su un’improvvisazione che nasce dal confronto dell’autrice con le sue stesse angosce; e “Dovere” (Obaveza), interpretato da Nikolina Majdak (con la partecipazione di Mario Miličić e l’accompagnamento musicale di Lucija Stanojević) e diretto da Lee Delong, regista e attrice francese-statunitense attiva da diversi anni sulla scena indipendente croata, in particolare come collaboratrice del teatro Mala scena e della compagnia Triko cirkus teatar di Zagabria. Anchel’ultimo giorno della rassegna organizzata dall’associazione Prostor Plus ha visto in programma due performance: dopo lo spettacolo site specific “Invisibile (danza)” (Nevidljivi (ples)) di Irma Omerzo della compagnia Marmot (da lei fondata nel 2001), a concludere il settimo Periskop sono stati Ida Jolić e Marin Lemić con lo spettacolo “Transformeri”, che illustra in scena le sfaccettature dell’incontro con l’altro.

L’accompagnamento musicale di “Dovere” viene eseguito da Lucija Stanojević.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

L’impulso all’individualismo
Nonostante appaiano a prima vista molto diverse tra loro, le produzioni che hanno trovato spazio nella programmazione della settima edizione del Festival Periskop presentano degli evidenti tratti in comune. Sono caratteristiche rintracciabili, inoltre, in gran parte dell’attuale produzione della scena indipendente croata (e di oltre confine), che offrono perciò un’immagine concreta della predominante maniera di intendere l’arte teatrale e performativa da parte degli autori coinvolti. Si tratta, in primo luogo, del forte impulso all’individualismo, all’espressione dell’identità intima e personale del performer. Un’esaltazione, questa – inutile dirlo –, che non di rado risulta eccessiva. Nel caso della co-produzione croato-serbo-francese che ha dato il via alla manifestazione, era l’amore per l’arte circense il punto di partenza (e, al contempo, il senso e il fine ultimo) della rappresentazione. “Il circo è il modo in cui mi esprimo, il circo è creatività, il circo è ispirazione, il circo è dolore”, afferma dal proscenio Jelena Kalaica in apertura della performance, concludendo: “Il circo è il mio passato, il mio presente e il mio futuro”.

Nikolina Majdak propone una recitazione clownistica in “Dovere”.
Foto: VOR HRELJANOVIĆ

Performance come autoterapia
Ciò che segue è una serie di esercizi e prove fisiche – eseguite, per la maggior parte, in totale silenzio – nel corso delle quali i quattro interpreti arrivano a impiegare il massimo delle proprie energie corporee. Il risultato finale, tuttavia, non si discosta molto da un allenamento abituale di un artista circense, fatto di acrobazie e numeri che esigono un certo livello di concentrazione e preparazione fisica, ma che non si presentano come parte di un insieme più ampio o legati da un filo narrativo. Lo stesso discorso vale anche per la rappresentazione di Lucija Romanova, in cui l’evento performativo funge da pretesa per una forma di autoterapia dell’autrice. Dopo essersi esibita nella sala della Filodrammatica presentando una coreografia del tutto improvvisata – della quale risulta praticamente impossibile individuare un messaggio o un intento che superi la mera espressione della propria individuale interiorità – Romanova ha ringraziato il pubblico per l’attenzione, confessando che si è trattato di una coreografia “inventata sul momento. La danza – ha puntualizzato – mi libera dall’ansia che normalmente mi tormenta ed è per questo che mi ci dedico”.

Hristina Šormaz, Jelena Kalaica, Danka Sekulović e Nemanja Jovanović.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

Un messaggio di pace
Un ragionamento simile può essere applicato anche al lavoro interpretato da Nastasja Štefanić Kralj, che giunge a un messaggio di pace – espresso tra le righe delle sue rimembranze – a partire dalla narrazione della propria esperienza personale. La danzatrice e musicista croata di origini ucraine si muove entro i margini simbolici della storia della propria famiglia – nonché entro i limiti dell’Europa tracciati sul pavimento della Casa croata di Cultura da numerosi sassolini che lei stessa dispone man mano che prosegue il racconto e l’azione scenica. A differenza dei due spettacoli descritti sopra, però, quella di Štefanić Kralj è una rappresentazione che (purtroppo) corrisponde e porta in scena le storie di centinaia di migliaia di famiglie le cui vite sono state per sempre segnate e stravolte dal conflitto bellico tuttora in corso. Ed è pure nello spettacolo di Petra Valentić e Petra Chelfi che possiamo riconoscere un’accentuata propensione all’individualismo. Le due danzatrici e coreografe esplorano in “Parte Parte” il legame instaurato a livello professionale e personale nel corso di lunghi anni passati insieme nell’ambito della nota compagnia di danza ZPA (Zagrebački plesni ansambl).

Petra Chelfi in “Parte Parte”.
Foto: RONI BRMALJ

Il ruolo dello spettatore
Anche in questo caso, ciò a cui il pubblico assiste è una (auto)riflessione intima delle due autrici interpretata scenicamente per mezzo della danza. Una coreografia che vede le due performer scrutare il loro bagaglio di esperienze condivise e di quelle individuali, sempre al fine di esprimere e presentare al pubblico la propria peculiarità. Paradossalmente, insomma, è proprio il tentativo – portato all’estremo – di distinguersi dalla folla a omologare quella che potrebbe invece essere una varietà di proposte e di sperimentazioni nel campo della danza contemporanea e del nuovo circo. Qual è, dunque, il ruolo dello spettatore che si trova ad assistere a spettacoli come quelli descritti? A che cosa si riduce la sua partecipazione all’evento? Viste da un tale punto di vista, le produzioni sopra nominate sembrano prive di un elemento fondamentale dell’arte performativa e teatrale in generale, vale a dire la volontà di dar vita a un’esperienza artistica condivisa tra scena e platea. Che si tratti di una risposta emotiva, di una partecipazione attiva o di una percezione del messaggio che dall’interprete giunga al pubblico, il ruolo dello spettatore rimane fondamentale nell’ambito degli spettacoli dal vivo, compresi la danza contemporanea e l’arte circense.

Scarsa affluenza al Festival
È proprio la presenza del pubblico a determinare una performance e a distinguerla da una prova o da un semplice training attoriale. Eppure, il modo di fare teatro, danza, circo, come quello descritto sopra, sembra far cadere in secondo piano l’importanza dello spettatore e della sua percezione del lavoro visto in scena. In questo modo, il pubblico viene ridotto a un mero ricevente passivo di uno sfogo dell’artista sul palcoscenico, il cui raggio d’azione non supera una sua semplice autocelebrazione. Vengono trascurate così le grandi potenzialità che l’incontro ravvicinato con il pubblico può offrire, sia dal punto di vista di una sperimentazione e di un progresso della scena indipendente, sia da quello di un – seppur indiretto – cambiamento sociale e/o politico che l’arte performativa è in grado di innescare in chi si trova davanti. A conferma delle ipotesi sopra formulate, va rilevato che una delle conseguenze di un tale atteggiamento da parte degli autori e dei performer riguarda proprio il riscontro del pubblico agli eventi. A parte il primo giorno della programmazione, che ha registrato un’affluenza piuttosto ampia, gli spettacoli del settimo Festival Periskop hanno visto una partecipazione assai limitata del pubblico, che di rado superava le trenta persone in platea.

Petra Chelfi in “Parte Parte”.
Foto: RONI BRMALJ

Divario tra scena e pubblico
Concentrandosi (quasi) esclusivamente sull’esperienza artistica di chi si trova in scena, trascurando o non prendendo in considerazione quella di chi vi assiste, si preclude la possibile portata degli spettacoli rappresentati, consolidando il divario tra la produzione della scena indipendente e il pubblico potenziale. Lo spettatore che si trova ad assistere a rappresentazioni che sembrano ignorare la sua presenza stenterà, con tutta probabilità, a trovare uno stimolo per tornare a vedere quegli stessi spettacoli e altri a essi simili. Di conseguenza, anche un eventuale sviluppo di una data performance – che necessariamente matura progressivamente con ogni nuova replica – incontrerà dei limiti invalicabili. Dopotutto, nel campo dell’arte teatrale, è (o dovrebbe essere) la scena al servizio della platea, e non viceversa.

Esempi di buone pratiche
Nonostante ciò, nell’ambito della settima edizione del Periskop hanno trovato spazio anche alcuni chiari esempi di buone prassi. In questo caso va menzionata, in particolare, la messinscena diretta da Lee Delong, maestra della recitazione clownistica. In “Dovere”, l’attrice Nikolina Majdak offre una straordinaria interpretazione della lotta per la salvaguardia del mondo interiore dell’individuo, instaurando una comunicazione non verbale – ma ciononostante del tutto inequivocabile – con gli spettatori.

Nikolina Majdak.
Foto: IVOR HRELJANOVIĆ

A differenza degli spettacoli che pongono al centro dell’attenzione non il contenuto da trasmettere alla platea, bensì la forma in cui questo viene espresso, il progetto registico di Delong sembra partire da un’attenta considerazione dell’esperienza del pubblico allo scopo di arrivare a individuare la corretta maniera di presentare in scena il materiale narrativo dello spettacolo. Anche nella performance di Majdak lo spettatore viene introdotto in una visione individualistica del personaggio, ma, in questo caso, si tratta di una concezione che gli offre numerosi appigli ed espedienti per una reale partecipazione emotiva e bidirezionale. L’interpretazione di Majdak, nella regia di Delong, è accattivante, stimolante e carica di significato, e dimostra che le possibilità di una performance – che sia circense, di danza o di altro tipo – di comunicare e di dar vita a un’esperienza artistica davvero condivisa rimangono pur sempre infinite.

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display