«Nessun bambino dovrebbe crescere in un istituto»

Intervista a Mladen Kosanović, da vent’anni psicologo della Casa-famiglia «Ruža Petrović» con il quale abbiamo trattato diversi temi: il processo di deistituzionalizzazione dei servizi d’assistenza sociale, l’influsso della tecnologia e della pandemia da Covid, l’affidamento...

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«Nessun bambino dovrebbe crescere in un istituto»
Mladen Kosanovic, psicologo della Casa-famiglia “Ruža Petrović”. Foto: DARIA DEGHENGHI

Le stanze sono spaziose, luminose, arieggiate, colorate, pulite. Le educatrici sorridenti, disponibili, materne. Solo il refettorio sa ancora un po’ di caserma, ma anche questo sarà presto un relitto del passato perché la Casa-famiglia “Ruža Petrović” di Pola, erede di quella che un tempo è stata l’istituzione sociale dell’orfanotrofio, vive un momento di transizione decisivo: l’esperienza della deistituzionalizzazione dei servizi d’assistenza sociale indirizzati ai minori. Nell’immaginario collettivo il mondo degli istituti d’accoglienza o di correzione dei minori sono un tabù difficile a sradicarsi anche perché la letteratura, il cinema e una tradizione gotica ottocentesca comune a entrambi, hanno sempre dipinto del vecchio orfanotrofio immagini evocative di privazioni, povertà e crudeltà eccessive (che nella realtà oggettiva sono state circoscritte a pochi casi). La transizione dal “casermone” con i letti a castello, dozzine di bambini letteralmente stipati in stanze condivise per mancanza di spazio, la disciplina quasi militare, sono luoghi comuni e immagini persistenti della memoria collettiva che fino a qualche decennio fa potevano anche avere qualche parvenza di realtà, ma oggi non più. Ne parliamo con lo specialista Mladen Kosanović, da vent’anni psicologo dell’Istituto “Ruža Petrović”, in margine alla Giornata internazionale della famiglia.

Che cosa significa “deistituzionalizzazione” per un istituto d’accoglienza di minori?
Significa essenzialmente due cose: trasferire il maggior numero possibile di ragazzi in famiglie affidatarie e seguirli per così dire da lontano, e in secondo luogo significa trasformare noi stessi frammentando la collettività dei ragazzi in gruppi formato famiglia da sistemare in appartamenti condivisi da pochi ragazzi sotto la supervisione di un educatore alla volta, sempre allo scopo di creare condizioni di vita quanto più simili al modello familiare. Per questo ci troviamo in questa sede temporanea dell’ex Reparto psichiatrico del vecchio ospedale: siamo qui da marzo e ci rimarremo per un anno mentre la nostra sede di via Pino Budicin viene riqualificata appunto in funzione della separazione dei gruppi in piccole unità familiari. Il modello dell’appartamento condiviso si è rivelato utile anche nell’assistenza ai giovani maggiorenni, che vengono seguiti e aiutati anche dopo il conseguimento della maggiore età.

Quindi i ragazzi, compiuti i diciott’anni, non sono lasciati a sé stessi?
Assolutamente no. Formalmente la nostra istituzione si occupa di bambini e giovani tra i 7 e i 21 anni d’età. Una volta c’erano anche i neonati e i bambini in età d’asilo, ma una riforma dei servizi sociali ha cambiato anche questo perché i bambini della prima e della seconda infanzia hanno necessità formative specifiche difficili da ricrearsi in un istituto, fosse pure il migliore, a cominciare dal fatto che hanno un bisogno continuo di contatto fisico e di una presenza genitoriale costante. La nostra opinione è che l’istituto è utilissimo nei primi tempi dell’allontanamento del minore dalla famiglia in difficoltà, quando funge come una specie di pronto soccorso, per ridare sollievo, sicurezza e autostima al ragazzo che abbia subito un trauma psicologico e fisico. Poi si consiglia l’affido: nessun bambino dovrebbe crescere in un istituto perché con l’età che avanza i problemi non fanno che accumularsi. Il problema sta nel definire il confine tra sufficienza ed eccedenza. Abbiamo avuto casi divergenti, medie da 5, 10 e 15 e 20 anni di permanenza. In termini temporali trascorrere vent’anni in un istituto è davvero troppo. Ma anche in questa categoria di utenti abbiamo avuto numerose storie a lieto fine, bambini educati quasi esclusivamente dai servizi sociali che oggi sono adulti sani, attivi e realizzati sia personalmente che professionalmente.

Da che cosa dipende l’esito finale?
La lunghezza della permanenza non è necessariamente in correlazione col successo della formazione e della felicità futura. Alcuni dei nostri assistiti hanno 30, 35 anni e ci vengono a trovare, lavorano, si mantengono, si sposano, convivono, hanno dei figli, sono genitori premurosi. Ci sono, d’altro canto, casi in cui vengono a galla episodi di autolesionismo e tentativi di suicidio nonostante tutti i nostri sforzi investiti nel prevenirne l’insorgenza. Ci sono sempre stati e credo che non mancheranno mai soggetti maladattati alla vita in collettività e si parla di chi letteralmente non riesce a integrarsi e vive la sua condizione con grosse difficoltà emotive e comportamentali. Si parla di ragazzi che soffrono l’assenza dei genitori, la sovreccitazione della vita in collettività, la mancanza di legami personali con una figura genitoriale, l’ansia dell’abbandono. Poi c’è l’influsso innegabile dei fattori ereditari, una miriade di condizioni, limiti e possibilità insieme. L’esito finale dipenderà in larga misura dal prevalere dei fattori di vulnerabilità o di resilienza, cioè dai fattori che determinano la capacità dell’individuo di affrontare e superare un evento traumatico. Tutti i bambini possiedono un bagaglio di reazioni della prima e dell’altra specie, ma quale dei fattori prevarrà è quasi impossibile prevedere, non fino alla comparsa dei primi sintomi.
Recentemente ha dichiarato che anche l’incuria è una forma di violenza.
L’incuria è sicuramente una forma di abuso. Un genitore che non nutre e non cura il proprio figlio, che non provvede alla sua istruzione, alla sua crescita emotiva, alla sua sicurezza, all’igiene della casa e della persona, è un genitore che abusa dei propri figli e reca loro danni psichici. Ma queste non sono neanche lontanamente situazioni rare, né sono di norma legate alla condizione economica e sociale della famiglia. La famiglia povera non è necessariamente una famiglia che non assolve ai propri impegni verso i bambini, come la famiglia agiata non è garante di affetto, sicurezza e crescita emotiva soddisfacente, anzi. La realtà dei fatti smentisce sempre entrambe le credenze. In ogni caso il problema è globale e non specificatamente locale, e ha a che fare con un’inclinazione smisurata verso il benessere materiale, il successo economico, il possesso di tutti i dispositivi tecnologici disponibili e naturalmente la mania della connessione ininterrotta.

Quanto incide la tecnologia?
C’è un fenomeno molto interessante da monitorare nella nostra epoca. Alcune indagini stanno a indicare che genitori e figli si parlano a tu per tu tra i 5 e i 15 minuti al giorno. Al silenzio generale subentrano in apparenza le comunicazioni virtuali, che hanno preso il sopravvento. Le prove dell’abuso di Internet sono visibili: i bambini che sono cresciuti su Youtube parlano meglio l’inglese che la propria lingua madre. L’equazione è molto semplice: meno ci abbracciamo, meno ci rivolgiamo la parola e meno ci ascoltiamo, e più ci lasciamo sedurre dalla Rete, meno fortuna avremo nell’educazione dei figli e più saranno a rischio le loro prospettive di crescita interiori. E tutto questo anche senza mettere in conto i contenuti violenti o espliciti che contribuiscono alla generale erosione dell’empatia nel periodo formativo. A momenti mi sorprendo a fantasticare sul fatto che stiamo creando una società di cyborg con le multinazionali tecnologiche che continuano a produrre bisogni artificiali in maniera assolutamente artificiale. Naturalmente, i ragazzi non ne hanno colpa: il bambino coi pollici e lo sguardo puntato sullo smartphone ha copiato il solo modello comportamentale che ha avuto sotto mano: quello dei genitori. Anche noi educatori lottiamo contro la dipendenza dei bambini da Internet e notiamo le forme e i sintomi tipici della crisi d’astinenza quando cerchiamo di ridurre l’uso del cellulare: dall’ansia alle reazioni isteriche.

Che dire allora dell’influsso della pandemia da Covid-19?
In due anni lo abbiamo assodato: la pandemia ha influito negativamente sullo sviluppo sociale dei bambini. Misure epidemiologiche come il distanziamento sociale, i lockdown ripetuti, i divieti d’assembramento, la chiusura delle aule e delle palestre, le lezioni online, hanno danneggiato seriamente la salute mentale dei bambini e dei giovani. Personalmente ho notato un generale calo di entusiasmo, di umore, di interesse verso il prossimo, di desiderio di contatti sociali e di interazione. I contatti interpersonali sono rimasti sotto tono mentre è rimasto elevato il bisogno dei contenuti in Rete, e questi sono sintomi inequivocabili di disumanizzazione. Ma c’è di più: abbiamo notato anche un aumento sensibile dei casi di autolesionismo, di tentati suicidi, di episodi di delinquenza minorile, di fuga… Mi sono informato presso i colleghi del resto del Paese, e mi sono fatto un’idea del fenomeno in generale: senza esagerare, tutte queste sono conseguenze dei due anni di pandemia e di provvedimenti no-Covid.

Tornando all’affido quale alternativa all’istituto. Come si diventa genitori affidatari?
Premetto che ogni famiglia amorevole è sempre migliore dell’istituto e non è compito nostro andare in cerca di definizioni o limiti al concetto di famiglia. Si può essere affidatari in coppia, sposati o conviventi, ma anche single e gay, fermo restando le condizioni materiali, abitative e psicologiche per prendersi cura di un bambino, due o tre, che è il tetto massimo per l’affidamento. C’è anche un limite d’età: sessant’anni. E naturalmente l’obbligo di frequentazione di un corso d’abilitazione della durata di 40 ore, che organizziamo in cooperazione con il Centro d’assistenza sociale. Avuta la licenza, il procedimento continua con una sorveglianza regolare dei servizi sociali. Se mi chiede dell’omosessualità, le rispondo che la legge non conosce discriminazione né per sesso, né per inclinazione sessuale alla facoltà di educare un bambino in affido. Quelle che contano sono le attitudini psicologiche, che noi valutiamo attentamente prima di rilasciare la licenza all’interessato. Del resto quando mai la famiglia tradizionale, o se preferisce la coppia eterosessuale sposata, è stata la garanzia di un’infanzia infallibile? Se così fosse, il nostro istituto e i servizi sociali non avrebbero alcun motivo di esistere. E le dirò di più. Abbiamo avuto casi di omosessualità e di transessualità tra i nostri propri assistiti. Io stesso ho seguito una giovane transessuale nel suo percorso di transizione: la bambina che è stata è diventata un uomo adulto felicemente sposato, emotivamente e professionalmente realizzato. Ne ho seguito l’evoluzione nel case-study oggetto della mia specializzazione in psicologia clinica e le assicuro che si è trattato di una storia a lieto fine. Sono casi come questo che ci rendono orgogliosi di lavorare con i ragazzi, anche quando tutte le circostanze sembrano cospirare contro ogni nostro tentativo di riuscita.

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