«Haludovo»: da mecca turistica a gigante perduto

Il complesso è stato progettato dall'architetto Boris Magaš nel 1969 e realizzato nel 1972. È stato originariamente lanciato come «Attico sull'Adriatico», in collaborazione con l'eccentrico industriale italo-americano Bob Guccione, proprietario della rivista maschile Penthouse il quale, in seguito a una visita all'isola di Veglia e alla cittadina di Malinska, ne rimase affascinato al punto da volerla fare diventare una vera e propria mecca del gioco e della perdizione

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«Haludovo»: da mecca turistica a gigante perduto
Una delle piscine, vittima di atti vandalici e piena di detriti

Il complesso “Haludovo”, oggi avvolto dal silenzio e dal totale, tristissimo oblio, è forse la più conosciuta tra le strutture ricettive fantasma del nostro Paese. Dagli anni Novanta a questa parte, infatti, nessuno più apre la porta o risponde al campanello, nessuno accoglie gli ospiti. Immerso nella zona boscosa, con un lieve pendio verso il mare della suggestiva cittadina di Malinska, sul versante nord occidentale dell’isola di Veglia, direttamente a contatto con il nastro di sabbia di una delle spiagge più belle, il resort, molto in voga negli anni Settanta quale sontuosa e opulente mecca turistica, spesso definita tra le più stravaganti dell’Adriatico, oggi versa nel degrado più pietoso. Ormai non è nient’altro che un ammasso di ruderi e sterpaglia, di oggetti lasciati a sé stessi, di polvere e di enormi cumuli di materiali di scarto, vestigia di un passato glorioso dove il tempo si è fermato, consentendo alla natura di aggredirlo e prendersene possesso, icona feticista per gli amanti del turismo delle rovine.

L’atrio inferiore, stracolmo di tavole, con al centro il maestoso camino

Simulacro di una città
Raggiungere l’ex insediamento turistico è semplice e, già da lontano, al visitatore non sfugge che, nonostante la sua vicinanza al centro di Malinska, articolato in un’ordinato e diversificato conglomerato di altre strutture, inghiottite dalla densa pineta, in totale armonia con il paesaggio circostante, funge da entità separata, andando a formare una vera e propria città a sé stante. A detta del rinomato architetto che lo ha ideato, Boris Magaš, in un’intervista pubblicata nel 1972 sulla rivista croata “Arhitektura”, l’idea era quella di “creare un’atmosfera di esperienza lirica nell’architettura, ispirata alle bellezze naturali della strada costiera e di raggiungere, grazie al concatenamento tra esterno e interno, una totalità spaziale”. Osservandolo dal punto di vista architettonico, nonostante l’impietoso scorrere del tempo, appare evidente la grandiosità della suddetta visione e della sua realizzazione. Al centro del complesso oggi si staglia lo scheletro del famigerato “Hotel Palace” (che ha preso il nome dalla spiaggia vicina), l’albergo principale, da noi visitato, il quale, allo scopo di essere scorto da tutte le visuali, occupa una posizione di rilievo, affiancato da ciò che è rimasto degli altrettanto spettrali contenuti annessi. Nel 1970, anno della sua inaugurazione, la struttura, che si estende su oltre 100mila metri quadrati, era circondata, a mo’ di un sobborgo, da due raggruppamenti di bungalow, dall’albergo Tamaris (di categoria B), da due piscine, da una pista da bowling, da un altro edificio indipendente che faceva da reception e “porta cittadina” e da un bar sulla spiaggia. La stessa godeva anche della vicinanza di un piccolo villaggio di pescatori, con tanto di porticciolo, mirabile reinterpretazione dell’architetto Darko Turato dell’architettura vernacolare costiera, nonché da una miriade di villette a schiera al piano terra, le quali circoscrivevano il territorio. L’ensamble, caratterizzato dagli stili più vari, dal moderno al postmoderno, rappresentava all’epoca un’audace realizzazione di estetica e design, tale da essere considerato il miglior esempio di architettura rivierasca di tutta l’ex Jugoslavia.

Il corridoio che porta alle stanze del pianoterra

Il caos tra buio e luce
La prima cosa che colpisce trovandosi di fronte al palazzo, oltre all’impressionante stato di totale decadenza, sono la sua imponenza e l’assenza di rumori. Vi dimora, infatti, un ovattato silenzio, colmo di significati, al quale fanno da placido sfondo soltanto il cinguettio degli uccellini e il dolce sciabordio delle onde in lontananza. Sin da subito incute rispetto e stupore, oltreché una forte curiosità a entrare, a scoprire se è realmente come sembra dal di fuori. Varcate le rovine di quello che, una volta, era stato un maestoso ingresso, diventa chiaro che il “dentro” e il “fuori” sono, ora come allora, complici e che il procedere, l’immergersi in quel tempio delle macerie, popolato da un caos babelico intriso di buio e luce, lascerà il segno. Vi entriamo, guardinghi, e notiamo che il corpo principale dell’albergo è diviso in due parti distinte, il foyer a pianta aperta, costituito da due piani collegati da solide scalinate centrali in cemento e l’area delle piscine.

Per salire ai piani bisogna fare scale pericolanti

Lo spazioso atrio, ai suoi albori separato dalla vasta terrazza con vista mare da un’ampia membrana di vetro, ormai tutta in frantumi, nonostante la presenza di sfregiature in ogni suo centimetro, è generosamente penetrato da una luce zenitale, che accoglie e consola il visitatore, fornendogli un essenziale indizio dello sfarzo dei tempi che furono. Lo stesso è ritmicamente suddiviso da colonne bianche, alte e snelle, sfocianti in archi a forma di lesene, con funzione di rinforzo del soffitto, rivestito da una massiccia cupola di quadrati di luce realizzati in vetro, circondata da centinaia di blocchi di legno scuro, sporgenti e di diverse dimensioni, oggidì fatiscenti. La sensazione che il tutto crea è strana, come di sfida della forza di gravità.

Il bar centrale con i separè

Nel frattempo, spezzati e arrugginiti, di qua e di là, s’insinuano i resti delle robuste catene che sostenevano gli scenografici giardini pensili, i quali coltivavano l’atmosfera di quelli babilonesi. Sotto, abilmente fuso con gli altri ambienti e con quelle che erano le zone verdi, oggi incolte, tristemente insecchite ed esplose in un giunglesco disordine, è sita la monumentale lounge centrale. Adibita a confortevole ed elegante zona relax, con rotondi separé e arredi in stile retrò, è impreziosita dal bar a forma di cerchio, fulcro della vita della struttura ai tempi d’oro, e da un maestoso camino, che si protende fino all’ultimo piano. Girovagando tra i succitati spazi, appositamente esenti di qualsiasi parete, si ha una bella impressione di leggerezza, apertura, collegamento e continuità tra il piazzale del parcheggio, gli atri, la grande e attrezzatissima sala da bowling, le terrazze e il mare. Grazie ai giochi di luce e di design creati dall’architetto sembra che, tra le varie dimensioni, non vi siano confini.

La natura si è, ormai, impossessata dell’imponente complesso

La ramificazione della struttura
Intraprendendo il nostro cammino lungo l’interminabile, buio corridoio alla destra della hall, che si ramifica in svariate altre arterie, scopriamo le stanze per gli ospiti, più di cento e tutte molto simili, corredate da un piccolo balcone, che ci sorprendono (e forse deludono) per l’angustia, la semplicità e la monotonia dei pochissimi arredi rimasti (il che si ripeterà anche in quelle più ampie dei piani superiori e nelle suite). Infatti, vi scorgiamo soltanto qualche materasso dismesso, alcuni lavabi strappati dal muro, poche vasche da bagno ingiallite e tante tavole buttate in giro, appartenute alle basi dei letti. In quelle dei livelli più alti, che conquistiamo salendo delle scale manchevoli di balaustrate, la cui ascesa non è piacevolissima e, a tratti, si presenta addirittura pericolosa, la situazione è anche peggiore.
Tutto è invaso, ostentamente deturpato e tristemente offeso da inspiegabili e immotivati atti vandalici tradotti in scritte, bruciature, graffiti, cartacce, lattine di vario genere, strappi, scatole di sigarette, scheggiature e tanti, troppi vetri. Ciò che consola, però, raggiunto l’ultimo piano e uno dei balconi ad angolo annessi alle suite, è la bellezza mozzafiato del panorama, che abbraccia la cittadina di Malinska, le isole di Veglia e Cherso, per arrivare fino al Monte Maggiore. È lì che ci si rende conto dell’imponenza, al di là del solo albergo, del complesso “Haludovo”, il quale si esibisce, oltre che nelle strutture nominate già in precedenza, altresì nelle spaziose terrazze aperte e chiuse, nelle verande, nelle aree ricreative e d’intrattenimento (il casinò, la discoteca, le piscine, le saune), nei sentieri che portano alle spiagge e al villaggio, nel campo da golf. È incredibile quanto, nonostante tutto sia fermo, allo stesso tempo, paradossalmente, sia ancora vivo.

Per accedere all’”Hotel Palace” bisognava superare una rampa carrabile

La nostra ultima tappa è l’area delle piscine. Abbandoniamo le stanze e scendiamo. Raggiunto nuovamente l’atrio ci avviamo a sinistra e, durante il percorso, scopriamo altri spazi adibiti a negozi, guardaroba, camere per il personale di servizio, una capace cucina dall’enorme bancone, un salone di parrucchiere, altri corridoi bui e longilinei, magazzini e svariati bagni. Arrivati nella zona in cui sono ubicate le due vasche, una interna e l’altra esterna, assiduamente ostentate nei depliant e nelle cartoline anni Settanta, dall’acqua limpida e azzurra, con i bagnanti seduti sul bordo, ci rendiamo conto che, anche in quel caso, Boris Magaš, utilizzando la tecnica di eleganti frangisole e grandi vetrate divisorie, tra stile minimal e ricercatezza, creò le stesse dinamiche che caratterizzano il resto del complesso, un connubio perfetto fra il “dentro” e il “fuori”. Anche qui, purtroppo, il tempo, la natura e, soprattutto, l’uomo, hanno contribuito ad accelerare un complessivo processo di decomposizione strutturale che, però, nulla toglie al fascino originario.

Gli ampi spazi della discoteca con il camino centrale

Oggi, dicevamo, del lussuoso e celebre resort di una volta, ancora in piedi, ma devastato e lasciato alle intemperie e all’inesauribile atto della natura, è rimasto un enorme sudario di cemento disteso sulle rovine. Ciò, però, non tiene lontani i tantissimi visitatori, soprattutto gli esploratori urbani, i nostalgici, gli studenti di architettura e gli appassionati di fotografia, i quali giornalmente fanno visita al gigante perduto, attratti dal suo fascino misterioso e surreale. Infatti, bisogna ammetterlo, camminare per i suoi spazi silenziosi è una esperienza di forte impatto emozionale, che lascia ammirati e sgomenti nel contempo. “Saxa loquuntur” (“Le pietre parlano”) – si legge su una delle pareti e… a buon intenditore, poche parole.

Dai piani alti si gode una vista spettacolare

Una storia triste e bizzarra
L’Haludovo Hotel Palace è stato progettato dall’architetto Boris Magaš nel 1969 e realizzato nel 1972. È stato originariamente lanciato come “Attico sull’Adriatico”, in collaborazione con l’eccentrico industriale italo-americano Bob Guccione, proprietario della rivista maschile Penthouse il quale, in seguito a una visita all’isola di Veglia e, nello specifico, alla cittadina di Malinska, ne rimase affascinato al punto da volerla far diventare una vera e propria mecca del gioco.
Ben presto, però, la parabola iniziò a tracciare una curva discendente. L’agonia si protrasse per qualche tempo finché, nel 1973, arrivò il fallimento. Successivamente, fino agli anni Ottanta, il “Palace Hotel” operò dapprima in qualità di struttura alberghiera di lusso e, in seguito, fino al 1991, quale meta del turismo di massa. In quell’anno, con l’avvento della Guerra patriottica, divenne rifugio per i profughi e così il caviale, le aragoste e i fiumi di costoso champagne che scorrevano ai suoi inizi, dovettero lasciare spazio alla povertà e alla disperazione. Quattro anni dopo, con la proclamazione dell’indipendenza della Croazia, l’hotel era una pallida ombra della sua antica opulenza, fino al 2002, quando anche gli ultimi “ospiti” lo abbandonarono e inevitabilmente, demolito e sfigurato, chiuse definitivamente i battenti. Da allora il complesso passò, spesso loscamente, da mano in mano, fino a quando non venne rilevato dall’uomo d’affari armeno-russo Ara Abramyan il quale, a causa di impedimenti burocratici e/o di altra natura (leggi altri interessi), non si prodigò minimamente per rialzarne le sorti. Anzi, la sua totale indifferenza e noncuranza gli diedero il colpo finale.
A detta di Biljana Janjušević (nell’articolo “Oscurato dalle nuvole: Hotel Palace, Haludovo”, ripreso dalla rivista “Hidden Architecture”), nonostante il pericolante stato di degrado in cui versa, il complesso “Haludovo” è riconosciuto quale patrimonio culturale di particolare pregio architettonico. Nel 2016 è apparso nell’episodio di apertura della popolare serie televisiva “Slumbering Concrete”, nel 2018 è stato il protagonista della mostra fotografica “Haludizam/Haluddism”, allestita dal fotografo Damir Fabijanić al Museo dell’architettura di Zagabria e nel 2019 dell’esposizione “Concrete Utopia” al MoMA (Museum of Modern Art) di New York.

La sala da bowling, oggi irriconoscibile, era attrezzattissima

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