Tra realtà e fantasia: l’universo delle bugie

Si mente per sembrare più interessanti o attraenti, ma anche perché non ci si sente pronti ad affrontare un percorso di crescita

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Tra realtà e fantasia: l’universo delle bugie

Lo ammetto: da bambino ero un gran bugiardo. Mentivo per vantarmi di cose che avrei voluto fare, ma che non avevo mai realizzato e per questo spesso mi mettevo nei guai. Ero così coerente con le mie bugie da scivolare in finte confessioni tali da rendermi fastidioso e da buscarle di santa ragione dai ragazzi più grandi del vicinato. Le mie migliori bugie non cercavano alcun vantaggio se non quello di ricevere maggiori attenzioni e conquistarmi qualche amico nel quartiere. Mi trovavo spesso a essere escluso dai più grandi con i quali volevo legare, ma il calcetto in piazza non faceva al caso mio: ero soprannominato “piede a banana” e nemmeno fumare le prime sigarette era di mio interesse. Così avevo trovato il mio spazio di notorietà nel raccontare le storie più impensabili. Un lavoro continuo di cesellatura nella ricerca del dettaglio mentre mi sforzavo di guardare negli occhi i miei interlocutori, per dare sostegno alla mia grande fantastica architettura generale. Sembravano così vere le mie storie che mentre parlavo avevo l’impressione che non fossero più delle bugie. O forse era il contrario: dicevo bugie senza considerarle tali e questo non faceva che rafforzare l’apparenza della verità. Che la bugia, come diceva Byron, “sia verità in maschera” l’avevo già intuito.

 

L’importanza dei dettagli
Questo tipo di menzogne appartenevano al lato felice della mia infanzia, talvolta doloroso per via dei calci che mi beccavo sugli stinchi quando venivo scoperto o diventavo provocatorio verso i ragazzi più grandi. I miei coetanei invece all’epoca restavano affascinati dalle mie storie e avrebbero voluto ascoltarle più volte, chiedendomi dei passaggi specifici; come si faceva proprio in quegli anni con i dischi in vinile, portando indietro volutamente la puntina del giradischi per ripetere un momento musicale con il rischio di saltare dei solchi o addirittura di graffiarli per la troppa pressione esercitata. Accadeva così anche a me di cambiare alcuni dettagli o scordare dei passaggi innescando nuove domande al punto da sentirmi dire: “Bella storia, ma non può essere successa davvero!”. A quel punto mi sentivo in imbarazzo e cominciavo a difendere la finta verità della storia, diventavo ansioso e stavo male con me stesso; così arrivò il momento in cui il gioco si graffiò, rompendosi per sempre. Che cosa dovevo fare? Raccontare delle brutte, quotidiane bugie? Ma che piacere avrei avuto nel raccontarle se le avessi rese noiose e incoerenti.

Una possibile verità
Forse è stato a causa di queste critiche che decisi di non mentire più. Forse volevo semplicemente diventare adulto e dire bugie mi sembrava infantile. Così, come ho fatto spesso nella mia vita, da un giorno all’altro mi sono imposto si smettere di mentire. Crescendo ho cercato la strada della verità, ma ho cercato anche di trovare un compromesso. Tenendo presente quanto esercizio avevo fatto, sono diventato un discreto narratore di storie sforzandomi di essere fedele a quanto accaduto, ma sempre pronto a modificare alcuni elementi per rendere le mie storie personali e coinvolgenti. Ho cercato il confine tra il recupero di quanto vissuto e la sua manipolazione, che non ho mai considerato bugia ma un sano modo di ricostruire la realtà. Una ricerca in divenire di una prospettiva diversa, persa nel passato della memoria per ridare dignità, energia vitale a una storia rendendola più piacevole da raccontare.

La signora Flora
Come quando mi trovai a Milano invischiato, mio malgrado, in una storia di circonvenzione di un’anziana, la signora Flora, da parte di un truffatore che si spacciava per ingegnere idraulico e che si era insediato nella mia camera in affitto appunto dalla signora Flora, che gli aveva offerto ospitalità nei giorni in cui avrebbe dovuto montare due caldaie negli appartamenti che aveva in Brianza. La storia puzzava fin dalla prima sera quando, accesa la luce della stanza al rientro dal mio turno in teatro, ebbi un soprassalto notando i due gonfi piedi del presunto ingegnere spuntare dal fondo del letto accanto al mio. Occorreva intervenire subito e avvisare i figli, fratelli gemelli, della signora Flora, ma era un periodo di fine studi e temevo di perdere la stanza dove pagavo un affitto a me molto conveniente. La parte più divertente della storia arriva quando i due gemelli, scoperta la faccenda, in attesa dell’arrivo della polizia a casa, mi chiamarono urgentemente per chiedermi ragguagli e spiegazioni riguardo a un sacchetto di cocaina che lo stesso signore aveva nascosto a mia insaputa in un armadio della mia camera. Volevano compiere una sorta di indagine preliminare, accertarsi che la droga non fosse mia e a detta loro scagionarmi da eventuali problemi prima dell’arrivo dell’ispettore. Ho raccolto nella mia memoria una serie di dettagli tragicomici del loro modo di provocarmi per mettermi alla prova e verificare eventuali mie responsabilità nella vicenda. Tuttavia non li racconterò in quest’ occasione. Basti sapere che la storia si concluse abbastanza bene per me, che mi ritrovai fuori di casa, e molto male per la signora Flora, che di lì a pochi giorni sarebbe stata ricoverata in una clinica per anziani. Da aggiungere che per espiare il mio silenzio e la mia incapacità di reagire mi misi a disposizione della polizia per arrestare il truffatore che non era la prima volta che si approfittava di anziane signore ed era già agli arresti domiciliari da un anno. Ovviamente, alcuni dettagli del racconto divennero un lungo racconto che ho ripetuto ai miei amici almeno dieci volte in dieci modi diversi. Era diventato il gioco della storia raccontata da punti di vista, momenti e personaggi diversi e spesso da me inscenata facendo tutti i ruoli. I miei amici storici ogni tanto mi chiedono di ripeterla ancora a distanza di tanti anni e ogni volta scopro nuovi dettagli.

La luce di Diogene
Ma il punto è un altro. Più raccontavo la storia della signora Flora accaduta nel 2001 e più la trasformavo più questa si delineava in modo chiaro nella mia mente, come se per me la verità fosse arrivata in seguito all’accadimento. Perché nella confusione di quei giorni mi era sfuggito un aspetto importante che solo l’esercizio del racconto aveva messo in evidenza: quell’uomo, quel truffatore, tutto sommato si era preso cura di lei. Letta così la vicenda ho avuto sempre più la sensazione che Flora fosse al corrente di tutto. Nel raccontare la storia in modi diversi ho trovato una distanza, che in questo caso mi ha permesso di mettere a fuoco meglio anche la posizione dei due figli gemelli; personaggi insensibili, preoccupati solo di sé stessi e non della solitudine della madre, intenti a risolvere velocemente l’ingombro di un’anziana innamorata e in maniera sbrigativa definita dai gesti “pericolosi”, ormai vicina, a loro dire, alla demenza senile.

Attenermi alla fede della verità mi avrebbe portato solo a inanellare una serie di fatti in sequenza come la più banale e triste delle cronache finendo così per dimenticarla. Ecco che tenendo accesa la luce di Diogene nel giardino della verità, guardo con interesse ai bordi di quel lembo di terra per trovare piantine rare che crescono nella penombra. Per anni ho provato nostalgia per le lunghe, convincenti e gratuite bugie dei bambini e oggi provo un certo piacere nell’ascoltarle; poi il nostro mondo, quello degli adulti, sa essere così pieno di compromessi e menzogne. Parafrasando il “paradosso del mentitore” un poco di bugia nel vero rende dolce la verità.

Il fascino del menzognero
È anche vero che nel mondo adulto mi è capitato di incontrare dei bugiardi patologici dotati di un certo fascino. Non mi riferisco a quelli più amatoriali che hanno fatto della menzogna la loro maschera nella vita. Ne ho in mente alcuni che si presentano con un sorriso stampato in faccia anche quando non richiesto, sapendo che con quello potranno immediatamente ungere meglio le parole che andranno a sciorinare per il loro vantaggio personale. Ma degno di nota a mio avviso come premio “barone di Munchausen” resta un signore che incontrai non tantissimi anni fa, e che potrei nominare come il signor M., la cui “notorietà” nelle pagine di cronaca era legata ad alcune splendide ed articolate menzogne, un vero copione da spy story, riguardo a tangenti per un affare internazionale nel settore delle telecomunicazioni. Prima di far perdere le sue tracce tra l’Inghilterra e la Svizzera, M. era diventato persona molto vicina a una mia cugina. Mi chiedevo cosa avrebbe potuto fare per me uno che si spacciava come conte, finanziere, amico della massoneria deviata, proprietario di un’isola? Mi spaventava e mi incuriosiva… e decisi di incontrarlo al parco ducale di Parma. M. si presentò vestito di tutto punto come dovesse incontrare un’autorità e la sua gentilezza e il suo calore mi fecero scordare la presenza dei poliziotti che sorvegliavano a distanza. Mi raccontò dei suoi contatti col mondo del cinema e di come avesse passato molta della sua giovinezza come stuntman a Cinecittà, incrinandosi sovente costole e provocandosi come un eroe in guerra escoriazioni di ogni tipo. Restai imbambolato dai suoi racconti, pieni di dettagli e di momenti divertenti vissuti, stando a lui, con registi come Bava e Fulci che negli anni ’70 avevano fatto grande il “Giallo all’italiana” nel mondo. La sua esperienza nel “Giallo italiano” di trent’anni prima mi dava una sola certezza: la garanzia che sarei tornato a casa divertito e di sicuro disoccupato. Ascoltare M. era come trovarsi davanti a un bambino cresciuto, nella sua di “libertà vigilata” al parco e felice di potersi raccontare. Così il bambino che c’è in me stette al suo gioco e fu una festa a chi la sparava più grossa. Ma la rottura del climax arrivò quando mi chiese se avessi un pezzo di carta per segnarmi quella che sarebbe stata la “mappa del tesoro” che mi stava donando. Mi aspettavo almeno qualche numero di telefono, invece fu più demenziale del previsto; mi comunicò semplicemente il quartiere e la via dove abitava il tale regista con il prezioso consiglio di fare il suo nome e all’apertura della porta fulminare il malcapitato raccontando un dettaglio su uno scherzo che aveva subito dal signor M.

Le falsità bianche
Riconosco anche l’angoscia che si cela dietro alla menzogna, quella dei bambini che mentono per proteggersi, perché il mondo è pieno di trappole e umiliazioni e la bugia può dare un po’ di tregua. Dall’altra parte, il mondo adulto è ricolmo di piccole “falsità bianche”, di dolci bugie: complimenti insinceri, voglia di compiacere e fare finta che tutto vada bene. Un’autopromozione tesa ad apparire più interessanti sul luogo di lavoro o più attraenti nelle relazioni personali. Potremmo chiamarli anche compromessi, “lubrificanti sociali”, fondamentali nella convivenza tra persone. Magari perché intenti a proteggere l’altra persona e farla sentire bene; come quando qualcuno a noi vicino ci chiede se quel vestito appena acquistato vesta bene; di solito diciamo che è “uno splendido vestito!”. Ma vogliamo anche proteggere noi stessi dai conflitti o dalle punizioni con la tipiche frasi “Non sono stato io!”, “Sto entrando in un tunnel!”, “Sarò pronto in cinque minuti!”.

«Abbellire la realtà»
Ci sono poi coloro che credono a cose oggettivamente non vere e quindi spacciano il falso per il vero. Qui siamo in presenza di mentitori o di vittime? Non credo siano dei mentitori, piuttosto sono vittime a loro volta della menzogna, da parte di una cerchia di persone che hanno una certa influenza su di loro. Sono forse portatori di menzogna per loro stessa ignoranza e per convinzioni inconsce si rifiutano di uscire dalla tela del ragno. In altre parole quando si comunica da adulti è per realizzare degli obiettivi e la piccola menzogna è anche un modo per ottenerli senza sprecare troppa fatica. Più grave è quando, sempre da adulti, la menzogna diventa un modo per allontanarci da una realtà che non vogliamo affrontare, da un cambiamento che non vogliamo percorrere eludendo così un’opportunità di crescita. Si cerca allora nella bugia una soluzione temporanea con la quale spostare in avanti un problema, pronto a ripresentarsi in futuro perché non siamo disposti ad accettare “quella verità”.

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