Fiasco, l’uomo venuto dal nulla

Si era «materializzato» all’improvviso, dormiva qua e là, amava viaggiare... Nessuno sapeva il suo nome, ma riuscì a evitare un grande rastrellamento. Inutili i tentativi di dargli un riconoscimento... «Non sono un eroe. Mi sono comportato come la mia coscienza mi suggeriva»

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Fiasco, l’uomo venuto dal nulla

L’unica cosa che ancora si riusciva a trovare nelle campagne era il vino: un vino sincero, giovane, certamente poco curato, ma che aveva la caratteristica della genuinità degli anni della guerra. Oltre che privarci di tutto, ci stavano portando alla convinzione che ormai ogni cosa era possibile tra sconvolgimenti, paure e odi sociali. Il coraggio delle persone era spesso una caratteristica dovuta alla reazione dettata dalla paura piuttosto che un sentimento connaturato.

 

In quel periodo, nelle campagne dell’alta Lombardia, si “materializzò” un uomo che nessuno aveva mai visto prima. Di aspetto emaciato, vestito con abiti dimessi che dimostravano l’uso frequente in ambienti non proprio confortevoli. Sembrava uno dei tanti vagabondi che l’armistizio aveva generato, soltanto che in lui si indovinava una personalità marcata che lasciava perplessi quando parlava. Di età avanzata, girava sempre con un fiasco di vino mezzo pieno, mentre il suo aspetto e le movenze lo facevano sembrare come se vivesse perennemente in uno stato di etilismo allegro. Dormiva qua e là, dove capitava. Mangiava quello che riusciva a racimolare grazie alla simpatia che emanava. Aveva una grande passione: viaggiare, o come diceva lui: “Andare su e giù”. Non è che a quei tempi si potesse viaggiare molto, ma lui trovava sempre il modo di salire su un treno, su un autobus, su un camion e di scorrazzare e raggiungere le più diverse località.

Domande senza risposta
Nessuno conosceva il suo nome, non si sapeva dove era nato e lui non rispondeva mai a queste domande. Le risposte erano sempre dei borbottii inframmezzati da frasi salaci e da battute sottolineate da gesti ed espressioni che richiamavano il suo modo di fare perennemente brillo. Ma poiché non arrecava mai alcun danno o né destava preoccupazioni, nessuno a quei tempi aveva mai avuto nulla da ridire. La gente lo aveva soprannominato “Fiasco”, così lo indicava e lo chiamava, senza che lui avesse nulla da eccepire. Sembrava interessarlo un’unica cosa: il suo fiasco di vino. Ormai non c’era abitante di casolare che non lo conoscesse e che non si offrisse di dargli una fetta di polenta e di fargli il pieno di vino quando passava dalle loro parti. Quel giorno, sotto un cielo plumbeo e con una temperatura che cristallizzava di ghiaccio le numerose pozzanghere, Fiasco salì sul primo treno che portava verso nord, beandosi di trovare un po’ di caldo in quelle sgangherate carrozze della linea per Verona. Trovò un posto stretto tra due contadini indaffarati a sistemare i loro cesti; posò accuratamente il suo inseparabile fiasco sulle ginocchia e socchiuse gli occhi abbandonandosi allo sferragliare del treno.

Biglietto e documenti
Un’energica scrollata lo riportò alla realtà. Aprì lentamente gli occhi e con calcolo protese in avanti il suo inseparabile fiasco come a proteggersi da quella intrusione. “Biglietto e documenti”, stava chiedendo una voce tra lo scocciato e il perentorio. Era un milite della milizia ferroviaria che non aveva mai visto e che stava chiedendo due cose che Fiasco non possedeva. Subito dopo, ancor prima che potesse rispondere, ecco la voce di un altro milite, un graduato con il quale Fiasco aveva spesso scambiato battute durante i suoi viaggi sul treno fece: “Ehi, Fiasco, come va”. Poi, rivolgendosi al milite che gli aveva fatto la richiesta del biglietto, aggiunse: “Lascia stare, lascia stare, ci penso io. È un amico”. Fiasco era abituato a questo tipo di incontri e reagiva sempre blandendo immediatamente il suo interlocutore con battute scherzose quasi a impedirgli di porre delle domande che potessero essere pericolose. Il graduato sapeva che Fiasco non aveva documenti. Lo avevano interrogato, tempo addietro, al Comando della milizia, cercando di conoscere il suo nome e la sua provenienza e, come sempre Fiasco aveva farneticato parlando di bombardamenti ai quali era sfuggito, frammischiando amnesie, paure, tragedie e la sua passione per il vino che sottolineava con generose sorsate. Forse lo consideravano anche pazzo, un pazzo innocuo e per il quale non meritava certamente di perdere del tempo che serviva per risolvere ben altri problemi più urgenti. La pensavano così anche al comando tedesco e lo lasciavano spesso entrare per dargli una pagnotta di pane nero o una gavetta di minestra calda. Tra una battuta e l’altra, lamentandosi del freddo e della vita precaria che conduceva, Fiasco blandiva il graduato della sua invidiabile carriera e della relativa tranquillità guadagnatasi nell’evitare la pericolosità del fronte.

Il comandante partigiano
“Già – si sentì rispondere –, sempre che stanotte non mi tocchi passarla al comando a Verona a sentire gli ordini di preparazione del grande rastrellamento che stanno organizzando i tedeschi in Lombardia e nel Veneto assieme alla milizia”. Fiasco non si azzardò a chiedere altro per non insospettire il milite. Sorseggiando dal suo fedele fiasco, li salutò e si rimise seduto. Tre fermate dopo scese dal treno. Il giorno stava morendo e c’era ancora un po’ di luce che lasciava intravedere la piazza della stazione e il lungo viale alberato che conduceva al centro del paese. Si sedette su di una panchina, rannicchiandosi nel pastrano e attese il buio. Da un po’ di tempo, ogni settimana, al medesimo giorno e alla medesima ora aveva un appuntamento con un motociclista che lo veniva a prendere, lo trasportava per una strada impossibile tra i boschi e lo lasciava nei pressi di un casolare dopo un lungo percorso. Lì Fiasco trascorreva la notte, ospite di una famiglia di vecchi contadini. Al mattino, lo veniva a prendere un giovane e lo accompagnava per un lungo sentiero sino a un cascinale nascosto nella brughiera di cui non conosceva l’ubicazione. Lo attendeva una sua vecchia conoscenza: uno dei comandanti partigiani della zona al quale Fiasco raccontava tutto ciò che aveva avuto modo di sentire nel corso dei suoi sporadici incontri con i militi fascisti e i soldati tedeschi. Erano questi gli unici momenti nei quali Fiasco abbandonava la sua espressione abituale e il suo comportamento costruito ad arte, con il quale era conosciuto.


Una notizia importante
Questa volta aveva una grossa notizia da riferire: la preparazione di un grande rastrellamento in zona. Sì, ma in quale posto esattamente, quando e con quale tecnica. Il comandante partigiano conosceva bene la disponibilità e l’abilità di Fiasco nell’ottenere le informazioni e perciò decise di lasciare a lui l’iniziativa e il modo di raccogliere notizie più precise. Fiasco, da qualche giorno si faceva trovare puntuale all’ora del rancio presso la caserma dov’era acquartierata la compagnia tedesca. Per la maggior parte erano giovani soldati che si divertivano a prendere in giro Fiasco e ridevano delle sue battute pronunciate in un tedesco pressappochista. Erano battute calcolate che gli permettevano di intrattenersi più a lungo nei vari locali della caserma. Fiasco conosceva perfettamente il tedesco, ma non lo dava a vedere anche quando rideva invece di offendersi per qualche battuta non proprio gentile che qualche soldato gli indirizzava. Captava tutto e cercava di ricordarsi ogni particolare che potesse essergli utile da riferire. Spesso, tra i soldati, gli ordini e la preparazione per le azioni di guerra venivano discusse o mormorate con critiche, apprensioni, sottintesi. Fu così che Fiasco venne a conoscenza della data e della strategia del rastrellamento. In seguito riferì tutto al comandante partigiano. C’era una cosa però che non era ben chiara; si parlava in particolare di un paese del quale il comando tedesco voleva vendicarsi. Dei partigiani che si sospettava appoggiati da alcuni abitanti, avevano teso, tempo addietro, un’imboscata a un reparto germanico, uccidendone i componenti.

Una notizia da carpire
Era un territorio molto vasto e di tali azioni però se ne erano verificate diverse nella zona. Occorreva conoscere perciò esattamente l’ubicazione del paese per cercare di salvare le persone evacuandole in tempo. Infatti i tedeschi, per rappresaglia, volevano fucilare tutti gli abitanti e cancellare il paese incendiando le case. Un lavoro ad hoc per Fiasco! Per quanto si desse da fare nel cercare di conoscere il nome o l’ubicazione del paese, Fiasco non riusciva a carpire alcuna indicazione. Nelle sue visite alla caserma durante le ore del rancio, teneva le orecchie bene aperte, ma il nome non veniva mai pronunciato. Venne a sapere però la data esatta del rastrellamento, capì che la partenza dei camion con i soldati sarebbe avvenuta all’alba e che l’azione sarebbe durata un paio di giorni. Dunque l’ubicazione del paese era piuttosto lontana se si trattava di rimanere fuori due giorni, forse aveva il tempo di avvertire il comandante partigiano, sempre che fosse riuscito a mettere in atto quello che considerava un piano pazzesco, forse la più pazza e sconsiderata rappresentazione della sua teatralità.

Lo show alla stazione
L’indomani mattina, poco prima dell’alba, Fiasco uscì dalla sala di attesa della stazione ferroviaria dove aveva passato la notte e si incamminò verso la periferia del paese, lungo lo stradone sul quale dovevano transitare i tre camion, come aveva sentito parlare, del contingente tedesco il quale si doveva riunire alla compagnia guastatori e ai militi italiani della guardia nazionale, prima di muoversi l’indomani mattina verso la zona del rastrellamento. Si mise ai bordi della strada con il suo fiasco ben stretto al petto. L’alba cominciava a schiarire le nuvole mentre la rugiada faceva brillare la campagna. Un coniglio selvatico attraversò la strada di corsa, mentre si faceva più nitido il rumore sordo dei camion che Fiasco stava aspettando. Li vide spuntare dalla curva con i fari accesi e, quasi d’istinto, si piazzò in mezzo alla strada agitando il fiasco e il cappello per farsi notare prima che giungessero vicini a lui. L’autista e l’ufficiale del primo camion lo riconobbero subito e quasi stupiti da quella visione, fecero rallentare la colonna. Si fermarono mentre Fiasco ancora sbraitava. L’ufficiale scese dal camion tra il divertito e il preoccupato. “Cosa è questo, sei pazzo? Non vedi colonna di militari”, si mise a gridare. “Sempre ubriaco tu”, aggiunse. Fiasco cominciò a gesticolare e farfugliare, inserendo nel discorso sconclusionato come solitamente usava fare, le giuste parole in lingua tedesca per farsi capire. La linea ferroviaria aveva subito dei danni, giorni prima, a causa di un deragliamento e lui sentiva assolutamente la necessità di muoversi, di respirare. Tirando fuori altre sconsiderate incombenze sembrava talmente agitato che stupì perfino l’ufficiale tedesco. Era li ad aspettare un fortuito passaggio di qualche mezzo, ma non passava nessuno. Non potevano forse aiutarlo, caricandolo in un camion?

Gettare l’amo…
“Tu, veramente pazzo. Tu ubriaco anche mattino”, cercava di calmarlo l’ufficiale, ma siccome i minuti passavano e Fiasco sbraitava a più non posso, anche in considerazione del fatto che lo conoscevano tutti, sapendolo una persona innocua, lo face salire sull’ultimo camion con la promessa di mettersi buono e tranquillo. I soldati lo accolsero festosamente e subito l’atmosfera si fece più ridanciana con Fiasco che teneva banco con barzellette e moine varie, facendo finta di sorseggiare la sua riserva di vino e tendendo bene aperte le orecchie per sentire se veniva pronunciato il nome del paese. Ci riuscì dopo molti chilometri elencando diversi paesi dove si mangiava bene e dove c’erano delle belle donne: argomento che interessava molto i soldati tedeschi. Fu come un amo gettato in un lago pieno di pesci. Uno dei soldati abboccò facendo il nome del paese, chiedendosi se anche quello interessato dall’azione vendicativa fosse pieno di belle donne. Verso mezzogiorno giunsero nei pressi di un bivio vicino a un paese che Fiasco conosceva bene. La colonna si fermò per permettere un rapido rancio alla truppa e qui Fiasco ne escogitò un’altra delle sue; si inventò un terribile male di pancia, nausea e un impellente bisogno corporale. Non ce la faceva più a proseguire sul camion e pregò l’ufficiale di lasciarlo lì che si sarebbe arrangiato mentre loro proseguivano verso la destinazione.

Missione riuscita
Aveva calcolato tutto Fiasco. Il paese dove era sceso non era molto lontano dal suo obiettivo e poi aveva un amico che abitava in un podere poco distante. Incaricò il suo amico di portare la notizia al comandante partigiano, raccomandandogli di raggiungerlo il più presto possibile. Finalmente un po’ di riposo, pensò, e si distese andando incontro a un sonno profondo. L’indomani si fece portare sulla strada dov’era transitato a bordo del camion tedesco. Rimase lì in attesa per diverse ore, attanagliato dall’emozione e dall’aspettativa, sin tanto che ricomparve la colonna dei camion che ritornava. Ripetè la manfrina dell’andata per farsi dare il passaggio e, questa volta, fu molto più semplice scoprire la delusione dei soldati che non erano riusciti a completare il rastrellamento in quanto avevano trovato il paese privo di tutti i suoi abitanti. Erano infatti riusciti a scappare per tempo, misteriosamente avvertiti e accompagnati in un luogo sicuro. Avevano dato solamente fuoco alle case, spiegarono a Fiasco che, forse per la prima volta in circostanze simili, abbozzava un sorriso diverso mentre trangugiava un generoso sorso di vino.

Senza lasciare traccia…
La guerra finì la primavera successiva e mentre le colonne germaniche tentavano di riguadagnare i loro confini, Fiasco sparì, così come era comparso, senza lasciare alcuna traccia. Ci fu chi si interessò per fargli avere una riconoscenza. Ci fu anche la proposta alla Presidenza del Consiglio per una medaglia al valor militare. Proposte impossibili da realizzare perché non c’era un nome, non esistevano i dati anagrafici e lui era irrintracciabile. Uno scultore del posto, che realizzava in legno le effigi dei santi per le processioni, scolpì una piccola statua che lo raffigurava con il fiasco stretto al petto. Era molto somigliante e il sindaco si offrì di sistemarla all’ingresso del municipio. Un mattino, recandosi in Comune, il sindaco notò che la statua di Fiasco era sparita. Al suo posto era posata una busta gialla indirizzata “al sig. sindaco”; dentro c’era un foglio scritto a mano che recitava così: “Caro sindaco, mi sono appropriato della mia effige. Mi sono comportato come la mia coscienza mi suggeriva. Non voglio essere ricordato come un eroe. Mi voglia scusare e gradisca i miei più cordiali saluti. Fiasco”.

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