Alle porte della bora di Segna

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Alle porte della bora di Segna

Ci sono vari modi per salire al pianoro di Vrataruša, che grossomodo si estende sulle falde della Velika Kapela rivolte all’Adriatico, tra Sibinj e la città di Segna; quello più semplice è seguire la strada sterrata che parte dalla Litoranea adriatica a Klenovica e s’inerpica verso l’alto. Percorrere il Carso a piedi è però tutt’altra cosa, per cui decido di seguire la mulattiera che inizia dall’insenatura di Kozica e serpeggia in cima al costone che sovrasta Tomišina draga fino a Šušanj. Ben presto il percorso diventa un sentiero di capre e si è costretti a proseguire con molta attenzione per non incespicare negli spuntoni di roccia corrosa dalle intemperie; la visuale che mano a mano si allarga salendo, diventa però sempre più interessante e svela ogni anfratto delle falesie di Veglia, che s’innalzano gigantesche sulla sponda opposta del Canale del Velebit.

La fioritura Degenia

Vengo volentieri fin quassù in aprile per ammirare le fioriture della Degenia del Velebit, scoperta in loco qualche decennio fa, che prospera sulle “grize” battute inesorabilmente dal sole e dal vento. È la sua peculiarità quella di resistere a condizioni estreme ed è per questo che è stata eletta a simbolo di un territorio dove vivere è stato sempre difficile e dove le genti si sono ingegnate nei modi più fantasiosi nell’adempiere al meglio ai loro piccoli e grandi impegni quotidiani.

I discendenti dei Bunjevci

Sul pianoro di Vrataruša, in varie piccole frazioni e nel paese di Krivi Put vivono ancora, anche se in numero esiguo, i discendenti di un ramo dalla stirpe dei Bunjevci, giunti dall’Erzegovina occidentale e meridionale verso il XVII secolo e quindi abituati a combattere giornalmente per l’esistenza in una terra povera di risorse. Sino all’abbandono del territorio verso gli anni ‘60 del secolo scorso, sul pianoro pascolavano bovini dell’antica razza balcanica Buša, assieme a cavalli e asini, che costituivano la principale fonte di sostentamento.

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La sagra di Segna

Erano però soprattutto le pecore pramenke (bioccolaie), che figliavano a marzo e aprile, gli animali da cui si ricavava il massimo: il latte, la carne, ovviamente seccata alla bora per essere conservata e la lana, lavorata in vari modi, che costituiva una parte della dote delle ragazze. Il sovrappiù di latticini, formaggio, grasso di latte e burro, veniva caricato, assieme alla legna da ardere, sulle bestie da soma e portato dalle donne alla sagra della città di Segna settimanalmente (o anche più spesso) per essere venduto o scambiato con beni essenziali (zucchero, farina, mais, sale, petrolio da ardere e quant’altro). Anche il ghiaccio, prodotto dalla neve compressa con pertiche in conche scavate nell’argilla, soprattutto nei pressi del paese di Veljun, veniva trasportato a valle, all’epoca in cui le ghiacciaie moderne non esistevano ancora.

La discesa verso il mare

Sul pianoro, in minuscoli appezzamenti cinti da muretti a secco, si coltivavano patate, cappucci, orzo, avena e farro, un cereale molto antico e resistente a un clima dalle estati secche e brevi e dagli inverni gelidi e ventosi, in un territorio dove il manto nevoso, a causa della bora, forma accumuli giganteschi che bloccano il transito a volte sino alla primavera. L’impossibilità di coltivare piante da frutto, a parte qualche raro susino, veniva compensata dalla raccolta di bacche selvatiche: lamponi, cinorrodi di rosa canina, fragole di bosco e trnjule (corniole), che assieme al miele prodotto da ogni terza famiglia, riuscivano ad addolcire una vita il cui ritmo era scandito dall’alternanza delle stagioni: la primavera con la cura intensa dei nuovi nati nelle mandrie, l’estate sfruttata al massimo per la fienagione, l’autunno per la raccolta e l’inverno, specie se molto intenso, durante il quale si effettuava spesso la discesa verso il mare con le pecore, per superare i suoi tremendi rigori.

Un gelo… leggendario

Un gelo leggendario, quello dell’intera area, reso ancora più intenso dalla bora, che vi spira per gran parte dell’anno e che oggi alimenta il Parco eolico di Vrataruša, costruito nel 2009 e messo in funzione, dopo un lungo periodo di prova, nell’anno successivo. Con 14 aerogeneratori, alti ciascuno 80 metri, l’intero impianto possiede una capacità di 42MW ed è allacciato alla rete elettrica. Per l’umanità, l’energia del vento ha rappresentato una fonte preziosa già dall’antichità; i marinai per primi s’ingegnarono a sfruttarla come forza propulsiva per la navigazione, impiegando la vela. La ruota a vento di Erone d’Alessandria, all’incirca nel primo secolo d.C. costituì la prima applicazione dell’energia eolica ad una macchina, mentre i mulini a vento, ideati nel VII secolo d.C. si diffusero ben presto dall’Asia all’Europa.

Rapaci in pericolo

Oggi più che mai, rientrando nella schiera dei tipi di energia rinnovabile, assieme a quella geotermica, idroelettrica, marina, solare e da biomassa, l’eolico è in crescita esponenziale, tanto che nel 2016, secondo il rapporto della European Wind Energy Association è diventato la terza principale fonte di produzione d’energia nell’Unione europea. Ovviamente, anche se in modo contenuto, anch’essa provoca una sorta d’impatto ambientale, in quanto modifica la struttura del territorio; la minaccia più grave sono però i danni prodotti ai rapaci, categoria già di per sé minacciata, che proprio nelle aree del vento hanno di solito i loro corridoi di migrazione. Concretamente, il parco eolico di Vrataruša sorge proprio di fronte ai territori di Prvić e Kuntrep, Glavine e Mala luka dove nidificano alcune colonie di grifoni; capita quindi che i grossi avvoltoi talvolta incappino nelle grandi eliche (le cui pale misurano 45 m) subendo gravi danni o addirittura la morte. A loro discapito va anche il fatto che, durante i voli di ricognizione a caccia di carcasse, il loro sguardo è sempre rivolto verso il basso, per cui non prestano assolutamente attenzione alle pale in movimento. I pro e i contro, dunque, esistono, ma la domanda è: chi di noi rinuncerebbe oggi all’energia elettrica e tornerebbe alla vita rustica che un tempo si viveva anche qui a Vrataruša, trascorrendo le notti accanto al focolare acceso e al lume di petrolio?

Il «confine» del Vratnik

La giornata serena, con poco vento (comunque immancabilmente presente), mi permette di raggiungere abbastanza presto, tramite il sentiero sotto il Veliki Veljun, la strada che scende dal vicino passo del Vratnik, in cima alla Senjska draga. Da qui intanto, mentre aspetto un passaggio fino a Segna confidando nella buona sorte, mi godo la vista della gola, ricoperta dallo splendido manto verde scuro dei pini neri autoctoni, relitti di antichi boschi risalenti alle ere glaciali. Il sovrastante Vratnik rappresenta il confine naturale tra la i monti della Kapela e il Velebit. Trovandosi a 694 metri sul livello del mare, è stato da sempre, proprio per la sua scarsa altezza, un valico importante per gli umani in transito dal mare verso l’interno e viceversa. I Giapidi eressero un insediamento nei suoi pressi, mentre all’epoca romana vi si trovava un’importante stazione di posta, dogana e controllo del traffico.

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Una potenza incontrollabile…

Quello che comunque nessuno è riuscito a controllare mai, è la potenza della bora, incentivata proprio in questo punto dalla scarsa altitudine della catena dinarica; insinuandosi come un gigantesco cuneo in movimento sotto le sovrastanti masse d’aria calda, travalica il crinale con una potenza inarrestabile, spesso pari a quella di un uragano, scaricandosi in basso, verso la costa e talvolta anche sino alle isole. A Segna giunge da E-NE a causa della configurazione del litorale e della catena montuosa alle spalle e spira per ben 203 giorni all’anno, con intensità variabile. Di solito dura un giorno solo, ma può farlo anche per cinque o sei. Il record è stato raggiunto nel 1956, con 35 giorni di attività ininterrotta. In città la bora raggiunge anche il culmine del gelo per cui è in grado di creare, con l’acqua sollevata dal mare, formazioni ghiacciate simili a quelle che si formano sul Baltico. L’ultimo di questi episodi si è verificato nel 2012.

Una storia ricca

“Čuvaj se senjske bure i brkate cure” (Attento alla bora di Segna e alle ragazze baffute) dice uno spiritoso adagio locale. In barba alla bora, posato per oggi lo zaino, in quest’ora pomeridiana sto sorseggiando un ottimo caffè nella sala studio dell’antico palazzo gotico rinascimentale della famiglia Vukasović, in compagnia della mia cara ospite Blaženka Ljubović, direttrice del Museo civico di Segna che ha sede nell’edificio. Chiude quindi la giornata una piacevole chiacchierata (finalmente) al caldo, con colei che da decenni si dedica anima e corpo a preservare tutti i reperti archeologici che continuano a venire alla luce e a studiare la ricca e interessante storia di Segna, la città della bora.

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