La cultura italiana negli «anni bui» croati

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La cultura italiana negli «anni bui» croati

Dopo il riconoscimento della Croazia da parte della Comunità europea nel gennaio del 1992 e dopo l’ammissione del Paese alle Nazioni unite nel maggio dello stesso anno, il presidente croato Franjo Tuđman decise di sciogliere il governo di “unità democratica”. Quel governo, presieduto da Franjo Gregurić, un tecnocrate che aveva visto la sua affermazione nel periodo socialista come manager esperto di petrolio (aveva trascorso anche un periodo di lavoro nell’ex Unione sovietica), era formato da una “grande coalizione” di partiti di destra e di sinistra. Da collante faceva la guerra scoppiata nel ’91 e le vicende di Vukovar e Dubrovnik, l’una distrutta dalle truppe dell’Armata jugoslava e dai paramilitari serbi, l’altra sotto assedio, bombardata e incendiata anche dall’Armata jugoslava e dai paramilitari montenegrini. Tuđman aveva sapientemente cavalcato l’ondata di indignazione per queste vicende nel mondo ed era riuscito a creare una specie di “consenso nazionale” per la difesa della patria. Però, nello stesso momento in cui si erano materializzati i principali obiettivi del suo programma nazionale, decise di sciogliere il governo di “unità democratica” e di instaurare un governo monocolore – del suo partito, l’HDZ.
Ciò voleva dire gettare la maschera e – in linea con la sua convinzione che i governi occidentali fossero indecisi e tentennanti sul modo di risolvere il rebus balcanico – palesare apertamente il programma della “grande Croazia”, cioè la “Croazia storica” come la vedeva lui, nei confini della “Banovina di Croazia” del 1938, che includeva anche parte della Bosnia ed Erzegovina.
Naturalmente, tutti i consigli degli amici, tra i quali anche l’Italia, di rinunciare a questo piano assurdo che di fatto portava a una spartizione della Bosnia tra Croati e Serbi, a danno dei Bosgnacchi o Musulmani, vennero rifiutati con tracotanza. A pagarne le spese furono tutti coloro che volevano ottenere il consenso internazionale, ma anche attuare il diritto di autodeterminazione di tutti i popoli dell’ex Jugoslavia.
Così, quando dovetti, da capo di gabinetto del ministro degli Esteri croato, formulare una risposta diplomatica alle richieste statunitensi (e della CE) di chiarire la politica croata verso la Bosnia ed Erzegovina (la Croazia tardò a riconoscere l’indipendenza della Bosnia), io scrissi in un “position paper” in base al quale il futuro dei Balcani e della pace nell’ex Jugoslavia risiedeva nella realizzazione dei precetti esposti dalla Commissione Badinter, istituita dalla Comunità europea, e cioè il riconoscimento reciproco delle ex Repubbliche jugoslave come Stati indipendenti. Questo mio esposto fece andare su tutte le furie l’Ufficio del Presidente, e non tardarono le ritorsioni. Il premier mi chiamò personalmente e mi disse che Tuđman era infuriato e che adesso era venuto il momento di prendere la Bosnia, sull’onda del riconoscimento anche delle Nazioni Unite. Poi seguì anche un’accusa in Parlamento, dove un esponente dell’ala ultranazionalista, Vice Vukojević, fece un’interpellanza chiedendo come fosse possibile che nel Ministero degli Esteri lavorasse Grubiša, che “è noto come il soppressore di tutto ciò che è croato”.
Non fui il solo a dover lasciare il Ministero degli Esteri; anche altri ex diplomatici jugoslavi furono radiati. Ad ogni modo, ciò mi diede l’opportunità di dedicarmi ad altri interessi; e qui rientrano le molte iniziative con il sostegno dell’Ambasciata italiana a Zagabria e del Ministero degli Esteri italiano. Nel 1996 uscì dalle stampe la “Storia degli italiani” di Giuliano Procacci, che avevo tradotto e commentato, e, con l’aiuto dell’Istituto italiano di cultura, la casa editrice “Barbat” di Zagabria organizzò un ciclo di conferenze sulla storia moderna dell’Italia, con l’autore e l’editor – che ero io – a Zagabria e a Fiume. A quel tempo Giuliano Procacci, un caro amico che aveva presentato un decennio prima la mia edizione delle opere scelte di Niccolò Machiavelli, non era più senatore d’Italia, ma era molto interessato a venire in Croazia per parlare di questo suo libro e di capire che aria si respirasse nel Paese.
A quel tempo l’Ambasciatore italiano a Zagabria era un diplomatico di grande esperienza, Francesco Olivieri, molto dinamico e aperto nei confronti della Croazia, che capiva molto bene quello che stava succedendo. Dalle sue mani ricevetti il premio del Ministero degli Esteri per la traduzione e la divulgazione della cultura italiana all’Estero. Con lui riuscii a organizzare anche molti convegni di studio, sostenuti dall’Associazione croata per la ricerca della pace della quale fui fondatore e presidente.
Nel suo lavoro Olivieri poteva contare su un grande aiuto, quello di sua moglie, Nina Gardner (figlia del noto Ambasciatore degli USA a Roma, Richard Gardner negli anni Settanta), che lavorava a Zagabria per delle organizzazioni per la tutela dei diritti dell’uomo. Erano una coppia affiatata. E in quegli “anni bui” della Croazia, dal 1995 al 2000, egli riuscì anche a promuovere un’importante iniziativa bilaterale: la firma del Trattato tra l’Italia e la Croazia sui diritti delle minoranze nel 1996, conosciuto anche come Trattato Dini-Granić dal nome dei firmatari, i rispettivi ministri degli Esteri dell’Italia e della Croazia.

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