Il dialogo con gli esuli: chi lo iniziò

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Il dialogo con gli esuli: chi lo iniziò

I miei inizi come Ambasciatore croato a Roma non furono difficili, perché, come siamo abituati a dire noi – io provenivo da una pluridecennale esperienza di docente universitario – che abbiamo lavorato all’Università: “Andiamo avanti anche se siamo dei nani, perché ci arrampichiamo sulle spalle dei giganti”. Questa famosa metafora latina, attribuita al filosofo Bernardo di Chartres e poi ripresa da Isaac Newton, in primo luogo concerne la ricerca scientifica, ma si può applicare anche ad altre esperienze umane, specialmente nell’ambito della cultura. E così dovrebbe essere anche in diplomazia: infatti, il lavoro diplomatico è un gioco di pazienza, una tessitura di reti di ragno non per far cadere le mosche in trappola, ma per costruire relazioni di comprensione reciproca e di amicizia, per sventare i conflitti e le guerre. Naturalmente, la diplomazia classica si basa in gran parte sui “precedenti”, cioè sulla continuità della missione, ma questo vale solo per gli Stati consolidati, e soprattutto per le democrazie consolidate. Certo la Croazia, nonostante gli sforzi compiuti durante l’ultimo quarto di secolo, ritiene di aver consolidato la propria democrazia, ma ancora non ci siamo, come d’altronde testimonia anche il recente rapporto sullo stato delle democrazie nell’Europa postcomunista edito dalla “Freedom House”, un’autorevole organizzazione non governativa che effettua il monitoraggio delle “nuove democrazie”, quelle nate dopo il 1989.
Ebbene, questa continuità non si poteva vedere proprio nell’operato dell’Ambasciata croata a Roma. Infatti, io ero subentrato a un Ambasciatore, Tomislav Vidošević, che aveva svolto la sua missione per sette anni prima di me. E questo periodo era stato segnato da una forte discontinuità con quello precedente, contrassegnato dalla presenza di Drago Kraljević in qualità di Ambasciatore croato a Roma. Il mandato di Kraljević, da parte sua, aveva segnato una discontinuità con l’operato del rappresentante diplomatico precedente, l’accademico Davorin Rudolf, che aveva trascorso a Roma a sua volta sette anni in veste di Ambasciatore (dal 1993 al 2000). Se possiamo fare un paragone da cabalistica triviale, potremmo dire che due Ambasciatori, Rudolf e Vidošević, entrambi spalatini, erano entrambi candidati del governo dell’HDZ: il primo designato addirittura personalmente dal Presidente Tuđman, il secondo dal premier Ivo Sanader. Inoltre non va dimenticato il fatto che a influire sull’assegnazione dell’incarico a Roma a Vidošević, che non conosceva la lingua italiana e non aveva esperienza diplomatica all’estero, era stato anche il fatto che non si può sottacere, che egli fosse il fratello di Nadan Vidošević, un altro beniamino dell’HDZ, amico di Sanader e imputato anch’egli per corruzione e peculato. Dunque, i due Ambasciatori dell’HDZ avevano trascorso entrambi sette anni a Roma e il loro mandato si era svolto all’insegna di una diffidenza, aperta o celata, verso gli esuli, che loro insistevano a chiamare “optanti”, sminuendone l’importanza, come anche il numero, e i fatti storici dell’esodo e delle tragedie umane del dopoguerra. Negli intermezzi, erano capitati due Ambasciatori designati dai governi di centrosinistra: uno membro dell’SDP, il Partito socialdemocratico della Croazia, ossia Drago Kraljević, proposto direttamente dal premier Ivica Račan, e l’altro il sottoscritto – arrivato dopo un periodo di alternanza dei vari governi croati e dopo l’intermezzo abbastanza lungo dell’altro settennato – non iscritto ad alcun partito, ma designato dal Presidente della Repubblica Ivo Josipović con il pieno consenso dell’allora premier Zoran Milanović. Dunque, due mandati lunghi – di sette anni – contro due mandati corti, di cinque anni ciascuno, Kraljević dal 2000 al 2005, e Grubiša dal 2012 al 2017.
Ma, come rilevato prima, il mio lavoro anche se non segnava una continuità con quello del mio predecessore, poteva riallacciarsi all’esperienza e all’operato dell’Ambasciatore Drago Kraljević. E infatti, anche senza un’esperienza diplomatica – a differenza di me, che avevo lavorato nella diplomazia dell’ex Jugoslavia e poi anche avevo dato una mano per costruire il servizio diplomatico nella Croazia indipendente – Kraljević aveva lasciato un segno profondo con il suo operato.
Ne sono testimoni i tre libri che ci ha lasciato, gli unici che parlano delle relazioni diplomatiche della Croazia con l’Italia e dell’importanza che l’Italia aveva e ha per la Croazia contemporanea, quella che respira un’aria europea, non quella che è ancora legata alla stampella del passato e delle controversie storiche ancora in discussione nella società croata.
Il fatto che Kraljević fosse istriano, di Buie, e io fiumano, ha un significato ben preciso se raffrontato al caso dei due Ambasciatori di provenienza dalmata. L’istrianità di Kraljević e la mia fiumanità hanno avuto un peso specifico sul nostro lavoro a Roma. E quando bisogna dare a Cesare quel che è di Cesare, e a Dio quel che è di Dio, bisogna ammettere che i libri di Kraljević sono dei documenti importanti: non sono soltanto dei diari diplomatici, ma delle testimonianze storiche di grande valenza politica e sociale – e lo dicono anche i titoli: “L’Italia, il nostro maggiore e più potente vicino”, pubblicato dalla casa editrice Adamić di Fiume, e poi “Un istriano a Roma – memorie e riflessioni di un Ambasciatore croato in Italia”, tradotto da Dario Saftich e pubblicato dall’Edit. Ma ne parleremo ancora, merita farlo.

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