L’architettura rurale del Carso nostrano

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L’architettura rurale del Carso nostrano

Nemmeno a possedere gli stivali delle sette leghe, che al fortunato proprietario, come narra la fiaba, permettevano di compiere un tragitto dai 4 ai 6 chilometri con un solo passo, si riuscirebbe a percorrere, nell’arco di un’esistenza, ogni angolo del Carso di casa nostra. Scoprirne i segreti legati alla vita e alle attività dell’uomo, spesso nascosti nel folto della macchia incalzante dopo il grande abbandono di pascoli e coltivi, rappresenta talvolta un’impresa ardua, dal sapore comunque avventuroso, che coinvolge per quel pizzico di mistero emanato da tutto ciò che proviene dal passato.
L’edilizia rurale dei nostri predecessori viene considerata una delle prime attività creative dell’uomo; in questo campo, senz’ombra di dubbio, le genti del Carso si sono sbizzarrite a ingegnarsi, soprattutto per necessità, ma fors’anche per la fantasia che celano nell’animo i popoli del Mediterraneo, a creare le opere più impensabili, imposte anche da un ambiente particolare, tanto ricco di pietra quanto povero d’acqua.
Muri a secco: infinite ragnatele
Innanzitutto i muretti a secco, un vero intrico di infinite ragnatele, costruiti con estrema maestria, usando le pietre in loco per rendere meno sassoso il terreno e delimitare una dolina da coltivare, un boschetto nel mezzo di infinite pietraie, un pascolo, un vigneto o un uliveto, il diritto d’accesso all’acqua fino al centro delle pozze, per erigere un baluardo con funzione contenitiva del terreno a balze o come frangibora, là dove il vento batte, per preservare le piante e il maggior numero possibile di granelli di terra. Scavalcandoli centinaia di volte, mi sono sempre chiesta quante siano state le mani callose che hanno raccolto, sollevato e incastonato ogni singola pietra, facendoli durare per secoli. Ne esistono di sottili, simili a merletti, o di grossi, a doppia facciata, che trattengono in mezzo il pietrisco come riempitivo, in modo da migliorare la terra circostante, dovuta alla dissoluzione del calcare o dell’arenaria.
Tutti i ripari
Con una tecnica non molto dissimile, solitari o intercalati ai muretti, sono stati costruiti tutti i possibili tipi di ripari: casite, kažuni, hiške, komarde, bunje, vrtujci e quant’altro. Circolari, rettangolari, con o senza pinnacolo, a semicupola con le scandole in pietra disposte a mo’ di mensole per sostenere quelle del giro successivo, mi ricordano le estati della mia infanzia nell’agro di Dignano. Nell’immancabile nicchia all’interno si mettevano il desinare e la bottiglia d’acqua e aceto per togliere la sete; erano un ottimo rifugio durante gli acquazzoni improvvisi e vi si custodivano gli attrezzi per lavorare la terra.
I sassolini da togliere
I muretti a secco formano pure i mrgari (dal latino mulgere) eretti esclusivamente nella parte meridionale dell’isola di Veglia, dalla fantastica forma di un gigantesco fiore con la sala al centro e tanti piccoli stazzi laterali. Le pecore di vari proprietari (purtroppo in numero ridotto rispetto al passato), che comunque pascolano assieme allo stato brado, vengono convogliate al centro e poi suddivise nei recinti laterali secondo i belegi/segni che ne contraddistinguono l’appartenenza; munte, tosate e curate (c’è sempre qualche sassolino da togliere, incastrato tra le unghie degli zoccoletti) vengono liberate dai passaggi sul retro.
I maestri dei camini
Nella terra dei Cicci, le stalle di un tempo erano costruite in modo molto più solido delle case: il gregge/blago costituiva infatti il valore più grande della famiglia. La casa era comunque l’opera più importante, con uno o più vani, a pianoterra o rialzata, secondo le possibilità della famiglia. Il focolare, a caminetto o a torretta/tornica era il punto d’incontro, anche perché il fuoco ha sempre avuto per l’uomo un significato magico, fonte di luce e calore: vi si cuocevano, nei paioli appesi alle catene/komoštre, zuppe, polenta e altre delizie, si arrostivano i marroni e le patate, trascorrendo in compagnia le lunghe sere dell’inverno. Spesso, più famiglie disponevano di un forno comune per il pane, che veniva cotto a turno, e che ovviamente doveva durare per più giorni.
Anche se spesso ne restava parecchio all’interno, a disperdere il fumo, specie nei giorni di bora, ci pensavano i camini, dalle forme più svariate, fatti però con estrema perizia dai maestri locali, esperti nella direzione dei venti.
Il fresco della cantina
L’altra parte della casa, spesso seminterrata, a cui si accedeva da sotto una volta sovrastata dal ballatoio o da una terrazza, era la cantina/konoba dove si custodivano il vino, l’olio, le carni secche, i prodotti della terra e la frutta per l’inverno. La temperatura fresca all’interno permetteva una buona conservazione e, ovviamente, qualche allegra bevuta in compagnia, accompagnata talvolta da un po’ di buon formaggio e prosciutto. Mio nonno, che teneva quest’ultimo appeso ben in alto, ignaro delle mie doti di arrampicatrice ed equilibrista, non si è (forse?) mai accorto del sorcio che ogni tanto ne intaccava un po’, munito di coltellino.
Il quarto elemento
Innegabilmente, accanto alla terra, all’aria e al fuoco ci sta però il quarto elemento: l’acqua così preziosa perché rara, fonte essenziale di vita per l’uomo, le piante e gli animali. Ogni laco o kalić che dir si voglia veniva ripulito e spesso circondato da un muretto o da un lastricato; le pareti delle doline contenenti argilla sul loro fondo venivano rivestite da grosse pietre squadrate per un miglior contenimento, mentre pozzi e cisterne di varia foggia e capacità venivano costruiti in modo da preservare l’acqua potabile per tutto il tempo necessario, ovviamente centellinandola nei periodi di siccità. Ogni goccia andava infatti salvata, come testimoniano persino le pietre a rigolo (scanalate) della chiesetta di S. Grisogono di Glavotok a Veglia, murate nella facciata per scaricare l’acqua piovana dal tetto in un serbatoio sotterraneo.
Le jazere
Gli inverni rigidi delle aree più settentrionali permettevano anche la fabbricazione del ghiaccio nelle jazere/ledenice/snižnice nei retroterra di Trieste, Fiume e Segna. A Kačiče, presso Kozina, se ne conserva la più grande del Carso classico. Costruita nel 1870, riveste quasi completamente una cavità profonda ben 19 metri, di forma cilindrica e 17 metri di diametro, con nel mezzo un pilastro alto 32 metri, che aveva la funzione di reggere il tetto a cono. Un’immensa scodella, a cui si accedeva tramite una scaletta interna fatta di legno. I blocchi di ghiaccio squadrati in modo regolare vi venivano stipati e inframmezzati da foglie di faggio. Un altro mezzo metro di foglie in cima permetteva di isolare il ghiaccio e di preservarlo fino all’estate, per la gioia dei clienti di osterie, birrerie e macellerie, per i pescivendoli e il rifornimento delle navi a Trieste. Rimase in funzione fino al 1906, dando lavoro a parecchie persone.
L’Eden tra le pietre
Sono tante ancora le opere ormai in disuso e purtroppo anche in rovina: aie apposite per la trebbiatura a mano, piattaforme inclinate per la raccolta dell’acqua, mulini, macine e frantoi, stanzie/dvori, cortili circondati da mura dai magnifici portali ad arco, ballatoi dove un tempo venivano messi a seccare piante aromatiche, aglio e cipolle, pannocchie, fichi e quant’altro, forni per la produzione della calce, terrazzati, stazzi e ripari di varia natura. Sarebbe un vero peccato, abbandonarli tutti all’usura del tempo, ma, per rigor di cronaca, c’è anche chi si dà da fare, per cui vale la pena di visitare, tanto per citarne alcuni, il parco delle casite di Dignano, la stanzia estiva di Petrebišće sotto il Perun, i vigneti terrazzati/prezidi di Buccari o i sentieri ben segnati intorno a Baška, per apprezzare quanto hanno fatto i nostri antenati, creando spesso veri e propri giardini dell’Eden in mezzo alle pietre dell’arido Carso nostrano.

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