L’Italia sorpassa la Germania in amicizia verso la Croazia

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L’Italia sorpassa la Germania in amicizia verso la Croazia

Il 15 gennaio del 1992 era diventato praticamente il “giorno X” della nuova Croazia: rappresentava l’inizio di un percorso indipendente e perciò era atteso con grande emozione dall’opinione pubblica nazionale. 
Per noi che avevamo lavorato con determinazione per arrivare a questo momento, la motivazione più forte, come anche la gratifica, era il fatto che con il riconoscimento internazionale la guerra civile interna e l’aggressione da parte dell’Armata popolare jugoslava sarebbero diventati conflitti internazionali. Ragion per cui sarebbe stato possibile richiedere l’intervento delle Nazioni Unite e dei caschi blu.
Perciò la decisione di accettare il primo esordio diplomatico del nuovo Paese sulla carta geopolitica dell’Europa proprio con una visita in Italia fu un atto doveroso. La delegazione croata della quale facevo parte in veste di capo di gabinetto del ministro degli Esteri croato era piccola – eravamo soltanto in tre, il mio capo, il ministro degli Esteri, Zvonimir Šeparović, il facente funzioni di primo Ambasciatore croato presso il Vaticano, Ivica Maštruko, e io. 
E quel giorno fummo accolti con grande amicizia e cordialità alla Farnesina, la monumentale sede del Ministero degli Esteri italiano. A fare le veci dell’anfitrione c’era il ministro degli Esteri italiano, Gianni De Michelis, una figura a dire poco pittoresca dal lato privato, ma energica nel tentativo di sbrogliare la matassa del nodo balcanico. Fu lui, infatti, che a capo della “troika” della Comunità europea venne a Belgrado, alla fine di giugno del 1991 e impose, con la sua voce stentorea e la sua mole fisica, l’elezione di Stjepan Mesić alla carica di presidente della Presidenza della Federazione jugoslava, cosa che era stata bloccata due mesi prima dal veto della Serbia. 
Purtroppo, ciò non contribuì molto a risolvere la crisi, ma se non altro rinviò di un paio di mesi il divampare della guerra tout-court e gli attacchi ai civili, che tuttavia si manifestarono già in settembre e ottobre di quell’anno con l’attacco a Vukovar e il blocco navale di Dubrovnik.
Gianni De Michelis era un buon conoscitore della situazione jugoslava. Non a caso, essendo nato a Venezia e avendo viaggiato in largo e lungo per le coste adriatiche, veleggiando con gaie brigate di amici e seguaci. 
Anzi, aveva una reputazione di playboy, nonché di politico accorto e di diplomatico energico che non andava per il sottile. E infatti io lo conoscevo ancora da Belgrado, prima dell’esplosione della crisi jugoslava con tutti gli effetti del gran botto. Era arrivato a capo di una delegazione italiana che aveva suscitato l’ammirazione e l’invidia del mio capo, il ministro degli Esteri jugoslavo Budimir Lončar, del quale ero capo di gabinetto prima di dare le dimissioni e ritornare a Zagabria, nell’agosto del 1991.
Gianni De Michelis era venuto a Belgrado accompagnato da uno stuolo di sue collaboratrici, assistenti e portaborse molto appariscenti. 
E infatti Gianni De Michelis non nascondeva la sua vocazione mondana e la sua passione per la musica dance, che si era materializzata non soltanto nella conoscenza di quasi tutte le discoteche dell’Adriatico, ma ne era scaturito anche un libro, dal titolo “Dove andiamo a ballare questa sera?”. Si trattava di una guida a 250 discoteche italiane. Nonostante ciò, devo ripeterlo, era un politico e un diplomatico rispettabile, articolato ed energico, ed era stato lui ad imporre alla Comunità europea una presa di posizione netta contro gli artefici dello sfacelo jugoslavo.
Questo suo aspetto mondano era ben noto negli ambienti diplomatici europei. E poi è passato alla storia per questa sua passione per il ballo, e anche, diciamolo, per le belle donne. Marco Travaglio, uno dei giornalisti più caustici che l’Italia abbia mai avuto, si è preso la briga di riportare un passaggio del diario di Nadia Bolgan, che per un periodo aveva fatto l’addetta stampa di Gianni De Michelis e che aveva scritto riguardo allo staff romano del ministro: “…è costituito da una cinquantina di persone, molte delle quali donne di passaggio e senza alcuna preparazione professionale; erano lì soltanto perché gli piacevano”. 
Non fu soltanto Marco Travaglio a notarlo: uno dei bardi del giornalismo italiano, Enzo Biagi, a questo proposito lo definì “un avanzo di balera”, giocando con le parole e sintetizzando così le sue inclinazioni personali con i problemi giudiziari che poi avrebbe avuto con lo scoppio dello scandalo di Tangentopoli, che lo vide condannato per corruzione. E nella sentenza del Tribunale si faceva esplicitamente menzione che le tangenti “alimentavano il suo principesco stile di vita sia pubblica sia privata”. Ma allora, nel gennaio del 1992, non lo sapevamo ancora ed eravamo lusingati dalla sua ospitalità a Roma….

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