«Leica format»: quasi un requiem per Fiume

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«Leica format»: quasi un requiem per Fiume

FIUME | Quasi un requiem per Fiume vissuto e commentato da Daša Drndić – la celebre scrittrice croata scomparsa nel giugno dell’anno scorso –, come un sequel di istantanee fotografiche in cui s’intrecciano storie di vita, momenti, episodi del passato e del presente, che alla fine si alimentano l’uno dell’altro. Si presenta così l’allestimento del Dramma Croato, “Leica format”, che vede anche la partecipazione di due attori del Dramma Italiano, tratto dall’omonimo romanzo di Daša Drndić – pubblicato in Italia da La nave di Teseo con la traduzione di Ljiljana Avirović – e portato in scena grazie al formidabile lavoro di Goran Ferčec, autore dell’adattamento teatrale di un’opera letteraria che per niente si presta alle tavole del palcoscenico, e la brillante regia di Franka Perković, che ha saputo amalgamare in un unico insieme le numerose storie e i quaranta attori presenti in scena.

Il confronto con una città al crepuscolo

“Leica format” è un lavoro che pone al centro il confronto, per niente idilliaco, dell’autrice con Fiume, dove Daša Drndić è giunta negli anni Novanta da Belgrado. È il suo rapporto con una città al crepuscolo, morente, dove si scontra con verità scomode, con specifiche mentalità di una società spesso anomala e senza identità. Una città che, pur fregiandosi dal titolo di “porto della diversità”, non ha saputo mai pienamente accoglierla a causa della sua dizione serba.
Nello spettacolo non c’è un preciso filo conduttore o una fabula chiaramente definita che accompagni lo spettatore, ma piuttosto un “girovagare per Fiume” assieme a Daša Drndić. È l’espediente per narrare, come scritto prima, storie vere che s’intrecciano con quelle inventate, persone realmente esistite e personaggi romanzati. E da quest’intreccio emergono storie di emigrazioni, rifugiati, arrivi e partenze, perdita di memoria e crisi d’identità, richiami all’Olocausto, all’impunità di coloro che hanno commesso quelle aberrazioni. Tra le storie raccontate, anche quella tragica del piccolo Sergio De Simone, deportato da Fiume nei campi di concentramento e sottoposto ad atroci esperimenti dai nazisti. E poi ancora altre vite sulle quali la stessa autrice s’imbatte e la cui storia si sviluppa partendo da pretesti apparentemente banali come, ad esempio, una visita a un negozio di antiquariato a Fiume, da cui l’intrecciarsi con l’esistenza d’inizio secolo scorso di Ludwig Jacob Fritz, un colto libertino in visita a Fiume e colpito dalla sifilide. La storia si pone anche come pretesto per raccontare le indicazioni delle vie i cui nomi hanno avuto dei legami con i regimi che si sono avvicendati nel tempo.

Epilogo della storia

Nell’allestimento c’è anche un passo, a epilogo della storia, che riassume un po’ l’intera realtà/tragedia della componente italiana all’interno della città di Fiume. Parlando del palazzo in cui abita, la scrittrice descrive le famiglie che vi risiedono. Al quarto piano abita una famiglia croata, al terzo la famiglia di Daša Drndić, al secondo una bosniaca e al primo una famiglia italiana.
Il personaggio di Daša Drndić spiega che è una famiglia che nonostante tutto ha scelto di restare a Fiume, di rimanere fedele a un’illusione di una città dov’è nata ma che in realtà non esiste più. “È l’unica famiglia che può liberamente affermare ‘questa è la nostra città’ – racconta il personaggio in una sorta di sfogo al pubblico –. Ma questo non lo dice, ed è chiaro perché non lo faccia. Questa non è più la loro città, la loro città non esiste più, come non esistono più neanche loro. Sono dei superstiti che di anno in anno sono sempre più esigui. Però, se messi a confronto con gli altri inquilini del palazzo, sono gli unici originali, mentre tutti gli altri sono soltanto delle imitazioni”, afferma il personaggio. Nel descrivere la città e il suo lento declino fino all’inevitabile scomparsa, è riportata anche, come una sorta di necrologio, la lista delle numerose imprese e industrie che con gli anni si sono spente.
L’unica cosa che si ostina a rimanere in questa città morente, oramai al crepuscolo, come vista da Daša Drndić, è l’entusiasmo per il Carnevale. Simbolica a tale proposito la scena che segue: un ballo in cui i personaggi indossano delle maschere deformi.

Uno spettacolo da assaporare

Il ruolo principale della pièce, quello della scrittrice, è interpretato da Tanja Smoje – dopo tanto tempo qui in un ruolo da protagonista –, che si presta perfettamente alla parte, sia per la somiglianza fisica con l’autrice, sia per il carattere che ha saputo costruire. Ad affiancarla ben 39 personaggi, tra cui Aleksandra Stojaković Olenjuk, Jelena Lopatić, Anastazija Balaž, Biljana Torić, Olivera Baljak, Edi Ćelić, Denis Brižić, nonché gli attori del Dramma Italiano, Ivna Bruck e Giuseppe Nicodemo, e altri, tra cui figurano gli studenti del Corso di recitazione e media dell’Accademia d’Arti applicate di Fiume.
Le scene sono di Igor Vasiljev, i costumi di Barbara Bourek. In definitiva, “Leica format” è uno spettacolo da assaporare non solo per la sua complessità scenica, ma anche per l’interpretazione degli attori e l’adattamento drammaturgico.

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