«Il problema sono i club e un campionato poco competitivo»

Neven Spahija sulla debacle della nazionale e di un movimento in piena crisi. «È stato toccato il punto più basso e ora sarà difficile risalire», dice l’ex viceallenatore di Atlanta Hawks e Memphis Grizzlies

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«Il problema sono i club e un campionato poco competitivo»
Neven Spahija. Foto: SAVINO PAOLELLA/IPA/PIXSELL

Luka Dončić ha dovuto fare gli straordinari per piegare la resistenza di una coriacea Svezia e quindi tenere ancora aperta la porta per la Croazia. Naturalmente al fenomeno dei Dallas Mavericks e della Slovenia il destino dei vicini croati era (giustamente) l’ultimo dei pensieri, fatto sta che Bogdanović, Zubac e soci non hanno saputo sfruttare il regalo generosamente concesso per strappare in extremis il pass per la seconda fase delle qualificazioni europee ai Mondiali 2023. E visto il percorso fatto, il quintetto di Damir Mulaomerović non se lo sarebbe nemmeno meritato. La Croazia ha gettato alle ortiche vittoria e qualificazione che a due minuti dalla fine erano in tasca. Davvero inconcepibile quanto combinato in quegli ultimi rocamboleschi 120 secondi con la Finlandia, dilapidando otto punti di vantaggio (78-70) e fallendo addirittura 7 tiri liberi. Se anche avesse chiuso la pratica, la rassegna iridata sarebbe comunque rimasta praticamente irraggiungibile per la Croazia, che sarebbe ripartita dall’ultimo posto nel nuovo girone, però la qualificazione alla fase successiva sarebbe stato il minimo sindacale in una pool certamente tosta, ma ampiamente alla portata. E invece ha chiuso mestamente in coda al gruppo con una vittoria e cinque sconfitte. Dopo questa debacle non solo è andato in frantumi il sogno iridato, bensì pure quello olimpico. Insomma, niente Parigi 2024. E siccome piove sempre sul bagnato, la Croazia dovrà tornare sul parquet a fine agosto per prendere parte alle prequalificazioni agli Europei 2025, dove le avversarie di turno saranno delle “superpotenze” della palla spicchi del calibro di Danimarca, Svizzera, Cipro o Albania. Più umiliante di così…

Per comprendere meglio i problemi che stanno alla base della crisi del movimento, abbiamo scomodato Neven Spahija, considerato uno dei migliori tecnici croati, nel cui curriculum spiccano le esperienze da viceallenatore sulla panchina degli Atlanta Hawks e Mamphis Grizzlies: il primo e ad oggi ancora unico coach croato a essere sbarcato in NBA. Dal 2001 al 2005 è stato anche selezionatore della nazionale, ma da diversi anni a questa parte ha tagliato i ponti con la Federazione.

Coach, il basket croato ha davvero toccato il fondo?
“Volendo si potrebbe scendere ancora più in basso… Comunque è evidente che sia stato raggiunto il punto più basso”.

Dopo questo fallimento i vertici federali dovrebbero dimettersi?
“Quando si è insediata l’attuale governance, sono stato il primo a criticare pubblicamente la sua gestione. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti”.

Secondo lei lo faranno?
“Non lo so. Dipende tutto dalla loro responsabilità individuale e dalle decisioni del Consiglio d’amministrazione”.

Qual è stato il principale errore del selezionatore Mulaomerović?
“In 30 anni di carriera non ho mai giudicato il lavoro di un allenatore. L’aspetto che fa più male è che sono anni ormai che i giocatori più forti non rispondono alla convocazione. Contro la Slovenia è sceso in campo un quintetto che non aveva mai giocato insieme, senza contare che i due NBA Bogdanović e Zubac si sono uniti al gruppo due giorni prima della partita. Dall’altra parte c’era invece una Slovenia che ha in rosa uno dei giocatori più forti al mondo, una delle coppie di ali più forti al mondo e una squadra che gioca insieme da anni. Andate un attimo a vedere quante volte negli ultimi anni Dončić, Murić, Tobey e compagnia hanno indossato la maglia della nazionale e quanti selezionatori ha cambiato la Slovenia. E poi fate lo stesso con la Croazia. Il successo non arriva mai dall’oggi al domani, ma è un processo lungo e complesso. Il punto di partenza dev’essere un’ossatura stabile di 7-8 giocatori attorno ai quali costruire poi la squadra. Si parla tanto di Gnjidić. C’è chi lo paragona a Dražen Petrović e questa cosa fa ridere, ma se ha le potenzialità per diventare quantomeno un nuovo Roko Ukić o Zoran Planinić, allora bisogna insistere su di lui e concedergli 25-30 minuti a partita. Se poi perdi la partita, almeno sai il perché della sconfitta. Per far crescere i giovani bisogna gettarli nella mischia e dargli fiducia, pur consapevoli che a risentirne inizialmente saranno i risultati. È sicuramente la strada più difficile da percorrere, ma l’unica possibile se vuoi avere successo a lungo termine”.

Ma Finlandia e Svezia sono davvero più forti della Croazia?
“L’altro giorno ho visto sui social un meme che ritrae Dino Rađa e Stojko Vranković a guardare increduli il tabellone con Finlandia, Svezia e Slovenia davanti alla Croazia chiedendosi se si tratti per caso di hockey su ghiaccio. Purtroppo non è hockey, ma è basket. Però è inutile star lì a guardare gli altri, dobbiamo pensare ai nostri problemi e a come risolverli. Il livello del campionato croato è uno dei più bassi in Europa e senza una lega competitiva non si va da nessuna parte. E poi ci sono troppi stranieri. Che senso ha far giocare un americano in un campionato di basso livello nel quale anche un giocatore di 18 anni con un briciolo di talento può fare bella figura?”.

Parliamoci chiaro: lo Zagreb ha chiuso i battenti anni fa, lo Cedevita è scappato a gambe levate a Lubiana e lo Cibona è sull’orlo del fallimento. Se i club sono in difficoltà non producono giocatori e questa mancata produzione si riflette poi sui risultati della nazionale…
“È proprio questo il punto. Il problema principale sono i club, che sono deboli finanziariamente e la conseguenza di ciò è un campionato sempre più povero”.

Ora tutti a invocare un playmaker straniero, forse però sarebbe il caso di chiedersi come mai in tutti questi anni non sia venuto su almeno un giocatore di qualità in quel ruolo…
“Come fai a lanciare un play di casa se tutti i club hanno in quel ruolo un americano? Nessuno ha il coraggio di puntare sui giovani. Il primo anno lotterai per non retrocedere, il secondo sarai a metà classifica, ma tra due-tre anni ti giocherai il titolo. Ripeto, è un processo che richiede tempo, ma nessuno vuole prendersi questi rischi. E poi c’è il problema della dirigenza. Una volta a guidare i club erano figure competenti con alle spalle 30 anni di esperienza nel basket, oggi invece a capo ci sono le amministrazioni locali e nella maggior parte dei casi i dirigenti sono dipendenti di qualche municipalizzata che c’entrano poco o nulla col basket. Una volta erano gli sponsor a finanziare i club e le amministrazioni erano soltanto dei partner minori. Oggi i ruoli si sono invertiti: gli sponsor non ci sono più e i club sopravvivono grazie a quel poco che ‘sgancia’ la Città”.

È favorevole o contrario alla naturalizzazione di un play straniero, come peraltro già accaduto in passato con Draper e Lafayette?
“Assolutamente contrario. Innanzitutto uno straniero non può essere un giocatore NBA, di Eurolega o Eurocup. E quindi dove lo peschi? Nel campionato austriaco o ungherese? Ma mettiamo per assurdo che si riesca anche a individuarne uno di talento. Se però in quella stagione esplode e gioca ad alti livelli, l’anno prossimo andrà in Eurolega e quindi sei di nuovo al punto di partenza. È un cane che si morde la coda”.

Ora ci sono mille incognite legate al destino dei vertici federali e lo stesso Mulaomerović non ha escluso l’addio. A meno di due mesi dall’Europeo si rischia il caos più totale…
“Nelle prossime settimane ci saranno sicuramente tensioni, ma non è il caso di continuare a gettare benzina sul fuoco come si sta facendo in questo momento. Adesso è troppo tardi per una rivoluzione in Federazione”.

Come vede la Croazia all’Europeo?
“Non ho la sfera di cristallo. Però vorrei vedere un cambio mentalità che guarda al futuro. Ciò vuol dire dare ampio spazio a Gnjidić e Prkačin. Sia chiaro, un giocatore deve meritarsi il minutaggio, ma se loro due sono il domani del basket croato come molti sostengono, allora bisogna dargli credito e farli giocare. Pensando al futuro della nazionale e non al risultato nell’immediato”.

Da dove ripartire e come risalire la china?
“La Federazione deve trovare il modo di aiutare i club, premiando quelli che scommettono sui giocatori del proprio vivaio e non sugli stranieri. In nazionale invece bisogna puntare su quei giocatori che rispondono sempre alla convocazione e che quindi ci tengono a indossare questa maglia, chiudendo invece le porte a coloro i quali si presentano solo occasionalmente, indipendentemente dai loro nomi. E avere il coraggio di far giocare i giovani più talentuosi”.

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