Nomi e nazionalità: così è se vi pare

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Nomi e nazionalità: così è se vi pare

Il confronto etnico e nazionale sulla sponda orientale dell’Adriatico si è combattuto spesso tirando in ballo l’origine dei nomi e ancor più di frequente dei cognomi. Ancor oggi in realtà risentiamo di questa lotta iniziata nell’Ottocento che, virtualmente, non si è ancora conclusa, in quanto basta poco – anche in un’epoca che dovrebbe essere improntata alla tolleranza dopo le tragiche esperienze del passato – per far riesplodere le passioni nazionali. È sufficiente un richiamo ai grandi nomi del passato con appiccicata un’etichetta etnica e subito gli animi si surriscaldano. Che sia così è forse praticamente inevitabile in una lingua di terra, che va dall’Istria alla Dalmazia, posta al confine tra mondi culturali diversi, nella quale le culture e le civiltà non solo hanno convissuto, ma hanno dato vita a ricche osmosi. Con il passare dei secoli gli intrecci sono divenuti sempre maggiori, creando situazioni complesse e anche contraddittorie. Nelle città dalmate d’un tempo la questione della lingua, spesso, non assumeva tanto i contorni di un conflitto interetnico, quanto di una spaccatura che attraversava trasversalmente le famiglie nelle quali magari due fratelli potevano evidenziare un’appartenenza o meglio un’identificazione nazionale diversa. L’ “altro”, quindi, era ben lungi dall’essere completamente diverso, era quasi un’immagine riflessa. Negli ambienti plurilingui di frequente erano i dettagli a risultare decisivi nella scelta del percorso di vita anche dall’ottica nazionale. Non deve sorprendere quindi se l’argomento anche nell’epoca della globalizzazione infiamma gli animi e si riveli arduo a volte classificare i singoli dall’ottica etnica. Ma ciò non vuol dire che vi possa essere spazio per interpretazioni “spericolate” del passato, basate sulla presunta origine, che non tengano conto delle scelte culturali dei singoli.

Marko Polo, caso eclatante

Non tanti anni fa persino i capi di Stato hanno fatto parlare di sé sulla stampa in riferimento a questioni del passato a dir poco controverse. Così il Presidente emerito croato Stjepan Mesić ha inaugurato in Cina il “museo a Marko Polo”, considerato di origine dalmata, ovvero curzolana. L’allora Presidente della Repubblica di Serbia, Boris Tadić, premettendo di sperare che “gli amici croati non se la prendano”, ha dichiarato che “Ruđer Bošković rientra tra i grandi serbi” della storia. Sono soltanto due esempi eclatanti degli sforzi per ritagliarsi un passato “nazionale” a misura delle necessità politiche del presente. Ma i casi in cui si incrociano le lame sui nomi e sull’appartenenza nazionale di artisti, letterati o scienziati dei secoli andati si sprecano. Giorgio Orsini o Juraj Dalmatinac, Nicolò Fiorentino o Nikola Firentinac, Marco Marullo o Marko Marulić, Gianfranco Biondi o Ivan Franjo Bjundović, Biagio Faggioni o Vlaho Bukovac, Ruggero Boscovich o Ruđer Bošković e… dulcis in fundo, suscitando magari l’ilarità di molti, Marco Polo o Marko Polo? I confronti durano ormai da decenni e decenni nel tentativo di “fissare” l’appartenenza nazionale dei grandi personaggi del passato legati alla Dalmazia. O di cui si vuole trovare qualche appiglio con la Dalmazia, come per l’appunto nel caso del grande “viaggiatore Marko Polo, nato in Croazia”, tanto per richiamarci alle notizie sull’inaugurazione del museo pervenute dalla lontana Cina. Che davvero l’autore del ‘Milione’ sia il dalmata o magari il croato più celebre di tutti i tempi? Basta davvero qualche presunta ascendenza per appiccicare etichette nazionali? Non mancano chiaramente i giudizi disinvolti dei politici e degli storici di turno assetati di primati nazionali.
Mitologie a parte, resta il fatto che l’identità nazionale, come la intendiamo noi oggi, è un “prodotto” ottocentesco: fa seguito alla rivoluzione francese e prende piede con fatica e in maniera contraddittoria soprattutto nelle aree di frontiera, dove si incontrano e si intrecciano culture e lingue diverse. E questo è il caso della Dalmazia, dove nel corso dell’Ottocento si sono andati formando tre corpi nazionali distinti, il croato, l’italiano e il serbo.

Confronto a tutto campo

Con la presenza italiana sul territorio ridotta al lumicino, ormai la “battaglia” sul campo riguarda soprattutto croati e serbi. Ma dopo l’esodo serbo seguito al conflitto degli anni Novanta, in mancanza di meglio capita che tra le file della stessa etnia maggioritaria qualcuno inizi a fare “l’analisi del DNA”. Aveva così suscitato scalpore, alla vigilia delle elezioni politiche in Croazia del 4 dicembre 2011 la sortita nella Slavonia orientale del deputato Josip Đakić. Egli aveva messo in subbuglio la scena politica evocando una presunta ascendenza serba dei nomi dei leader dello schieramento politico rivale. ”Zoki, Ranko, Rajko, Veljko? Credevo stessero costituendo il governo serbo”, era stata la dichiatazione dello scandalo. Evidente, dunque, che un malvezzo tipico semmai dell’Ottocento e soprattutto della Dalmazia, quello di richiamarsi ai nomi e ai cognomi di singoli esponenti e alla loro presunta ascendenza, ha fatto breccia anche in altre regioni. La politica e la storiografia croate, fin dall’epoca del risveglio nazionale, amavano fare leva sulle differenze o presunte tali tra italiani e talijanaši (definiti dalle parti di Spalato anche tolomaši) per rintuzzare la corrente autonomista in Dalmazia. Quando si usa il termine talijanaši il riferimento è solitamente a quelle “caratteristiche” tirate in ballo da Josip Đakić, ovvero alla forma del nome e del cognome non “in linea” con quelli che sono i sentimenti o l’appartenenza nazionale dichiarata da coloro che di tali nomi si fregiano. L’appellativo talijanaši sa tanto di “divide et impera”, appare come un modo per seminare divisioni all’interno della componente italiana dell’Adriatico orientale e ridimensionarla artificiosamente.

Un precedente importante

La sortita di Josip Đakić merita attenzione perché aveva riportato alla ribalta toni simili a quelli dei tempi andati. A differenza però delle situazioni del primo e del secondo dopoguerra ora i tempi sono maturi perché tutti possano comprendere quanto simili etichette siano inaccettabili. Quelle di Đakić avevano suscitato un’ondata di indignazione e parecchi nel mondo politico croato si erano distanziati con vigore da parole definite in odore di discriminazione etnica. Aveva preso posizione pure il difensore civico Jurica Malčić. Ed anche il capo della delegazione dell’UE a Zagabria, Paul Vandoren, aveva definito quella frase non in linea con i valori europei. Il caso Đakić ha creato un precedente: non sarebbe bene se le “condanne” rimanessero legate alla situazione slavone e soltanto a nomi di presunta “coloritura” orientale. Il malvezzo di “scuola dalmata”, come si può ben vedere, ha contagiato e continua a contagiare e avvelenare zone ed esponenti che vanno ben oltre il territorio in cui è o era storicamente presente pure la componente italiana. Ma per reciderlo alla radice bisogna sradicarlo là dove ha messo piede.

Quale grafia utilizzare?

Spesso gli scontri dialettici sono incentrati in primo luogo sulla grafia da utilizzare per scrivere i nomi dei grandi del passato. Il problema sta nel fatto che prima della metà dell’Ottocento tutti i nomi venivano scritti con una grafia con ascendenze veneto-italiane. Lo stesso valeva in genere per i testi in lingua croata, che non potevano rifarsi a una grafia nazionale standardizzata. La scrittura attuale, con i segni diacritici, quella che spinge a scrivere Ruđer Bošković per Ruggiero Boscovich, ad esempio, è il frutto del Risorgimento nazionale croato: si è imposta nella seconda metà dell’Ottocento. In seguito da parte croata è stata utilizzata per trascrivere, in linea con la nuova tradizione, buona parte dei nomi del periodo precedente.
Dopo la metà dell’Ottocento c’è stata una sorta di biforcazione “nazionale”: in Dalmazia, ma non solo qui, i nomi scritti con la nuova grafia croata sono stati in genere appannaggio di quanti sentivano di appartenere alla nazione croata. La vecchia grafia, quella per intenderci alla Ruggero Boscovich, è rimasta in auge nel circolo culturale italiano, oppure tra quanti sentivano magari più affine un’appartenenza regionale. Non vi sono naturalmente regole strette, né men che meno formalizzate in quest’ambito: molto dipende dal luogo dove uno si trova, dal contesto in cui è immerso. Non si deve, pertanto, pensare che per risalire all’identità di un singolo si possa fare affidamento di regola sulla grafia del cognome. E men che meno sull’origine dello stesso. Renzo de’ Vidovich, rileva che in Dalmazia più che in altre terre non è possibile dedurre dal cognome l’appartenenza nazionale di una persona o di una famiglia: ”Spesso accade che ad un cognome di sicura origine slava o tedesca, come ad esempio quello del sen. Del Regno d’Italia, von Krekich, corrisponda una famiglia irredentista italiana e viceversa, come il lettore può facilmente accertare scorrendo l’appartenenza partitica degli on. Deputati alla Dieta del Regno di Dalmazia. Non è raro che due fratelli, vissuti ed educati insieme, abbiano scelto di appartenere a due culture nazionali diverse: fece scalpore il caso di Francesco Rismondo di Spalato, caduto eroicamente indossando la divisa italiana nella guerra ‘15-’18 e chiamato da Gabriele d’Annunzio ‘l’Assunto di Dalmazia’, la cui sorella militava nel Sokol croato di Zara. L’introduzione dei segni diacritici slavi in Croazia e Slovenia, non ha facilitato l’individuazione dell’appartenenza nazionale di quanti hanno nel cognome la finale ‘ch’ o ‘ć’, anche se, in teoria, i primi sono spesso ritenuti di nazionalità italiana ed i secondi di nazionalità croata”.

Dittologie onomastiche

Che dire poi del caso rappresentato dalle famiglie nobili che usano o hanno usato il doppio cognome, in lingua latino-italiana o in lingua croata? Di solito si tratta di traduzioni, come nel caso dei de’Dominis e dei Gospodnetich. Ci troviamo di fronte in questo caso alle dittologie onomastiche, una delle indubbie peculiarità della Dalmazia storica. Su questa specificità si è soffermato lo studioso zaratino di lingue slave, Arturo Cronia, che ha cercato di fissare le possibili regole per l’uso delle diverse varianti.
Cronia definisce complesso e ricco il sistema onomastico dalmata e sottolinea che i vari allotropi onomastici dalmati (ad esempio Menze-Menčetić, Lucio-Lucić, Marulo-Marulić, Veranzio-Vrančić, Darsa-Držić), gli uni di etimo latino, gli altri di etimo slavo, sussistono parallelamente da secoli, con grafie diverse. È il Rinascimento, in particolare, a offrire un quadro variegato in questo campo. La moda umanistica di modificare nomi e cognomi arricchisce con nuovi suoni singole dittologie: Pozza-Pucić-Pute; Cerva (Elia)- Crieva, Zrieva, Crijević – Cervini (Aelius). Cronia offre un quadro storico dei nomi di famiglia in Dalmazia e sottolinea che nel caso delle dittologie ci troviamo di fronte a una peculiarità linguistica che combacia con il carattere dualistico di una regione di confine, dove le consuetudini, le parlate, la vita privata e pubblica di due popoli diversi manifestano gli influssi reciproci. Nel rilevare che né la parte italiana né la parte croata sono state coerenti nell’applicazione di una determinata forma, lo studioso zaratino ricorda che gli storici dalmati, dai primi cronisti agli ultimi critici letterari, hanno dato la preferenza soprattutto alle dittologie latino-italiane. Come evidenzia anche Valnea Delbianco, Cronia avverte pure che nel corso del tempo fanno la loro comparsa anche gli «abusi», in particolare all’epoca del movimento illirico, quando i croati, accettando le idee di Ljudevit Gaj, iniziano a prestare grande attenzione alle “zone grigie” come la Dalmazia e l’Istria. Egli cita l’esempio di Ljubić, che nel suo
Dizionario biografico degli uomini illustri della Dalmazia Vienna-Zara 1856, mantenne tutte le forme italiane delle dittologie dalmate, mentre nel suo Ogledalo Književne poviesti jugoslavjanske del 1869 slavizzò tutto il possibile e immaginabile per quanto concerne i cognomi dalmati.
Secondo Cronia, per gli italiani avendo termini propri ”è doveroso e storico l’uso assoluto della forma italiana di tutte le dittologie onomastiche italiane. Scrivere Marulić per Marulo e Sladić per Dolce… sarebbe un non capire lo sviluppo della vita spirituale in Dalmazia, un troncare improvviso tutti i vincoli e le comunanze d’idee e di tradizioni, che per secoli tennero affratellati gli italiani delle due sponde adriatiche”.
L’autore zaratino distingue gli scrittori di prima e dopo la metà del 19.esimo secolo e ritiene che tutti i cognomi slavi del periodo precedente a questo spartiacque storico vadano scritti con la “vecchia grafia italiana”, mentre nel caso dei letterati del periodo successivo che “si sono allontanati dalla cultura dalmata”, va usata la grafia croata. In questo ambito Cronia menziona i cognomi Cristicevich, Baracovich o Tresić Pavičić: “Noi riprendendole, cioè tramandandole, oltre che rispettare una vecchia tradizione grafica e riprodurre un’esatta consuetudine bibliografica, rispecchieremo bene quel decisivo momento di scissione nella vita culturale dalmata, in cui l’elemento slavo, allontanandosi da Roma, iniziava una nuova vita di orientamento verso Zagabria o Belgrado”.
Va detto, però, sostiene Valnea Delbianco, che “nemmeno lo stesso Cronia nei suoi lavori si atteneva alle regole da lui stesso proclamate e aveva non poche difficoltà a definire l’appartenenza nazionale di singoli letterati dalmati. Così nella sua periodizzazione della letteratura croata, che secondo la sua opinione (tra le due guerre c’erano anche tra i croati dei sostenitori di questa dubbia divisione) aveva avuto inizio nel 18.esimo secolo, separa la precedente letteratura ‘raguseo-dalmata’ e impiega la forma italiana e croata dei nomi e dei cognomi dei suoi scrittori. Ad esempio i nomi di Hektorović e Lucić che sono una volta poeti ‘slavi’ della Dalmazia e l’altra scrittori “dalmati”, li cita come Pietro Ettoreo (Hektorović) e Annibale Lucio (Lucić). Lo stesso atteggiamento lo tiene con i cognomi di altri scrittori: Marco Marulo (Marulić) umanista “dalmata”, Sigismondo Menze (Menčetić) – poeta ‘slavo’ come anche Gianfrancesco Gondola (Gundulić), Gunio Palmotta (Džono Palmotić) – scrittore “croato” di Ragusa, Domenico Ragnina (Ranjina) – ‘poeta lirico’ della Dalmazia, mentre Mauro Vetrani (Vetranović) viene caratterizzato come poeta della ‘dalmata Ragusa’. Anche per Džore e Marin Držić usa le dittologie italiane (Giorgio e Marino Darsa) e li presenta come ‘scrittori serbo-croati’ di Ragusa”.

Famiglie divise

Se le dittologie omomastiche sono figlie di un periodo in cui non esisteva ancora una coscienza nazionale di tipo moderno, le spaccature etniche insorte persino all’interno delle singole famiglie dalmate, sono il frutto di vicende di cui ancor oggi si risentono i contraccolpi. In particolare dopo la battaglia di Lissa era iniziata a infuriare la lotta nazionale, che avrebbe poi visto soccombere gli italiani. E, rileva lo storico croato Grga Novak, “questa battaglia si combatteva non soltanto in ogni città, bensì praticamente anche in ogni villaggio e persino nelle singole famiglie”. La situazione doveva giungere a un punto di non ritorno con le opzioni del primo dopoguerra, in un certo qual senso antesignane anche dell’esodo nell’Alto Adriatico, seguito al secondo conflitto mondiale. Queste divisioni sono rievocate da Luciano Monzali nel suo libro sulla storia della Dalmazia: “In effetti, una delle conseguenze spesso dimenticate delle opzioni fu il prodursi di una lacerazione all’interno delle collettività italiane in Dalmazia: le opzioni indebolirono le comunità italiane dalmate dividendole al proprio interno fra optanti italiani e cittadini jugoslavi. Inoltre, dato il carattere prevalentemente politico-culturale delle ideologie nazionali diffuse nelle società urbane dalmate, la scelta dell’opzione portò alla divisione di molte famiglie. A Spalato, città caratterizzata da una forte mescolanza italo-slava, molte famiglie si spaccarono su questa scelta. Così ad esempio, oltre al caso dei Bettiza, Renato Tartaglia, fratello del sindaco di Spalato, Ivo (di preciso orientamento croato), optò per la cittadinanza italiana ed emigrò poi a Trieste”.
Sul caso dei Tartaglia si sofferma Hermann Bahr parlando della divertente confusione che vede in primo piano il dottor Tartaglia, “figlio di un conte italiano ed entusiastico patrocinatore dei democratici croati […] un conte democratico dal nome italiano e dallo spirito croato […] I Tartaglia un tempo vivevano in un castello laggiù, da qualche parte. Allora erano croati. Poi si sono accapigliati con i turchi. Un teschio turco viene ancora custodito in famiglia. Per questo sono diventati dei conti veneziani. Così, all’improvviso, eccoli italiani. Finché il Tartaglia qui presente, Ivo, è andato a Praga e, un bel giorno, ci ha meditato sopra e ha riscoperto che i Tartaglia sono croati”.
Nulla di strano in questo. In Dalmazia anche negli anni dei più accesi scontri etnici la coscienza nazionale di fatto era ritenuta una scelta culturale e politica piuttosto che un fatto etnico e biologico. Almeno quando conveniva. Così di fronte alle accuse serbe che fra i nazionalisti croati vi fossero molti rinnegati italiani, il giornale croato di Spalato, ‘Narod’ replicava tranquillamente il 2 luglio 1884: “Se vi sono autonomi che sanno lo slavo, e che pure sono nemici dello slavo, e non lo vogliono nella vita pubblica, non è questo un biasimo per essi? Se d’altronde vi sono nazionali i quali per una falsata educazione non sanno lo slavo, ma che pure, per un sentimento d’equità, contro i propri interesse, vogliono giustizia alla lingua slava, non è questo dar ad essi il migliore degli elogi?”.
Non bisogna pensare che una simile situazione riguardasse soltanto singole realtà dalmate. Esempi del genere li troviamo anche nell’Alto Adriatico. Riguardo alla questione dell’identità nazionale in Istria sono interessanti pure le osservazioni dello storico Vanni D’Alessio, a proposito delle scelte di appartenenza nazionale degli abitanti di Pisino nell’ultimo periodo asburgico. D’Alessio mette in luce come accanto alle élite italiana e croata, per le quali l’appartenenza nazionale era l’elemento fondante di alterità sostanzialmente politico e la cui scelta nazionale era chiara e univoca, esisteva una grande massa di persone, non così chiaramente definite nazionalmente e che si spostavano da un campo nazionale all’altro in base a convenienze personali (in primo luogo economiche). La struttura molto articolata di organizzazioni di tutti i tipi, creata da entrambe le fazioni nazionali, continua D’Alessio, aveva la sua ragione d’essere proprio nella necessità delle due élite di attrarre questi soggetti “fluttuanti” nel proprio campo nazionale. E l’appartenenza a una di tali organizzazioni significava anche una pubblica ammissione di appartenenza a una data nazionalità.

La parola alla genetica

Fin qui abbiamo imperniato tutto il discorso sulle scelte culturali e linguistiche. Ma non va scordato che gli indubbi passi avanti compiuti negli ultimi decenni e anche negli ultimi anni dalla ricerca genetica hanno spinto gruppi di studiosi dell’Europa sudorientale a tracciare “mappe genetiche” per fare luce sugli spostamenti storici delle popolazioni in queste aree. Un modo indiretto per cercare magari di risalire alle loro origini, fatto questo così caro agli storici di questa regione. I risultati, com’era da prevedersi, sono stati tali da spingere tali studiosi a mettere le mani avanti: da queste ricerche non si possono ricavare indicazioni attendibili sulla situazone etnico-nazionale moderna. Qualche riflessione pacata sul tema della provenienza degli appartenenti alle nazioni moderne dell’Europa sudorientale l’ha suscitata poco tempo addietro la ricerca del prof. Dragan Primorac, autorevole biologo ed ex ministro della Scienza, dell’Istruzione e dello Sport nel governo croato di centrodestra di Ivo Sanader, sulle origini genetiche, ovvero sul DNA delle popolazioni attuali dell’area. Dalla ricerca è scaturito che soltanto un terzo dei croati proverrebbe da oltre i Carpazi, il rimanente sarebbe di casa da queste parti da millenni. Come dire, anche la scienza ha dimostrato che far combaciare lingua attuale e origini è un’impresa difficile se non impossibile in ogni dove.

Che fare?

Le ricerche genetiche moderne, dunque, non hanno aiutato di certo a risolvere il rebus delle appartenenze dalmate. Quando si è messa di mezzo la politica, giocando sulle assonanze dei cognomi, è andata anche peggio. La soluzione migliore appare quella di rispettare appieno la complessità storica dalmata, ovvero il fatto che in una terra di frontiera culturale, linguistica e di civiltà le intersecazioni sono inevitabili. Questo ovviamente non toglie che non abbia senso lasciare tutto nell’indeterminatezza. Che fare? Per i personaggi ottocenteschi e novecenteschi varrebbe la pena di rispettare le loro scelte. Tanto per fare dei nomi a caso: Biagio Faggioni è passato alla storia come Vlaho Bukovac; Roberto Ghiglianovich ha fatto pure le sue scelte, diverse chiaramente da quelle di Faggioni: inutile “trascriverlo” come Robert Giljanović. Per il passato “preottocentesco” dovrebbero valere buon senso e moderazione. In uno spirito europeo nemmeno l’accettare come scontata la doppia appartenenza o meglio la doppia o magari tripla rivendicazione di appartenenza, per singoli personaggi non dovrebbe suscitare scandalo. Del resto appare difficile da pensare in questo momento che nel caso, ad esempio, di Ruggiero Boscovich, qualcuna delle parti in lizza possa tirarsi indietro e dare completamente ragione all’altra. Tanto vale utilizzare gli elementi di divisione come elementi d’incontro culturale in una terra di mezzo.

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