All’Elba con sorpresa

Una domenica di luglio, in compagnia di Bruno e Paolo, due amici del Club Tigullio, appassionati come me di archeologia, tornai sull’isola. Giunti a Portoferraio, attrezzammo il gommone: tirava un discreto vento di levante con raffiche improvvise e il mare a tratti sembrava scosso da brividi di rabbia. Un quarto d’ora di spruzzi in faccia e ci trovammo finalmente sulla secca

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All’Elba con sorpresa

Durante una serie di immersioni effettuate all’Elba, sulla secca di Capo Bianco, al largo delle Ghiaie, abbiamo individuato strane costruzioni sommerse: forse i resti di un’antica fortezza romana. Ne avevo sentito parlare da alcuni pescatori e avevo anche avuto modo di accertare la veridicità della cosa: in una precedente e brevissima immersione sul posto avevo raccolto un collo d’anfora e soprattutto avevo individuato uno strano sottopassaggio che non mi sembrava opera della natura.

Una domenica di luglio in compagnia di Bruno e Paolo, due amici del Club Tigullio, come me appassionati di archeologia, tornai all’Elba. Giunti a Portoferraio attrezzammo il gommone: tirava un discreto vento di levante con raffiche improvvise e il mare a tratti sembrava scosso da brividi di rabbia. Un quarto d’ora di spruzzi in faccia e ci trovammo finalmente sulla secca di Capo Bianco.
Non è difficile individuarla, perché è segnalata da un grosso palo di cemento affiorante dal pelo dell’acqua per un paio di metri. Tra l’altro, quel palo costituisce anche un’ottima bitta di ormeggio per quanti come noi in quest’occasione dimenticano l’ancora e hanno a bordo solo qualche metro di cima! Sistemato il canotto con qualche difficoltà a causa del forte vento, ci dividemmo i compiti. Io mi sarei immerso ai piedi del palo in cerca del sottopassaggio, gli altri due, uno a levante e l’altro a ponente, per un giro esplorativo, con l’intesa di ritrovarci dopo 15 minuti sulla direttrice secca – Capo Bianco.

L’opera dell’uomo
All’appuntamento riemergemmo per consultarci: Paolo aveva ritrovato il sottopassaggio circa 40 metri a ponente del palo; io e Bruno c’eravamo imbattuti invece in quelli che sembravano grandi muraglioni diroccati. Procedemmo allora verso il ritrovamento che più mi stava a cuore: quello di Paolo. Il mare un po’ grosso aveva intorbidato l’acqua in superficie. Per avere più visibilità scendemmo a rasentare il fondo. La profondità media è di 10-12 metri. Per un tratto nuotammo tra scogli isolati inframmezzati da piccoli spiazzi di sabbia e circondati da una fitta vegetazione di posidonie, finché ci apparve una grossa barriera di rocce con andamento rettilineo e abbastanza regolare. Superato lo sbarramento, il fondo si abbassava repentinamente a perpendicolo per circa 4 metri; dopo circa 2 metri risaliva ancora in verticale per 3 metri. Eravamo in una specie di stretta gola lunga una quarantina di metri. A tre quarti della sua lunghezza, in direzione nord, ci apparve il sottopassaggio. Lo aggirammo per osservarlo meglio: e senz’altro un architrave costruito con un insieme di pietre squadrate e incastrate ad arte tra di loro. Nel raschiare con la piccozza il mantello di alghe che ricopre ogni roccia, nella zona è possibile intravedere i punti di unione delle pietre che sembrano cementate con una sorta di malta molto dura. Questo architrave largo non più di un metro e mezzo, quasi sicuramente faceva parte di una costruzione più grande ora franata della quale era una delle ossature. Ha resistito all’azione demolitrice del mare esclusivamente per la perfetta concatenazione delle pietre e la loro cementazione. Essa è conglobata alle due estremità nei muraglioni che creano la gola descritta prima; di muri dovrebbe trattarsi infatti per l’esatta congiunzione delle pietre, che denota l’opera dell’uomo. Il muraglione di levante è molto diroccato, mentre quello di ponente si presenta in buono stato per un lungo tratto anche perché di costruzione più massiccia.
Tale gola sembra un camminamento ora ricoperto di sabbia, di fitti banchi di posidonie e di mucchi di pietre di piccole dimensioni, tra le quali si notano numerosi cocci di anfore.Camminamenti
Mentre i miei amici cercavano tracce di eventuali pavimentazioni, io eseguii diverse fotografie dell’architrave e nel passare sotto di esso notai la stretta volta letteralmente ricoperta da spugne calcaree e da bellissimi rametti del comune Myriozoum truncatum di colore rosso tenue. Questo non è l’unico camminamento esistente, anche se è il più lungo e il meglio conservato. Fa parte di un grande insieme di costruzioni massicce ed è situato esternamente al complesso. Nella parete centrale vi sono tracce di altri camminamenti, tutti con i muri estremamente diroccati. Nel percorrere uno di questi in uno spiazzo sabbioso tra due grossi scogli granitici ci mettemmo a dissabbiare alcuni pezzi di cotto e vennero alla luce due chiodi di rame lunghi rispettivamente 29 e 13 centimetri, molto ossidati e corrosi. I chiodi sono del tutto identici a quelli recuperati in precedenza dal fasciame dell’oneraria romana scoperta da Gino Brambilla nel Golfo di Procchio. A questo punto dopo un’ora e mezzo di perlustrazione per l’esaurimento dei respiratori ebbe termine l’immersione.
Ritornammo sul posto il giorno dopo con mare più calmo e riprendemmo l’esplorazione sul lato orientale. Anche qui, all’estremo limite della secca, si notano ciclopici muragli abbondantemente franati che raschiati dalle fitte alghe rivelano i tratti di congiunzione tra pietra e pietra. Non si più dire se esistessero camminamenti da questo lato in quanto il fondo è completamente disseminato da scogli di tutte le dimensioni senza un ordine apparente. Forse l’esigua profondità in questo punto (5 metri) ha favorito l’opera distruttrice delle onde. Proseguendo per altri 18 metri verso occidente sempre all’esterno, a circa 15 metri di profondità, incontrammo una grande galleria con volta ad arco molto diroccata. La imbucai e notai che terminava quasi al centro del complesso, in una specie di grande pozzo pieno di posidonie marcite che impedivano di osservare il fondo.
Ad ogni mio colpo di pinna, le alghe salivano e rimanendo in sospensione intorbidivano l’acqua impedendomi totalmente la visibilità. Mi sembrava di essere finito in un fienile. Riuscii comunque tastando con le mani il fondo a recuperare un frammento metallico. Più tardi si rivelò essere una lastra contorta con un orlo ripiegato, fortemente corrosa e con una spessa ossidazione nera lunga 37 centimetri. A fianco di questa specie di pozzo esiste un piccolo pianoro, delimitato da una frana di massi. A ridosso di questi, trovammo un cumulo di circa 5 metri per 3 ricoperto da fitte posidonie.

Lavoro di scavo
Nel fiancheggiarlo, Bruno si fermò per catturare una grancevola che finì poi in formalina e subito lo vedemmo fare dei segni per richiamarci. Lo raggiungemmo e osservammo così che il cumulo era formato da innumerevoli colli e frammenti di anfore, fortemente cementati tra di loro dalle incrostazioni. Pulimmo un tratto dalle posidonie e cercammo con la piccozza di staccarne qualcuno più integro. Il lavoro, però, data la compattezza delle concrezioni calcaree andava per le lunghe e così decidemmo di lasciare Bruno, l’unico equipaggiato con l’ARO al lavoro di scavo per fare un sopralluogo più profondo all’estremità della secca. Qui il fondo non presentava nessun interesse dal lato archeologico e dopo circa mezz’ora di escursione ritornammo a vedere come procedeva il lavoro di scavo. Fu un ritorno provvidenziale. Vedemmo subito che qualcosa non andava. Bruno, abbandonata la piccozza, armeggiava in evidente difficoltà con il rubinetto della bombola di ossigeno, facendone uscire in abbondanza dal sacco polmone.
Mentre accorrevamo allarmati, lo vidi accasciarsi sul fondo. Lo riportammo immediatamente in superficie liberandolo dal boccaglio e dalla maschera e lo issammo svenuto sul canotto. Mentre sempre più allarmati ci issavamo anche noi, fortunatamente ritornò in sé. Era molto pallido, ma era evidente che si stava riprendendo. Filammo comunque a tutto gas verso riva e per quel giorno l’immersione finì. Scoprimmo più tardi uno strappo al sacco polmone, che molto probabilmente si era procurato strisciando su qualche coccio.

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