L’impresa di Fiume popolare anche in Giappone

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L’impresa di Fiume popolare anche in Giappone

Forse un visitatore che oggi cercasse di individuare a Fiume il palazzo da dove Gabriele d’Annunzio teneva i suoi discorsi o lelocations delle tappe salienti dell’Impresa, non riuscirebbe così facilmente nella sua ricerca. Di fatto, non esiste una sorta di “itinerario turitico” nella città che fu luogo di un’esperienza non solo politica ma anche sociale e culturale così complessa, ancor oggi oggetto di analisi che oltre le rivendicazioni nazionali, cercano di coglierne implicazioni più complesse. Quei quindici/sedici mesi infatti la resero il focus d’attenzione della diplomazia internazionale, riunita in quel momento a Ginevra, per la prima volta in un contesto di negoziazioni strutturato come quello della Società delle Nazioni.

Com’è noto, a Fiume si ritrovarono personalità del calibro di Alceste de Ambris, sindacalista dell’ala rivoluzionaria, deputato socialista e principale autore della Carta del Carnaro, in seguito esule volontario in Francia in concomitanza con l’avvento del Fascismo in Italia. Ma con lui alle vicende di quell’anno e mezzo, conclusosi con il tragico Natale di Sangue del 1920, parteciparono personaggi che giunsero in città dopo esperienze e con una formazione alle spalle di per sé molto diverse, e che l’esperienza nella città quarnerina segnò in modo spesso radicalmente opposto.

Giovanni Comisso nel suo Il porto dell’amore volle offrire una prospettiva sugli aspetti meno “politici” e tuttavia non meno stuzzicanti, dell’atmosfera di “aperta” sperimentazione anche sociale che si instaurò in concomitanza alla presenza di una personalità come quella di d’Annunzio. Altra figura giunta a Fiume dopo l’arruolamento negli Arditi, fu quella dello scrittore e giornalista Mario Carli (1888-1935). Amico e stretto collaboratore di Filippo Tommaso Marinetti, nell’estate del 1918, assieme allo stesso Marinetti, aveva fondato “Roma Futurista”, tribuna politica dell’arditismo futurista.

Nel settembre del 1919 colse al volo l’occasione di raggiungere Fiume, dove fece gruppo con Guido Keller. Fu qui che nel febbraio del 1920 fondò un altro pamphlet denominato “La Testa di Ferro”, giornale ideato per i legionari fiumani, dalle cui pagine assunse posizioni molto radicali, nelle quali esaltava la valenza innovativa della rivoluzione russa, arrivando per contro a criticare l’inezia del Partito socialista italiano. Val la pena ricordare che pochi mesi prima dell’arrivo nella città quarnerina, alla fine di marzo del 1919, Carli era stato tra i “sansepolcristi” che a Milano avevano dato vita al primo dei Fascio italiano di Combattimento.

Atmosfera stimolante

Non deve sorprendere dunque che la peculiare atmosfera politica e culturale di quegli anni subito successivi alla fine del primo conflitto mondiale, spingesse gli intellettuali verso considerazioni come quelle che seguono, e che fanno emergere in maniera vivida, paramentri politici che ai giorni nostri facilmente apparirebbero confusi se non impensabili: “Prendendo la Russia come modello tipico di rivoluzione sociale, si vede anzitutto che il bolscevismo è stato un movimento, non tanto grettamente espropriatore, quanto rinnovatore, perché ha voluto ricostituire in base a ideali vasti e profondi l’edificio sociale, assurdamente sbilenco sotto il decrepito regime zarista. […]. Il popolo russo ha saputo anche difendere la sua rivoluzione, e gli eserciti di Lenin si sono battuti, spesso, vittoriosamente contro i bianchi paladini della reazione. […] il nostro sogno più caro di artisti e di lottatori è sempre stato quello di sollevarela miseria materiale e spirituale delle masse, e se domani avremo modo di sopprimere in loro prima la fame, poi l’ignoranza, potremo dire di aver raggiunto uno degli obittivi fondamentali di tutta la nostra azione. Non chiediamo di meglio che chiamare accanto alle elites anche i rappresentanti del ‘numero’ a partecipare alla vita collettiva, a decidere dei propri interessi e del proprio destino. Il soviet (altra parola-spauracchio per i mosci borghesi di tutti gli Stati) è un prodotto così ragionevole e così utile dei nuovi tempi, […]. Indiscutibilmente Fiume e Mosca sono due rive luminose. Bisogna, al più presto, gettare un ponte tra queste due rive.”.

Sono considerazioni tratte da Con d’Annunzio a Fiume edito in quello stesso 1920, nel quale Carli volle immortalare la sua personale esperienza a Fiume. Se solo pochi anni fa nel 2013 la casa editrice Aga di Milano ha deciso di riproporre una nuova edizione di quel testo, è facile intuire la persistente attualità dei fatti di quell’anno e mezzo, e quanto una riflessione su di essi non appaia ancora desueta e inutile, soprattutto se si cerca di valutare in qual misura Fiume abbia davvero costituito tra de Ambris e Carli, l’inizio di tutta l’epopea del Ventennio fascista.

L’impresa fiumana, è risaputo, ebbe risonanza internazionale, ma forse tra i riscontri giunti dall’estero, di un caso si conosce meno, ossia dell’impatto che essa ebbe in una certa parte di intellettuali, e non solo, giapponesi. Non a caso, si parla di Mario Carli in una missiva inviata da Shimoi Harukichi a Gabriele d’Annunzio alla fine del marzo 1920 da Sanremo: “Gabriele d’Annunzio, Mio Duce, mi pesa la vita. Tornato a Napoli appena in tempo per ricevere la squadra giapponese, sono stato abbattuto ripetutamente sotto la frusta cruenta del Destino: passò mio caro amico Raffaele Uccella, scultore pensionato dal governo, […]. Anelo sempre di poter correre al Suo fianco, per soffrire la miseria, se lo debbo, nei Suoi sorrisi affettuosi e nelle alte poesie virili. Così potrei piangere almeno contento e consolato. Ma non posso venire purtroppo. E mi strazio. La vita mi pesa. L’abbraccio e abbraccio, in Lei, tutti miei cari amici e la più pura ed altera anima di Fiume d’Italia”.

Harukichi Shimoi 2
Singolare performer

Il dibattitto tra gli storici sul cosidetto “fascismo” in riferimento al regime che si instaurò in Giappone negli Anni Trenta, alla luce anche dell’adesione all’alleanza dell’Asse, ha impegnato gli studiosi giapponesi e non solo a cercare di capire se quel particolare regime fosse una sorta di “copia” di quello italiano o anche tedesco, o avesse radici specifiche nel processo storico-politico nazionale. Di recente, la figura di Shimoi ha attirato l’attenzione proprio in riferimento alla sua esperienza fiumana e italiana, visto che poi rientrato in Giappone, si attivò come promotore del fascismo italiano, tanto da far decidere alle Aurtorità di Occupazione angloamericane, in Giappone fino al 1952, di includerlo nelle liste di epurazione per i sosteniutori dei regime prebellico.

Ma quale fu la sua personale esperienza a Fiume? Come incise nella sua storia personale e politica a venire? La lettera, conservata al Vittoriale, dà conferma della presenza di questo giapponese a Fiume solo per pochi mesi, visto che arrivò a gennaio. Shimoi giustificava l’impossibilità di tornare nella città quarnerina a causa della morte di un caro amico a Napoli, dove aveva iniziato a lavorare presso l’allora Regio Istituto Orientale come docente di lingua giapponese.

Laureato in anglistica presso l’Università di Tokyo, era finito ad appassionarsi di letteratura italiana, riuscendo infine a raggiungere il Paese dei suoi sogni grazie ad una singolareperformance poetica. In occasione di una cerimonia accademica a cui aveva preso parte anche il corpo diplomatico a Tokyo, Shimoi prese l’iniziativa di tenere il suo discorso in italiano. Incurante del fatto di non esser stato compreso dai suoi connazionali, non mancò comunque di attirare l’attenzione dell’allora ambasciatore italiano in Giappone Alessandro Guiccioli, che volle intercedere a suo favore.

Giunto in Italia da studioso di Dante, sin dal suo arrivo nel 1915, iniziò subito a collaborare con alcune riviste letterarie tra cui “Eco della cultura”, fondata da Vincenzo Siniscalchi, e “La Diana”, diretta da Gherardo Marone, in qualità di divulgatore e traduttore di generi poetici giapponesi come l’haiku, componimento breve di 17 sillabe. Una collaborazione che lascerebbe supporre un buon impatto di popolarità dei suoi scritti tra gli intellettuali italiani dell’epoca, se si considera che la rivista contava tra li abbonati anche Ungaretti, l’autore di quei guizzi poetici come Mi illumino d’immenso o Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie.

L’ardito dagli occhi a mandorla

Allo scoppio della Grande Guerra, nel 1917 Shimoi da interventista convinto, si arruolò nell’esercito italiano, e dalla sua esperienza al fronte ricavo`un libretto redatto sotto forma di diario intitolato La guerra italiana. Impressioni di un giapponese. L’autore volle dar testimonianza della sua esperienza sui luoghi del fronte tra Veneto e Trentino Alto-Adige, a tutt’oggi assurti a mito vittorioso dellla prima guerra mondiale. I fatti narrati, sono quelli culminanti degli ultimi giorni del conflitto, a partire dal 30 ottobre 1918 a Padova fino al 4 novembre all’entrata di Trento. Le notizie che se traggono, riferiscono dell’assegnazione a un posto d’ufficio presso lo Stato Maggiore che tuttavia non lo trovò soddisfatto.

Fu l’intervento del generale Caviglia che mutò il suo desiderio di prender parte attiva agli eventi, spingendolo alla decisione nel 1918, di arruolarsi nel corpo degli Arditi nell’Ottava Armata con i battaglioni d’assalto. La vene poetica pervadeva una larga parte della personalità di Shimoi, come quando trasmise i suoi ricordi di trincea restando fedele a quel “suo” personale italiano acquisito a Napoli: “Erano bravi quaglioni che quando prendevano prigioniero un austriaco me lo regalavano, come se si trattasse di un pollo. In compenso, non si stancavano mai di farmi raccontare com’era andata quella volta che noi giapponesi avevamo dato le mazzate ai russi. Al termine di ognuno di questi miei racconti, erano talmente entusiasmati che volevano partire all’attacco con le bombe a mano urlando banzai!… banzai!… Io fui uno dei cinquanta arditi che il 3 novembre entrarono per primi a Trento e fecero bivacco in piazza Dante Alighieri”.

Fu questo il cui periodo Shimoi incontrò Gabriele d’Annunzio, con il quale nacque uno stretto rapporto personale, più che letterario, riconducibile anche alla passione del Vate per la japoneserie artistica e letteraria in voga in Europa dai tempi della Belle Époque: “Vidi a un tratto due lacrime vive sgorgare dai tuoi sconosciuti occhi di straniero. E subitamente ti riconobbi fratello: e il cuore mi si aperse… Ora ti dico che nessun poeta della tua stirpe compose mai strofa su rugiada più celeste di quel tuo pianto”.

Meschinerie

L’occasione fu la stessa in cui la precedente esperienza del volo su Vienna, diede vita all’idea di un transvolata intercontinentale da Roma a Tokyo, iniziativa inizialmente sostenuta dal governo italiano che sperava così di distrarre il Vate dai suoi piani per Fiume. Da allora Shimoi proseguì a cercare un pretesto per restare nelle zone del fronte di guerra nel nord-est italiano, finché la sua richiesta venne infine esaudita grazie all`intervento di personaggi allora in vista del mondo culturale e politico italiano.

Fu infatti il professor Giuseppe De Lorenzo, collega dell’Orientale, membro dell’Accademia dei Lincei ed esperto di induismo, nominato Senatore nel 1913 dal Capo di Governo Giolitti su indicazione di Francesco Saverio Nitti “per meriti scientifici” che si attivò presso il suo “referente” governativo. Da parte sua Nitti, allora ministro del Tesoro, redasse di suo pugno alcune righe di presentazione per Shimoi indirizzate al capitano Giovanni Visconti Venosta, segretario particolare del generale Diaz, all’epoca addetto al comando supremo del Reparto Operazioni nel Corpo di Stato Maggiore.

Nella lettera il Ministro chiedeva che il professore giapponese fosse presentato a Diaz e che gli venisse dato modo di “fargli visitare il nostro fronte con ogni cura […]” visto che la visita sarebbe stata ‘utile a far conoscere la nostra guerra e le difficoltà di essa anche in Giappone’”.

In attesa di poter leggere i resoconti dell’esperienza di Shimoi, resta quella missiva inviata a diAnnunzio e redatta alla fine di marzo del 1920: “P.S. Mi fanno schifo le menzogne così meschine di alcuni giornali italiani che tentano di continuo a far correre le false voci scandalose su Fiume. Non ho avuto fin’oggi la Sua lettera affidata a Bilisco. Ha visto il mio ‘Diario Fiumano’ pubblicato sul ‘Mezzogiorno’? Vado negli ultimi giorni di questo mese a Cerignola in Puglia, paese della creazione della cavalleria Rusticana, a tenervi un’altra conferenza pro-Fiume. Faccia spedire, per via sicura, i giornali fiumani. Mario m’ha mandato ‘Testa di Ferro’, ma parecchi numeri, mi pare, debbono essere sequestrati. Mi son giunti un numero da Trieste e due da Venezia. Posso distribuire bene. Saluti, saluti e ancora saluti!”.

Il “Mario” cui Shimoi accennava era quel Mario Carli di cui si è detto, mentre il Bilisco menzionato nella lettera, era il tenente dell’Aeronautica Bruno Bilisco, fiumano di nascita, scelto tra gli equipaggi del raid Roma-Tokyo per il quale venne infine incaricato il tenente Arturo Ferrarin.

Porta-lettere a Mussolini

Oltre l’incontro con uno degli esponenti del futuro fascismo radicale e intransigente come Carli, del periodo di Shimoi a Fiume si sa che ebbe modo di familiarizzare anche con Guido Keller e lo stesso Comisso, fondatori di quel “Gruppo Yoga” ispirato all’esoterismo orientale, e che come nel caso della coppia Marinetti-Calvi, decisero, nella peculiare atmosfera di perenne e aperta sperimentazione creatasi in città, di avviare la pubblicazione dell’omonima rivista “Yoga. Unione libera di spirti di Fiume”.

Nominato “caporale d’onore”, a Shimoi venne concessa l’onorificenza “Dell’amicizia dell’acqua e dell’anima”, creata apposta in suo onore, mentre per tutti i legionari fiumani, a cui cercò di insegnare il karate, divenne il “camerata samurai”.

D’altra parte, il suo aspetto e persino la sua conoscenza del dialetto napoletano lo fecero apparire come l’unico in grado di entrare e uscire dalla città senza destar sospetti. Non fu un caso dunque a far decidere a d’Annunzio di scegliere proprio Shimoi per il fidato compito di porta-lettere ufficiale delle missive a Mussolini. Soltanto una volta venne fermato dai carabinieri, mentre da Fiume si recava verso Trieste, e solo per sua insistenza venne avvertito quel generale Caviglia che meno di due anni prima era intervenuto a suo favore.

Il Nostro venne rilasciato con l’ordine di dare completa libertà d’azione “al capitano”, che si stava recando a Milano dal futuro Duce. Persino il nome del loro messaggero giapponese divenne motivo per due personalità in aperto antagonismo come d’Annunzio e Mussolini, per una piccola scaramuccia “filologica”, relativamente la corretta traslitterazione in italiano del cognome. Secondo il poeta abruzzese “quell’acca tra una esse e una i, fa il nome esotico e bello”, mentre per il futuro capo del Fascismo, “Roma romanizza tutto ciò che è barbaro, anche i nomi”.

La poesia nelle armi e le armi per la poesia

In una missiva successiva, redatta nel luglio dello stesso anno, anche questa inviata a Fiume, Shimoi incluse una traduzione parziale in italiano di una lettera scritta dal “Ministro”. L’identificazione non è ancora certa per quanto si possa supporre si tratti dell’allora ministro degli Esteri, Uchida Kosai. Le parole rivolte però alla persona di d’Annunzio, sono sintomatiche dell’impatto che l’impresa fiumana riuscì ad avere fin nel Sol Levante: “[…] Il nostro movimento è assolutamente apolitico e cerchiamo solo di risolvere lo scottante problema della crisi morale che minaccia ogni giorno di più la nazione di cui tutti di qualsiasi partito politico e di qualunque rango sociale sono convinti e sono terrorizzati. Unificare l’anima del popolo e indicare chiaramente la meta dell’Impero verso la quale il popolo dovrà indirizzarsi per la ricostruzione dell’Impero. Il popolo che si vantava della sua forza meravigliosa di assorbimento e di assimilazione delle civiltà straniere per crearne cosa sua propria, trovasi ora, dopo la enorme scossa della guerra mondiale, di fronte alla invasione di continue e troppe novità occidentali, sia nel campo culturale sia nei movimenti politico-sociali. ‘Unifichiamo l’anima’ – gridiamo oggi noi tutti giapponesi – ‘per non smarrirci e perdere noi stessi di fronte a questa valanga di novità occidentali’. Ma… ohimé! non vi è, come sapete, in Giappone, alcuno che possa far ascoltare con la dovuta riverenza religiosa il suo grido di voce evangelica. Non vi è nel mondo oggi, che Gabriele d’Annunzio che possa compiere questa missione. Egli che sa e vive la vita degli antichi samurai giapponesi, cioè ‘la poesia nelle armi e le armi per la poesia’ – a lui tocca il compito divino di indicare ai bimbi della nostra Patria che debbono costruire l’Impero di domani, l’indirizzo del cammino che dovranno scegliere”.

Quanto accadde a Fiume tra il settembre del 1919 e il Natale del 1920 resta dunque una tappa importante della storia del XX secolo europeo e anche oltre. Se da un lato non sono in pochi a indicare quei mesi come antesignani persino delle comunità alternative che vennero a formarsi in un periodo di contestazione come il ’68, è evidente che un’eco internazionale così vasta ne ha fatto l’emblema della volontà, e dunque forse anche capacità, di una comunità cittadina di ribadire il proprio senso di specifica appartenenza culturale e non solo, a fronte di organismi come la Società delle Nazioni, antesignana dell’ONU, oggi prima e indiscussa garante dell’ordine globale.

Silvia Zanlorenzi – Università degli Studi di Padova, attualmente borsista dell’Istituto giapponese di Cultura di Roma presso l’Università di Tokyo

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