Tutte le sfumature sull’esodo da Dignano

Nel suo ultimo libro Maria Grazia Belci tenta di dare una risposta a domande che avrebbe voluto porre a suo padre

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Tutte le sfumature sull’esodo da Dignano

di Rosanna Turcinovich Giuricin
L’abbiamo incontrata a giugno nella sede della Comunità degli Italiani di Abbazia, nel ruolo di presidente di giuria del Concorso per le scuole di Istria-Fiume-Dalmazia e Montenegro della Mailing List Histria. Maria Grazia Belci, che vive a Torino, la rivediamo a distanza di qualche mese a Valle, insieme a Valter Cnapich, che qui è di casa, per cui ci accoglie e ci accompagna.
“Mi passo le vacanse nella mia Dignan…” sottolinea Maria Grazia. Ad Abbazia solo un cenno sul suo libro “Esodi dimenticati – gente di Dignano che va”. Ora l’occasione per parlarne ampiamente. Edito dalla Famiglia Dignanese rappresenta il risultato di un lungo lavoro di raccolta di testimonianze sull’esodo nel villaggio giuliano-dalmato di Torino e tra i tanti che ancora hanno memoria di quella partenza verso un’altra vita che è argomento di questa nostra pagina.
Da quale ambiente professionale arriva Maria Grazia Belci?
“Ho iniziato a Torino come insegnante elementare. Negli anni Ottanta, lavorando per il comune di Torino, ho potuto accedere a una selezione per formazione di nuovi insegnanti di lingua straniera nella scuola elementare e ho conseguito una specializzazione in Inghilterra. Da allora ho sempre insegnato l’inglese. Sono portata per le lingue e amo il mio dialetto”.
L’istrioto che hai sentito a Torino sin da bambina, ma che cosa significava vivere in un ambiente nuovo, di una comunità eterogenea creata dall’esodo?
“Il rapporto con la gente è sempre stato fortissimo. Forse per il desiderio di un’appartenenza concreta, di ricreare un ambiente raccontato dai nostri genitori e che in questa nuova condizione hanno reso nuovamente possibile. Ricordo che c’era questa coesione anche nei ritorni estivi. Ci si trovava tutti a Fasana, in riva al mare, la spiaggia era stata rinominata Mirafiori, per la presenza di tanti operai delle industrie torinesi, le coperte servivano per fermare il vento e poter cucinare. Mio padre suonava un sacco di strumenti e quindi era l’animatore degli incontri, poi si giocava a bocce. Il tutto veniva replicato nelle altre stagioni a Torino. Si andava in campagna, eravamo una ventina di famiglie, si giocava a carte e si cantava all’infinito. Un ritrovarsi molto intenso che è rimasto in noi, radicato, parte del nostro modo di essere”.
Nata a Pola nel 1956…
“A questo proposito, c’è un fatto curioso. Quando ho portato mio figlio a scuola, è saltato fuori che nell’elenco dei genitori, c’era un’altra mamma nata, come me, l’8 maggio del ’56 a Pola. Una ragazza di Siana, forse ci avevano scambiate nella culla? Impossibile, mi dissero tutti, assomigli troppo a tua madre, due gocce d’acqua…”.
Con la quale sei stata protagonista di una fuga rocambolesca…
“Sì, la racconto nel libro come aggiunta alla quarantina di testimonianze sull’esodo che ho raccolto in anni di lavoro dalla viva voce dei protagonisti: ho chiesto di affidarmi il loro ricordo di quei giorni. La nonna era venuta a salutare me e la mamma che mi avrebbe portato a Umago a incontrare una famiglia di amici che avevano un figlio, Marino, col quale avrei potuto giocare. Perché allora tutte quelle lacrime? Certo i musi lunghi non mancavano in casa da quando mio padre con mio fratello erano partiti esuli qualche anno prima. Il distacco era stato molto doloroso. Fu una giornata strana quella trascorsa a Umago, densa di un’aspettativa che non capivo…poi venne un uomo, ci caricò sulla sua macchina guidando senza parlare e ci abbandonò sul dosso di una collina indicandoci la direzione da seguire. Stavamo scappando a piedi verso Trieste. Una notte d’inferno”.
Che cosa è successo?
“Apparentemente solo piccoli incidenti di percorso, cadute, graffi, paura, preoccupazione, in quella notte sono diventata improvvisamente grande, ero io a confortare mia madre messa a dura prova dalla tensione. Poi arrivate alle spalle di Muggia due giovani ci hanno aiutate, sono andati a un telefono, hanno avvisato mio padre che ci aspettava a Trieste e sono rimasti con noi, tute sbregade e infangade, finché non sono venuti a prenderci qualche ora dopo”.
Perché avete scelto Torino come destinazione?
“Mio padre aveva trovato un lavoro e s’era sistemato all’interno di questa coesa comunità giuliano-dalmata, i vallesi e i dignanesi erano veramente tanti. Per me è stato quasi un trasferimento, nel senso che anche a Torino vivevamo praticamente in campagna, giocavo come a Dignano scorrazzando tra prati e arativi. Questo mi ha fatto sentire una bambina felice anche se tutto era improvvisamente diverso…”.
Quando hai iniziato a raccogliere le testimonianze?
“Dopo che è mancato mio padre. Avevo tante cose da chiedergli e non l’avevo fatto rispettando il suo pudore e quello di tanti altri. Nonostante ciò ho cominciato a indagare, ma la nostra gente aveva una certa reticenza a parlarne, mio padre forse se n’era vergognato addirittura. Solo due anni prima di morire mi aveva accennato ad alcuni fatti che l’avevano costretto ad andarsene. Era stato preso di mira dai nuovi venuti, perseguitato, vessato tanto da temere per la propria vita. Partire era stata l’unica possibilità. Amavo mio padre, è sempre stato il mio punto fermo. Mio figlio, quando è diventato padre a sua volta, ha voluto portare il neonato sulla tomba del nonno perché sapesse che c’era, aveva bisogno di dirlo al nonno”.
Quali domande hai posto ai tuoi intervistati?
“Spesso è stato un loro lungo racconto. Ciò che volevo sapere da queste persone che ho amato, era come avessero vissuto questo passaggio. Loro hanno sempre rappresentato le mie radici, non avendo la terra, le ho identificate con la gente. Ma tutto ha avuto inizio con le mie lauree, la prima a 50 anni, e poi la seconda a seguire. E tutte e due le volte le tesi erano su Dignano: la prima in campo sociolinguistico, la seconda sull’immaginario popolare che poi ho riunito in un libro, il mio secondo libro. Il primo era dedicato alle fotografie, realizzato con Giuliana Donorà e Massimo Delzotto. Vecchie foto di Dignano, comparate con la Dignano di oggi che ho fotografato in lungo e in largo per azzardare un confronto tra ieri e oggi. Il terzo s’intitola Guida migrante, il quarto è questo delle testimonianze”.
Tra queste anche alcune dei rimasti…
“Ho pensato che fosse un giusto confronto. Non sono molto diverse dalle nostre, le medesime nostalgie, il dolore per i vuoti e i silenzi, il bisogno dei ritorni”.
Ed ora?
“Mi sto occupando degli sfollati di Wagna durante la prima guerra mondiale, da Dignano. Un’indagine che dura da tempo anche se le testimonianze sono pochissime. Sto lavorando principalmente sul giornale del campo dove si entra nel loro quotidiano, si scopre ciò che mangiavano, le regole per uscire a lavorare, le punizioni. Potrebbe diventare un prossimo libro”.
Come sei entrata a far parte della MLHistria?
“Attraverso la conoscenza con Valter Cnapich, anche lui del villaggio torinese. Facevo già parte della Famiglia dignanese del Favelà, ma avevo voglia di impegnarmi anche con altre realtà, soprattutto nell’ambito della scuola. Sono stata per 5-6 anni nella Commissione che sceglieva i lavori migliori e, quest’anno, ne sono divenuta la presidente”.
Come consideri questa esperienza?
“Molto bella, mi ha permesso di ampliare i miei interessi. Sapere che cosa raccontano i nonni ai nipoti mi ha stupita, commossa, coinvolta: sono molto contenta di averlo fatto e intendo continuare. Mi ha colpito soprattutto raggiungere la consapevolezza che ci siano tante persone fuori dal mio ambiente, con le medesime storie e interessi”.
Tuo padre, la tua famiglia, ti hanno trasmesso questo legame con Dignano. Che cos’è per tuo figlio?
Ride Maria Grazia, con soddisfazione. Il figlio, come ci racconta, ha portato a Dignano tutti gli amici di Torino e ora che vive a Roma, dove si occupa di regia alla Rai, ci porta gli amici romani, oltre alla sua famiglia o ritrova in vacanza quelli di Torino che hanno stabilito un rapporto d’affetto con l’Istria. Quando Maria Grazia lo va a trovare a Roma, passa anche dal Quartiere Giuliano-Dalmato per salutare Gianclaudio De Angelini o Marino Micich, per incontrare altra gente di queste nostre terre alla quale si sente legata. Quando è a Dignano, quando è possibile, partecipa alle serate di poesia con Loredana Bogliun, perdendosi nell’istrioto che conosce e coltiva. Viene anche a Pasqua, nella casa che ha avuto in eredità dai nonni e che è rimasta intonsa, ferma negli oggetti, nella disposizione delle stanze, come ci racconta il marito torinese. Qui il tempo si ferma.

Il brevetto da pilota

Oltre a insegnare e a scrivere, Maria Grazia Belci ama la velocità. Dopo aver venduto la moto ha preso il brevetto di pilota. Lo spazio, il tempo, andare, conquistare sono concetti che le sono familiari. Come la curiosità di chi non si accontenta.
Il suo libro, menzione speciale al Premio Tanzella di Verona, è senza interventi esterni o commenti, fotografa una situazione, immortala una verità o tante verità, così come è giusto che sia in questa storia plurima, ogni persona una vicenda. Tratti comuni? Tanti. Da poter inscrivere delle regole, accorpare delle situazioni. Ma non cambierebbe la consapevolezza di assistere a racconti intimi, spontanei, immediati e per questo efficaci. Oltre a essere un prezioso materiale per ulteriori studi, un contributo all’impegno del prossimo. Un modo molto particolare di omaggiare Dignano e il legame mai venuto meno.

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