INSEGNANDO S’IMPARA «Beve come un irlandese…»

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INSEGNANDO S’IMPARA «Beve come un irlandese…»

Il titolo di questo bozzetto si rifà alla canzone “Ha tutte le carte in regola (per essere un artista)” del cantautore livornese Piero Ciampi. Se ne deduce che secondo gli stereotipi nazionali, gli irlandesi bevono tanto quanto gli italiani gesticolano. Uno potrebbe obiettare che ci sono altri popoli che con l’alcool non scherzano e di primo acchito vengono in mente i russi e il loro complicato rapporto con la vodka, ma il loro bere ha una dimensione più tragica che parla di disperazione esistenziale (almeno da quello che si evince dalla loro letteratura), mentre per gli irlandesi è più che altro un modo per liberarsi dalle inibizioni e divertirsi. Vorrei chiarire che sto parlando di cliché culturali, non della realtà che è sempre più complessa e multiforme.
Allora, si beve veramente tanto in Irlanda? Beh, secondo i nostri parametri, sì. Sia per quantità che per la premeditazione con cui ci si ubriaca. In alcuni circoli, decidere di “darci dentro” al week-end viene visto come una cosa quasi normale, soprattutto in gioventù quando il fisico regge bene. Per noi che veniamo dalla civiltà del vino in tavola, ma dove ubriacarsi non fa onore, è sempre uno shock culturale. Mi ricordo che appena giunta a Belfast il capo dipartimento mi portò alla Common Room, il bar frequentato più che altro dagli accademici. Era il mio secondo giorno a Belfast e mi sentivo del tutto spaesata. Dietro al bancone c’era il classico barman irlandese, con la zazzeretta rossa e il farfallino verde, che ci chiese cosa volessimo. Nel mio migliore inglese enunciai “a cup of tea, please”. Lui senza perdere un colpo, spostò lo sguardo sul professore interrogandolo: “Ma questa da dove arriva?” Eh sì, perché all’epoca c’era una separazione rigidissima tra bar e caffè; ai primi spettavano le bevande alcooliche e tutt’al più qualche succo di frutta e agli altri le bevande calde. Se poi si prende in considerazione che i caffè chiudevano alle quattro del pomeriggio, la scelta di cosa bere portava dritta sulla strada della perdizione. Quella volta mi lasciai convincere di provare mezza pinta di Guinness, che come sappiamo non è birra, ma minestra, e dopo dieci minuti le palpebre chiudevano le serrande in anticipo con buona pace della conversazione. Preciso che negli anni seguenti le cose riguardo alla scelta di bevande, sono cambiate (la mia capacità di reggere l’alcool, no).
Se si vuole veramente vedere gli irlandesi in azione, basta andare a un matrimonio. Secondo il comico Jarlath Regan, il volume di alcool consumato ai banchetti di nozze è una cifra ancora da documentare. Non è inconsueto vedere gli invitati che buttano giù un paio di pinte nel pub più vicino alla chiesa, ancor prima dell’arrivo degli sposi perché “non si sa mai quanto durerà la cerimonia”. Poi, la scaletta nuziale prevede almeno un paio di considerevoli tempi morti, che vanno opportunamente riempiti, per cui quando le celebrazioni finalmente si concludono, nel cuore della notte, è come aver partecipato ad almeno una maratona alcolica.
A dir la verità la situazione non è molto differente alle veglie. In questo paese, soprattutto nella comunità cattolica, la veglia si fa ancora come ai vecchi tempi, con il morto in casa e un flusso continuo di persone che passano a rendere omaggio al defunto e a fare le condoglianze alla famiglia. Però non è quasi mai un’occasione triste e disperata, soprattutto se il deceduto aveva la sua bella età, per cui non è raro trovare i suoi più cari amici che si riuniscono in un angolo e, alimentati da una buona dose di whiskey – che non manca mai – cominciano a parlare dei vecchi tempi ripercorrendo la vita del trapassato. In men che non si dica emergono le situazioni più esilaranti e finisce tutto in sonore risate (non ho mai sentito ridere tanto come a certe veglie in Irlanda), per cui ha senso la barzelletta “che differenza c’è tra una veglia irlandese e le nozze irlandesi? Un ubriaco in meno”.
Molto di quanto detto si spiega se si comprende il ruolo fondamentale che il pub irlandese ha per la comunità. In tempi pre-Covid (e pre-legge antifumo) anche il più sperduto paesino irlandese era composto da una manciata di case, una chiesa, un negozio di alimentari con ufficio postale e tre pub. Per pub non intendiamo le aberrazioni artificiali, fatte con lo stampino ed esportate in tutto il mondo (simili alle catene di “vere pizzerie italiane” che, soprattutto in America, poco hanno in comune con quelle originali). Piuttosto si intende il locale che esiste da sempre, gestito dalla famiglia che tutti conoscono, che è ancora diviso in bar, dall’arredamento più sobrio(!) ma dove si ritrovano i clienti abituali, e lounge, più confortevole con i divanetti, dove si può anche mangiare e dove alla sera si fa musica dal vivo. Ci vuole poco a capire che è questo il vero cuore pulsante dell’abitato, che fa da centro culturale, da luogo di aggregazione (il clima non favorisce il ritrovarsi all’aperto), da ente di sostegno per mariti stressati (il barman è il loro psicoterapeuta) e soprattutto da rifugio. Ci sono pochi luoghi più accoglienti di un caldo pub, aromatizzato dalla torba che arde nel caminetto, specialmente dopo una passeggiata nella brughiera in un’umida giornata irlandese. Inoltre se uno è senza compagnia, non rimarrà da solo a lungo. L’atmosfera cordiale e la proverbiale amichevolezza degli irlandesi sono molto coinvolgenti e in un batter di ciglio ci si ritrova a condividere un pezzo di vita con i nuovi amici.
Il pub è parte intrinseca dell’identità culturale irlandese, un luogo che questa gente conosce istintivamente e che non ha bisogno di esser interpretato, che accoglie senza giudicare. Inoltre, per questo popolo di emigranti, ha per lungo tempo rappresentato un punto fermo di ritrovo nei nuovi Paesi, un luogo, come citava la sit-com “Cheers” ambientata proprio in un pub irlandese a Boston, dove “tutti sanno il tuo nome”.

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