L’italianità di Fiume… Dal baccano al silenzio

L'annessione all'Italia nel 1924 è stata il tema, digressioni a parte, di un panel organizzato presso la Biblioteca civica

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L’italianità di Fiume… Dal baccano al silenzio
I partecipatni al panel. Foto Ivor Hreljanović

Il 27 gennaio del 1924 veniva firmato il trattato di Roma tra l’Italia e il Regno di Jugoslavia, un atto che sanciva consensualmente la dissoluzione e la suddivisione dello Stato libero di Fiume, stabilendo il confine sulla Fiumara. Alla Jugoslavia veniva riconosciuta la sovranità sul delta del fiume, compreso Porto Baross, e sull’estremo territorio settentrionale del distretto fiumano. All’Italia, invece, andava la sovranità sul centro storico di Fiume e sulla striscia di territorio che garantiva la continuità territoriale della città con la madrepatria. La delineazione dei confini precisi fu rimessa a una commissione mista, le cui determinazioni furono ratificate con la Convenzione di Nettuno del 20 luglio 1925. Fiume diventò dunque città e capoluogo di provincia italiano fino alla Seconda guerra mondiale, ma non conseguì mai quel decollo economico che gli ideatori dello Stato Libero avevano ipotizzato, idea certamente compromessa dalla cessione del Delta e di Porto Baross alla Jugoslavia.

Questa pagina della lunga e travagliata storia fiumana è stata il tema di un panel organizzato presso la nuova sede della Biblioteca civica. Anzi, sarebbe più corretto dire che è stata uno spunto di discussione, perché subito dopo l’introduzione abbiamo assistito a una digressione piuttosto stratificata che ha scandagliato la “fiumanità”, l’italianità di Fiume, senza un’apparente connessione al vero tema dell’incontro: “Dal baccano al silenzio: 100 anni dall’annessione di Fiume all’Italia”. Lo ha osservato anche una delle persone presenti nel pubblico e che risponde al nome di Vojko Obersnel. “Nessuno ha parlato di cosa sia successo a Fiume dopo il 1924. Lo sviluppo si era fermato, tutto si era fermato e questo era l’obiettivo strategico della Jugoslavia”.
Italiani marginalizzati

Ma vediamo come si è giunti a questa reazione di Obersnel, non ingiustificata. Dopo i saluti di Kristian Benić, responsabile dei programmi della Biblioteca civica, il microfono è passato al moderatore dell’incontro, Ivan Jeličić, pluriennale collaboratore del Dipartimento di storia e del Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Filosofia di Fiume, il quale ha tenuto subito a precisare che non si sarebbe trattato di un convegno scientifico. “Cosa sappiamo di questo periodo interbellico?”, è stata la sua domanda, riferendosi anche al periodo di transizione dall’Impero austro-ungarico, ossia dal 1918 fino al Trattato di Roma. Aljoša Pužar, culturologo e scrittore, professore universitario, ha puntato subito sulla mancanza dello slancio economico che aveva caratterizzato Fiume nella seconda metà del XIX secolo fino allo scoppio della Grande guerra, sottolineando che ogni tipo di ricerca storica rischia di diventare problematico se affrontato da una posizione nazionalista. “A un secolo di distanza, un’analisi epistemologica mi conduce alla conclusione che il corpo politico croato non abbia fatto proprio una bella figura marginalizzando gli italiani – ha detto –. Sono stati ignorati anche i tanti antifascisti italiani di queste terre che hanno combattuto contro il nazifascismo. Semplicemente si era radicata l’idea che agli italiani non bisognava credere. Ci sono stati anche degli storici i quali presentavano gli italiani come fascisti, ignorando il forte e secolare contributo degli italiani allo sviluppo culturale della città. Perché in Croazia la gente pensa che ci sia sempre qualcuno a cui perdonare qualche peccato. Abbiamo avuto anche noi i nostri fascisti, i nostri clericali…”.

Una… cattiva memoria

Il prof. Marko Medved, nel suo intervento, ha voluto anzitutto ringraziare coloro che hanno dato il proprio obolo alla cultura con pubblicazioni bilingui delle opere di scrittori fiumani, con chiaro riferimento ai vari Vegliani, Morovich, Santarcangeli… “È difficile fare i conti con la storia quando su tutti noi aleggia una cattiva memoria – ha osservato –. C’è ancora gente che continua a vivere, per motivi politici, di guerre mai finite. C’è una cultura del ricordo che poggia sull’ossessione di riportare alla memoria soltanto le situazioni in cui si è stati vittime di un qualcosa. Il nostro obiettivo dovrebbe essere quello di saper piangere anche le vittime dell’altra parte e di saper ammettere i peccati della propria comunità”. Marko Medved ha poi sottolineato che “l’identità fiumana non è stata mai statica, continuando a mutare nei secoli. Fiume è stata sempre una città aperta e noi a Fiume, in virtù di tutto quello che è successo nella storia, dovremmo essere particolarmente sensibili verso gli immigrati”.

Avendo conseguito il dottorato di ricerca presso la Facoltà di Storia e Beni Culturali della Chiesa della Pontificia Università Gregoriana, Marko Medved ha cercato di spiegare in sintesi il ruolo della Chiesa in quel periodo interbellico, partendo dal presupposto che “Fiume è stata sempre, sia prima che dopo, un ‘ambiente secolare'”. “Cosa ricordare di quell’epoca? Beh, potremmo parlare delle nuove parrocchie, dei rapporti tra il vescovo italiano e il clero croato. C’erano tanti dilemmi, allora. Come comportarsi in un regime totalitario? Quale lingua usare? Com’era il rapporto della Chiesa verso il fascismo, verso i croati?”.

Regime brutale, sistema amorale…

In relazione al rapporto verso il fascismo, è intervenuto anche ilo prof. Elvio Baccarini, professore ordinario di etica e filosofia politica all’Università fiumana. “Vorrei poter credere che siamo tutti più sensibilizzati sulla questione del fascismo, ma temo che non lo siamo abbastanza. Bisogna voltare pagina e opporre resistenza a ogni tipo di discriminazione e stereotipizzazione. Il fascismo è stato un regime brutale, non possiamo negarlo. Più che immorale, è stato un sistema amorale. Dovremmo saper dare alla storia una dimensione di… storia, promuovendo l’uguaglianza culturale”.

Abbandonare gli stereotipi

Melita Sciucca, presidente della Comunità degli Italiani di Fiume, è stata invitata in un certo modo dal moderatore a trasmettere il pensiero degli italiani, esuli e rimasti, relativo a quel periodo. “Posso soltanto immaginarlo. La Comunità italiana ha avuto gravi difficoltà dopo il 1946. L’esodo, la paura di essere italiani. Chiunque avesse addosso qualcosa di italiano veniva considerato come un nemico. Gli anni del fascismo, e lo dico anche ai miei alunni, sono stati il periodo più buio della storia italiana, ma la cultura italiana è qualcosa di grandioso. Dopo la guerra molti se ne sono andati, ma quelli rimasti hanno avuto vita difficile. Non conoscevano la lingua, le scuole venivano chiuse… Dobbiamo essere grati a tutte quelle persone che in tempi difficili hanno continuato a mantenere in vita l’italianità adattandosi alle nuove condizioni. Vorrei da parte di tutti un maggiore impegno ad accettare l’identità fiumana come parte integrante di questa città. La cultura fiumana ha un valore inestimabile per la città; il ricettario bilingue, le Canzonette, ma anche la richiesta di inserire il nostro dialetto nel patrimonio immateriale della Croazia”. “Gli italiani a Fiume – ha concluso – rappresentano un ponte che collega due realtà, Croazia e Italia. In troppi pensano che la Fiume italiana sia sinonimo di fascismo. Il legame con il fascismo è uno stereotipo che andrebbe abbandonato”.

Dopo un secolo…

Non poteva mancare l’intervento di Ervin Dubrović, ex direttore, per tanti anni, del Museo civico di Fiume e autore della mostra permanente che racconta, appunto, la storia di Fiume anche in quel periodo. Invitato in prima battuta a parlare di Francesco Drenig, intellettuale, poeta, scrittore – per lui, convinto antifascista, la cultura era un mezzo e un obiettivo imprescindibile per unire i popoli avvicinare e l’Italia e la Croazia –, Dubrović ha parlato anche della grande sfida museale, il cui allestimento “dipendeva dal materiale di cui disponevamo”. “Credo che un museo non debba assolutamente essere un luogo di scontri politici. Ho dedicato un insieme tematico dedicato al periodo interbellico, alla guerra e al dopoguerra. Ho anche evitato di parlare di ‘liberazione’ per qualcosa che ha desertificato la città – “vuole dire che il 3 maggio del 1945 non è stata una liberazione?”, ha replicato successivamente Vojko Obersnel –. Abbiamo raccontato anche il destino dei giovani antifascisti, ma anche quello dei cittadini fiumani. Abbiamo raccontato anche l’esodo. Dopo un secolo, credo che dovremmo affrontare questi temi in maniera tranquilla e serena”.

Architettura, ingiusto chiamarla «fascista»

La storica dell’arte Julija Lozzi Barković è stata forse l’unica tra i relatori ad aver inquadrato nel suo intervento il periodo tra l’annessione di Fiume all’Italia e lo scoppio della Seconda guerra mondiale, parlando dell’eredità architettonica di quel periodo. “Stiamo parlando di un’eredità preziosa, di valori universali. Credo anzitutto che dovremmo mutare il nostro rapporto verso l’architettura di quel periodo e mi sembra piuttosto ingiusto definirla ‘fascista’. Dovremmo parlare, invece, di un pluralismo di stili, in cui si fondono il vecchio e il nuovo. Stiamo parlando di tre stili dominanti in quell’epoca: il Novecento, il Razionalismo italiano e lo Stile littorio. Noi a Fiume siamo molto orgoglioso degli edifici lasciatici in eredità, ma molti ignorano il fatto che risalgono proprio a quell’epoca. Abbiamo il Grattacielo di Fiume (Casa alta) e quello di Sušak – entrambi i regimi, su una e sull’altra sponda della Fiumara, volevano presentarsi nel migliore di modi –, il Piccolo grattacielo, la chiesa di San Romualdo e Ognissanti a Cosala, l’attuale scuola elementare Nikola Tesla, quella di Pećine, l’edificio che ospita il Rettorato, lo stadio di Cantrida, quello di Crimea e il ‘Campo Cellini’, il dopolavoro dell’ex Fonderia Skull in via dell’Acquedotto…”.

Durante il dibattito che ha concluso l’incontro al pianterreno della Biblioteca civica e che in certi frangenti sembrava poter degenerare, per scarsa comprensione del tema o per decontestualizzazione, il suo contributo l’ha dato anche l’ex sindaco Vojko Obersnel, affermando che molte delle tensioni che si sono create in passato sono state provocate non dalla parte croata ma da “uscite poco felici di politici italiani”, con chiaro riferimento all’attuale ministro degli Esteri Antonio Tajani e all’attuale premier Giorgia Meloni.
Un valore aggiunto

In conclusione, pur non avendo affrontato in maniera diretta quello che era il tema dell’incontro, potremmo dire che alcuni interventi e constatazioni – “parliamo da cittadini e non come nazione”, “i nazionalismi sono il cancro di tutte le società”, “se ci permettiamo di giudicare gli altri, dobbiamo essere in grado di giudicare anche noi stessi” – hanno contribuito alla comprensione di un periodo storico molto complesso e delicato, in modo particolare per la componente italiana della città. Come rilevato da Melita Sciucca, “a Fiume esiste qualcosa di particolare e la città deve essere fiera della presenza italiana nei secoli”. Insomma, dopo cent’anni sarebbe il caso di abbandonare l’abbinamento “italiani-fascisti”. A parte il periodo disgraziato del ventennio fascista, gli italiani hanno contribuito in maniera determinante alla crescita e allo sviluppo della città e rappresentano indubbiamente un valore aggiunto della Fiume contemporanea.

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