«Aborto assistito. Non è eutanasia»

Il Comitato etico d’appello dovrebbe esprimersi sulla vicenda Čavajda entro venerdì. L’avvocato della donna in gravidanza, il cui feto ha un tumore progressivo al cervello, invita a non fare confusione con la terminologia e non esclude un epilogo giudiziari

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«Aborto assistito. Non è eutanasia»

Il Comitato etico di secondo grado dovrebbe esprimersi nei confronti del ricorso presentato da Mirela Čavajda affinché le sia riconosciuto il diritto all’interruzione assistita della gravidanza entro venerdì. Lo ha reso noto ieri l’avvocato Vanja Jurić, la legale della donna zagabrese che dopo aver scoperto d’essere incinta di una creatura affetta da un tumore progressivo al cervello, ha deciso di volersi avvalere del diritto all’aborto terapeutico. In Croazia, però, ad oggi la donna non è riuscita a trovare alcun ospedale disposto a sottoporla all’intervento. Mirela Čavajda si è rivolta agli ospedali Merkur, Sveti Duh (Santo Spirito), Sestre Milosrdinice (Sorelle della Misericordia) e alla Clinica per le malattie delle donne e l’ostetricia, tutti di Zagabria. La vicenda è diventata in breve tempo una notizia da prima pagina e ha suscitando un aspro dibattito nell’opinione pubblica e una massiccia mobilitazione del settore civile, come pure della politica. I medici interpellati hanno spiegato di non poter assistere la donna (ora al sesto mese di gravidanza), sostenendo che nel suo caso non si tratterebbe di un aborto assistito, bensì di un’eutanasia prenatale assistita, non contemplata dall’ordinamento croato.

 

Due concetti distinti
L’avvocato Jurić ha ribattuto che il feticidio e l’eutanasia non sono la medesima cosa. “C’è una differenza abissale tra queste due pratiche. Di eutanasia possiamo parlare nel caso di una persona nata e successivamente fatta morire per vari motivi. In questo caso, invece, stiamo discutendo di un feto. Di conseguenza, dal punto di vista giuridico non si può parlare di eutanasia”, ha dichiarato la legale, rimasta vaga sulla possibilità che la sua cliente possa recarsi in Slovenia per sottoporsi all’intervento. “Mirela attenderà fino all’ultimo istante di conoscere il responso dei membri del Comitato etico d’appello in Croazia. Poi deciderà”, ha affermato l’avvocato. Vanja Jurić ha rilevato che dal punto di vista legale nulla vieta alla sua assistita di recarsi all’estero per sottoporsi all’interruzione di gravidanza, l’impedimento non sussiste, ha precisato, nemmeno nel caso in cui la risposta del Comitato etico di secondo grado le dovesse essere sfavorevole. Ad ogni modo l’avvocato, pur non addentrandosi nei dettagli, ha detto di non escludere la possibilità che l’intera vicenda abbia un epilogo in tribunale.

I due fronti
La società, intanto, si è spaccata in due. Da un lato ci sono le persone che considerano necessario rispettare il diritto della donna di poter ricorrere all’aborto, in particolare in casi di questo genere, quando esiste una seria possibilità che il feto o il bambino che porta in grembo sia affetto da gravi patologie o malformazioni. Sull’altro fronte sono schierate, invece, le persone che ritengono che il diritto alla vita, sin dal concepimento, debba avere la precedenza sulla volontà della madre.
In un’intervista rilasciata la scorsa settimana da Mirela Čavajda al quotidiano Jutarnji list, la donna ha detto che il suo unico pensiero è quello di assicurarsi che il suo bambino, per il quale aveva già scelto il nome (doveva chiamarsi Grga), non soffra. Va ricordato che la diagnosi attinente allo stato di salute della creatura che Mirela Čavajda porta in grembo è arrivato il 21 aprile scorso, quando la donna era alla 25ª settimana di gestazione. In base alla Legge sull’aborto in vigore in Croazia (risale al 1978) l’interruzione assistita della gravidanza può essere eseguita anche dopo la 10ª settimana di gestazione, ma a condizione che siano soddisfatti determinati criteri. In parole povere deve persistere un serio rischio per la vita della madre o nel caso esista la consapevolezza che il bambino verrà al mondo con disturbi o malformazioni tali da comprometterne la vita. Giorni fa commentando la vicenda il ministro della Sanità, Vili Beroš, ha detto che dopo aver studiato la documentazione un gruppo di esperti (medici specialisti) sono giunti alla conclusione che non si può escludere la possibilità che il bambino possa essere curato qualora venisse alla luce. Una tesi contestata dall’avvocato di Mirela Čavajda.

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