ECONOMIA E DINTORNI Internazionalizzazione, un caro vecchio tema

Dalla Fiera campionaria galleggiante del 1924 alle esperienze dei giorni nostri. Il punto sui requisiti per guardare all’estero, incrementare la reputazione aziendale e acquisire maggior prestigio nei confronti dei competitors

0
ECONOMIA E DINTORNI Internazionalizzazione, un caro vecchio tema

In alcuni precedenti interventi abbiamo trattato il tema dell’internazionalizzazione sotto il profilo meramente tecnico e geopolitico, soffermandoci sugli aspetti cari agli “addetti ai lavori”. Al di là delle nostre aspettative, abbiamo ricevuto molte sollecitazioni ad essere più didascalici, più attenti ad una informazione maggiormente accessibile ad operatori non particolarmente avvezzi a ragionare di diversificazione del proprio prodotto in mercati esteri, specie in termini microeconomici.
Oggi raccogliamo volentieri l’invito e ci è gradito fare un passo indietro per illustrare come e perché nasce tale esigenza, e come dare inizio ad una ragionevole evoluzione produttiva e commerciale oltre i propri confini.
Non tutti sanno che già nel 1920 alcuni imprenditori italiani come Alberto Pirelli, Giovanni Agnelli sr. e Carlo Olivetti sentirono l’esigenza di costituire ciò che oggi chiameremmo “massa critica” per promuovere all’estero i prodotti del genio italiano. In particolare l’intento era di diffondere la capacità dell’impresa italiana in America Latina e nella costa orientale degli Stati Uniti (ove erano già presenti molte famiglie emigrate dall’Italia alla fine dell’Ottocento), mercati fino a quel momento egemonizzati dalla presenza inglese e francese. Per contrastare tale egemonia, gli industriali italiani più potenti e autorevoli esercitarono forte pressione sul governo proponendo un progetto di “Crociera Commerciale” per promuovere il “fatto in Italia” in quei promettenti mercati, con particolare interesse per l’Argentina.

Una Mostra itinerante

In tempi impensabili per la nostra attuale burocrazia, venne allestita una vera e propria fiera campionaria galleggiante sulla “Nave Italia”, piroscafo di 150 metri con circa 250 uomini di equipaggio, che salpò il 18 febbraio 1924 dal porto di La Spezia con destinazione Buenos Aires. Non dimentichiamo che negli Anni Venti Buenos Aires era una delle cinque città più importanti al Mondo. A bordo della Regia “Nave Italia” fu appunto allestita la “Mostra Campionaria Itinerante” per esporre le eccellenze della produzione tecnologica e artistica italiana.
Seta, lana, cotoni, filati, orafi e affini, prodotti chimici, profumi e medicinali occupavano un’area ben definita; un secondo ampio ambiente era dedicato al libro, su progetto dell’Architetto Gino Coppedè; un’ulteriore area era occupata dalla sala dei marmi, delle ceramiche e affini; fu inoltre dato risalto alle industrie femminili e all’arredamento della casa; venne promossa l’industria bellica, l’industria della carta e la tipografia; strumenti musicali, vini e prodotti alimentari furono curiosamente accorpati in un ambiente unico. Un’area molto ampia era ovviamente destinata alle industrie meccaniche: macchine per l’agricoltura, automobili, cicli e motocicli. I prodotti esposti erano le macchine da scrivere Olivetti, i feltri Borsalino, il cioccolato Perugina, le ceramiche di Faenza, i vetri di Murano, le pistole Beretta, gli occhiali Salmoiraghi, le automobili Fiat, i biscotti Lazzaroni, il bitter Campari, la seta artificiale Snia Viscosa, i vasi di Gio Ponti e di Venini, i farmaci Carlo Erba. Sulla nave furono anche imbarcate centinaia di opere d’arte che sollecitarono ampio interesse internazionale, opere classiche e contemporanee, con dipinti e incisioni di Giulio Aristide Sartorio, Adolfo De Carolis, Antonio Mancini e Francesco Paolo Michetti. La “Nave Italia” rientrò a La Spezia il 20 ottobre 1924, dopo 23.000 miglia di navigazione e aver ormeggiato in 30 porti di 12 diverse nazioni, ottenendo risultati commerciali al di là di ogni ragionevole aspettativa.
Ciò indica che già cento anni fa le imprese sentivano l’esigenza di oltrepassare i confini nazionali per divulgare la concezione italiana del prodotto: si poteva parlare di export, ovviamente, e nulla più, ma erano i prodromi del più complesso tema dell’internazionalizzazione.

La situazione attuale

Dopo oltre un secolo, gli obiettivi di un’azienda che vuole crescere passano necessariamente per l’internazionalizzazione, che in poco tempo è diventata prima aspirazione, poi opportunità e infine necessità per imprese grandi, medie, e piccole. Val la pena ribadire che le cosiddette PMI rappresentano il 93% del tessuto imprenditoriale italiano. Sono anni che i governi italiani parlano di promozione del made in Italy nel resto del mondo, organizzando costosissimi viaggi di mera immagine senza entrare nel merito produttivo (è inutile vendere milioni di pezzi quando se ne possono produrre solo poche migliaia…); si è spesso trattato di passerelle per politici e testimonials, senza permettere a chi produce di cogliere le vere opportunità per chi produce, trasforma e distribuisce.
Per mettere un po’ d’ordine, un’impresa italiana si internazionalizza quando: produce, esporta e vende i suoi prodotti al di fuori dei confini nazionali; promuove partnership con imprese estere; apre il proprio capitale ad investitori non italiani; realizza unità produttive in Paesi esteri, mantenendo la sede primaria in Italia. L’internazionalizzazione è quindi quel processo per cui un’impresa crea legami produttivi e commerciali con uno o più mercati esteri; quando invece si tratta di definitivo spostamento della produzione e della sede primaria, si realizza una vera e propria delocalizzazione produttiva e finanziaria.
La delocalizzazione è in sintesi una sconfitta per il Sistema Paese, che non incentiva il mantenimento delle sedi principali in Italia, ma assiste passivamente alla “fuga” di competenze ed eccellenze in Paesi più convenienti sul piano dei costi operativi e fiscali, più snelli sul piano burocratico e più sensibili alla diffusione della cultura d’impresa sul piano etico.

Perché internazionalizzare

È fuor di dubbio che il primo moto per cui un’azienda dà inizio ad un programma di internazionalizzazione è l’incremento della propria reputazione, conseguendo maggior prestigio nei confronti dei competitors. Ci sono poi due immediati benefici di natura strettamente economica. Il primo consiste nell’incremento del volume di affari – vendere altrove i propri prodotti, banalmente, aumenta la platea dei potenziali clienti, e dunque aumenta il numero delle potenziali vendite. Ciò può avvenire per una vocazione innata all’internazionalizzazione da parte dell’imprenditore, per la crescita della domanda in mercati non domestici oppure per una saturazione del mercato interno, probabilmente già ampiamente conquistato o che presenta troppi nuovi concorrenti. Il secondo riguarda invece l’abbattimento dei costi – produrre in siti più vicini a dove si distribuisce comporta notevoli economie sul piano della logistica, del controllo qualità e del marketing applicato, che permette di conoscere con maggiore tempestività i bisogni del consumatore di quella nuova area di riferimento.

Costi e requisiti

Fin qui gli aspetti positivi, che rendono appetibili gli obiettivi da conseguire attraverso un processo di internazionalizzazione. Tuttavia, non possiamo sottacere che un percorso così interessante prevede dei costi e dei requisiti aziendali che non tutte le imprese possono sostenere. In sostanza solo imprese abbastanza dimensionate e provviste di buona liquidità possono affrontare il processing indicato nei paragrafi precedenti; una piccola impresa non ha né gli strumenti né le risorse perché valga la pena investire somme e tempi tecnici in incontri consulenziali rilevanti. E sappiamo bene quanto il sistema bancario sia refrattario a sostenere la piccola impresa, qualunque sia il suo progetto: la banca si disinteressa al profitto atteso, non ha la cultura della partecipazione al rischio, riservandosi semplicemente di valutare l’erogazione di denaro se le garanzie offerte coprono almeno il doppio del valore del finanziamento. In pratica il calcolo non riguarda quanto la banca può guadagnare dal profitto dell’investimento internazionale, essendo partner dell’impresa, ma solo dall’applicazione di interessi sull’erogato, e dalle commissioni di corollario.

Rete di conoscenze e informazioni

Una banca seria e marketing oriented metterebbe a disposizione del cliente la propria rete di conoscenze e informazioni con il Paese in cui ci si vuole insediare. Affinché un progetto di internazionalizzazione abbia successo infatti è necessario avere contatti diretti con professionisti e istituzioni del posto e con partner commerciali; conoscere la situazione socio-economica locale, come la distribuzione del reddito; aggiornarsi in merito alla situazione demografica e a quella ambientale; veirifcare l’esistenza di un eventuale rischio – Paese.
L’impresa italiana che vuole aprirsi ai mercati internazionali può fare anche riferimento con costi contenuti alle agenzie ICE presenti nei vari territori, che operano di concerto con i vari ministeri competenti, ma ciò non toglie che la condizione non è sufficiente. Prima di utilizzare i servizi territoriali e cercare i bandi per intercettare finanziamenti agevolati messi in campo dall’Italia e dall’Unione europea, l’imprenditore deve essere pronto all’investimento senza fare conto di alcun aiuto che, laddove arrivasse, sarebbe solo un “qualcosa in più”, per quanto importante.

I modelli possibili

L’internazionalizzazione può avvenire in più modi. Riassumiamo per comodità le modalità di sintesi:

• semplice esportazione

• vendita diretta dei propri prodotti sul mercato estero;

• retailing

• vendita dei propri prodotti tramite rivenditori locali;

• self sale

• apertura di una propria base di vendita nel paese di approdo;

• base development

• creazione di una società di diritto estero, autonoma ma legata alla principale che si trova in Italia;

• direct offshore investment

• grado più alto d’internazionalizzazione, che si verifica quando l’azienda non si limita a vendere all’estero, ma decide di dare inizio anche alla produzione nel Paese obiettivo, attraverso lo studio del miglior layout, delle dinamiche legislative e salariali locali, delle eventuali agevolazioni comprensoriali e del sentiment ambientale.

Il processo è caratterizzato dalla programmazione completa di servizi integrati, dall’individuazione delle aree e dei mercati esteri in cui operare e dalla definizione delle strategie d’ingresso; tutta l’organizzazione aziendale è coinvolta nello svolgimento delle attività connesse all’internazionalizzazione. Il processo è pertanto tutt’altro che semplice, e non può ridursi a poche riunioni e ad andare allo sbaraglio per auto appagamento commerciale; internazionalizzare significa fare affidamento su una consolidata e comprovata capacità industriale e finanziaria e da qualche anno anche dalla competenza per riconoscere le opportunità offerte dalla digitalizzazione.
Tali dinamiche non possono prescindere dalla consapevolezza di ciò che si vuole sviluppare e avviare. L’ambiente altamente competitivo dell’economia globale, dove merci, servizi, capitali e risorse umane si muovono a velocità impressionanti, impone all’impresa scelte ponderate e improntate alla massima concretezza, con interlocutori professionali istituzionali e imprenditoriali di alto profilo. I mercati esteri sono affascinanti e possono rappresentare grandi opportunità, ma, per essere realisti, non sono accessibili a tutti. In sintesi, per fare bene impresa in casa e fuori casa bisogna avere, come sempre, le idee chiare.

*senior partner jurisconsulta – cultura d’impresa

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display