Le otto C del Carnevale, una B che parte dalla C del Cuore e la Z di Zara

Siamo all’apoteosi del periodo più pazzo dell’anno, in cui tra vere feste solari che accadono in pieno inverno, ci riscaldiamo sotto le maschere tradizionali e moderne, ci vestiamo di sogni andando incontro alle sfide della vita con serenità e giubilo. Risalendo alle origini di tali usanze, le fonti storiche ci fanno, però, tornare nella notte dei tempi...

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Le otto C del Carnevale, una B che parte dalla C del Cuore e la Z di Zara
Gli “Halubajski zvončari”, scampanatori di Viškovo, patrimonio immateriale dell’UNESCO, durante una delle Sfilate internazionali in Corso a Fiume. Foto: ŽEL JKO JERNEIĆ

Dicono che il terzo lunedì di gennaio rappresenti il giorno più triste dell’anno. Ce lo impone, nel suo modo consueto, la cultura anglosassone a livello globale e lo definisce come “Blue Monday” in cui il colore blu indica malinconia e tristezza. Ribadisco, il blu della cultura anglosassone e non il nostro blu, quello dell’Adriatico e del Mediterraneo, che porta un significato tutt’altro che triste. Ma i giorni colorati non finiscono qui. Verso la fine di novembre siamo attirati dagli annunci in ogni dove sui prezzi superscontati del Black Friday, mentre in febbraio, prima della festa degli innamorati, ci lusinga il Red Saturday, come anche il Pink Wednesday.

Se invece mettiamo tutti i colori assieme e li rivestiamo di allegria, di musica e di sorrisi, abbiamo un unico pensiero in mente, un pensiero e un periodo gioviale: quello del CARNEVALE. Siamo alla prima lettera C.

Un po’ di storia non guasta mai
Il mio pensiero parte dal Magnifico e dai suoi Canti carnascialeschi con la seconda lettera C del suo invito “CHI VUOL ESSER LIETO, SIA: di doman non c’è certezza”, con il quale richiama agli umori della giovinezza nell’essere lieti, spensierati, allegri, felici, festosi, giulivi, giocosi, divertiti e divertenti, scherzosi, danzanti e canterini. Questo, però, non vuole essere un altro tra i tanti inviti a festeggiamenti del Carnevale, che iniziano a occupare i nostri spazi pubblici subito dopo le feste natalizie. È solo una semplice e importante considerazione sulla necessità di mantenere, riabbracciare o almeno ricordarci delle usanze e delle tradizioni, delle identità culturali a cui apparteniamo, ancora presenti tra noi. In queste ore ci stiamo avviando alla conclusione di quel momento dell’anno quando i falò di Sant’Antonio abate segnano, in molte parti dei nostri territori adriatici e mediterranei, l’inizio del periodo più folle, in questo 2024 durato sì e no un mesetto. Nel corso di settimane di vere feste solari, che si svolgono in pieno inverno, ci riscaldiamo sotto le maschere tradizionali e quelle moderne, ci vestiamo di sogni andando incontro alle sfide della vita con serenità e giubilo. Risalendo alle origini di tali usanze, le fonti storiche ci fanno tornare nella notte dei tempi quando incontriamo gli antichi Babilonesi e la loro commemorazione attraverso mascherate e cortei della lotta tra i due personaggi mitologici, Marduk e Tiamat, la loro interpretazione della creazione del mondo. La storia continua con l’antico Egitto e il culto delle maschere collegate con l’ultraterreno, le maschere funerarie dei loro faraoni. Dalla Grecia ci giungono i culti dionisiaci, le prime rappresentazioni teatrali in cui gli adepti di Dioniso danzavano mascherati, coperti da pelli di animali, al ritmo di canti corali tradizionali, i ditirambi, che seguivano i seguaci in stato di ebbrezza. Le celebrazioni religiose pagane romane, ci rivelano le pratiche durante i Saturnali, con particolari feste in maschera in onore di Saturno, anticipando le manifestazioni religiose delle Calende di gennaio. In conclusione, abbiamo fatto risalire le origini del Carnevale al mondo pre-cristiano con le antiche tradizioni delineate lungo millenni. Così come tanto tempo fa, cercando di stabilire un equilibrio tra sacro e profano, anche oggi le giornate più colorate dell’anno si aprono a spazi e comportamenti più stravaganti nel periodo dopo il quale segue la Quaresima che inizia con il Mercoledì delle Ceneri e fa cessare i festeggiamenti, richiamandoci alla riflessione, alla penitenza e alla sobrietà.
Siamo giunti alla terza lettera C, che riguarda le origini della parola carnevale. Diverse sono le ipotesi di derivazione latina: dalla più comune CARNEM LEVARE o “togliere la carne” durante il periodo di astinenza dalla carne che segue dopo il Carnevale a una seconda ipotesi, sempre di derivazione latina da CARRUM NAVALIS (carro allegorico a forma di barca), la quale ci fa scoprire un’altra tradizione romana, la “Navigium Isidis” o “La nave di Iside”, che comprendeva appunto una processione di maschere.
La prossima, quarta lettera C, appartiene al CARRO ALLEGORICO di cui oggi siamo lieti di poter seguire le varie sfilate in tutti i centri noti per la loro lunga tradizione. I carri erano all’inizio delle prime manifestazioni carnascialesche pesanti, ingombranti e difficili da manovrare. A partire dal primo Carnevale in Italia, svoltosi nel 1231 a Fano, nella regione delle Marche, abbiamo notizie storiche del Carnevale di Viareggio del 1873 in cui vennero descritte le difficoltà legate alla costruzione e alla guida dei carri. Solo nel 1925, i carri e le figure vennero alleggerite con l’applicazione della tecnica di CARTAPESTA (e qui siamo già alla quinta lettera C) grazie alla geniale idea di Antonio D’Ariano, diffusa in breve tempo in tutte le altre località.
Il CORIANDOLO, parte integrante delle festività carnevalesche, la nostra sesta lettera C che contraddistingue il Carnevale, oggi viene rappresentato da piccoli frammenti di carta colorata che riescono a entrare in tutti i luoghi immaginabili e non, nelle giornate illuminate dai loro colori. Il suo nome deriva dal seme del coriandolo, che nei tempi passati veniva ricoperto di gesso o glassato con lo zucchero e lanciato al pubblico. Il lancio dei coriandoli ci riporta al lancio dei petali di fiori, molto frequente nelle processioni cristiane e derivante dagli antichi phyllobolia o “lanci di foglie o petali di fiori”, che nell’antica Grecia venivano praticati durante cerimonie importanti, ricoprendo vincitori di gare sportive o coppie di sposi. In alcuni luoghi si lanciavano doni, segno di apprezzamento e contenenti poteri magici.

A Carnevale ogni… frittura vale
La settima lettera C fa spostare la nostra attenzione alle delizie del palato, tra cui un posto importante occupano le CHIACCHIERE. Sicuramente, oltre ai costumi e alle maschere di cui si parlerà in seguito, il significato del Carnevale è saturo di dolci e fritture. Dall’antica Roma ai nostri giorni sono sopravvissuti in diverse forme, i romani “fritcilia”, passati nella tradizione dell’epoca cristiana come frittura di cibo per fare carico di grassi prima del periodo di penitenza, quello della Quaresima. I fritti, semplificando l’espressione, sono d’obbligo in questo periodo in quasi tutte le terre cristiane. Possiedono il comune denominatore che parte dalla frittura di piccoli pezzettini o palline di pasta, più o meno elaborata. Una varietà di nomi italiani regionali parla di questi sapori autentici: bugie (in alcune città e regioni del Nord, come Liguria e Piemonte), galani, crostoli (Veneto), frappe (Roma e Lazio), cenci (Napoli), cioffe (Abruzzo), fazzoletti (Toscana), fiocchetti, intrigoni (Emilia-Romagna), cunchielli (Molise), guanti (Calabria), maraviglias (Sardegna) e, come si suol dire, chi più ne ha più ne metta. Oltre al profumo delle chiacchiere, le nostre case vengono pervase dal buon odore delle fritole locali, dei krapfen o bomboloni, degli arancini dolci di Carnevale. Eh sì, la frittura è la regina del Carnevale, nonostante sia sconsigliata e a volte proibita da nutrizionisti ed esperti di salute. Almeno a Carnevale, ogni… frittura vale.
E passiamo ora all’ottava lettera C con l’immagine più divertente e colorata del Carnevale, che sono senz’altro i COSTUMI e le maschere. Le maschere italiane provengono, nella maggior parte dei casi, dai misteri medievali, cristiani e pagani, passando per la “commedia dell’arte”. I diversi personaggi sono evoluti nel tempo, diventando rappresentanti di città e regioni. Una sfilata breve è quasi d’obbligo: dal famosissimo Arlecchino che proviene da Bergamo insieme a Brighella dove il primo è diventato oramai patrimonio di tutte le culture occidentali, la sua amata Colombina e il vecchio tirchio Pantalone che arrivano da Venezia, insieme a Meneghino da Milano, Gianduja da Torino, Balanzone da Bologna, Stenterello e Cassandro dalla Toscana, Meo Patacca e Rugantino da Roma, Pulcinella e Tartaglia da Napoli, Farinella dalla Puglia e Beppe Nappa da Sciacca.

Maschere ancestrali
La breve rassegna delle tipiche maschere italiane lascia spazio a un’analisi particolare che riguarda le maschere meno comuni, ma certamente non meno importanti che incontrano le loro “gemelle” dalla nostra parte dell’Adriatico. Ci spostiamo in Sardegna con sos Mamuthones, sos Boes e sos Merdùles, sos Colonganos, su Bundu, su Battileddu e molte altre, provenienti dai villaggi lontani, che incuriosiscono con la loro apparenza, mettendosi a fianco alle maschere a noi note degli scampanatori o “zvončari” (Halubajski) di Viškovo e dei bušari della Baranja. Queste somiglianze tra maschere ancestrali non dovrebbero sorprenderci per il fatto del passato agropastorale e rurale dei due territori. Anche se tutte diverse tra loro, sono delle maschere tenebrose, a sembianze zoomorfe o antropomorfe, vestite di pelli di animali, portando pesanti campanacci legati al corpo, incutendo paura con suoni e movimenti.

La B di Benin City
L’ancestralità ci fa passare sul continente vicino, precisamente sulla costa atlantica dell’Africa, la dove un tempo sorgeva il grande regno del Benin con la capitale Edo, ora Benin City. Rivelatosi al mondo occidentale nei tempi delle navigazioni portoghesi, il grande regno ha fatto scoprire al mondo la magnifica ricchezza dei lavori artistici, in modo particolare delle maschere cerimoniali tra le quali regna la maschera pettorale in avorio della prima iyoba “regina madre”, queen Idia. Purtroppo, più che di Carnevale qui possiamo parlare di carneficina perché fu sottratta durante il saccheggio britannico del 1897 dal Palazzo reale, insieme a numerosi artefatti. Attualmente si trova esposta alla Metropolitan Museum of Art di New York (MET). Il ricordo della fiera regina e della sua maschera vivono tra la gente di Benin City nella riproduzione su diversi capi di abbigliamento. A Benin City, dove i cittadini croati supportano la costruzione di un centro scolastico dal nome Living Light Academy, frequentato da più di 700 studenti, esistono tradizioni di festeggiamenti simili al Carnevale, che sono state introdotte nel passato, insieme alla preparazione di alcuni cibi. Se credete che le fritole siano il prodotto tipico dell’area mediterranea, vi sbagliate di grosso. A Benin City e in parte della Nigeria esistono vari tipi di fritture tra le quali riconosciamo i puff-puff (simili alle nostre fritole, appunto) e i chin-chin. Esiste anche la parola Carnival, che viene però usata nelle feste di fine anno (solare), associata ai simboli mondani del Natale, di solito Babbo Natale: i bimbi vestiti a festa o solo con i loro visi ricoperti di colore bianco (di solito col gessetto) con le sfilate per le vie dei paesi, cantando canti tradizionali e ballando. Si tratta di feste molto colorate a cui ci tengono tutti, grandi e piccini. Guai a non esserci, perché si tratta di una buona opportunità di stare insieme in allegria.

Dulcis in fundo – la Z di Zara
Ritornando in Europa e risalendo il fiume storico di eventi, più o meno fortunati, ci si presentano varie scene, tra cui una in particolare che viene descritta da un anonimo Pampurio e parla del Carnevale che si svolgeva nelle calli e nelle piazzette zaratine, a cavallo tra due secoli, il XIX e il XX. Sul giornale “Il Dalmata” si legge: “il Carnovale veniva quindi come una liberazione dalle pastoie della vita convenzionale ottocentesca; era l’epoca in cui i cristiani diventavano matti (…) maschere singole, mascherate collettive, tipi fissi, trovate straordinarie. (…) Tipi fissi erano dei buontemponi, in domino fiorato, che muniti di una canna da pesca adescavano i monelli con una ciambella per esca. I ‘muli’ conoscevano il regolamento del giuoco: bisognava agguantare la ciambella coi denti, guai alzare le mani. Chi l’afferrava riceveva due soldi di premio, oltre alla ciambella, s’intende.
Giovedi grasso, l’ultima domenica e l’ultimo carnovale getto di confetti e di coriandoli. Temutisimi i secondi per le complicate pettinature di allora, buona preda per i primi, per i ragazzi del contado che si gettavano avidamente a terra per raccoglierli e mangiarseli anche se sudici. Naturalmente, intralciavano il passo alla gente e si buscavano dei superbi calci retrospettivi. Siccome il confetto era sostituito dall’economica ‘pomela’ (bacca o frutto a drupa di colore rosso) nacque il proverbio ‘Andar a ciapar una pintelcul per una pomela’.
Al Centrale volava aristocraticamente la ‘cartolina’; un dischetto di zucchero incartato, con la carta arricciata ai lati come le caramelle odierne (…)”.
Infatti, come oggi c’era chi celebrava il Carnevale con balli in maschera in vari palazzi, ora in vari locali acclamatissimi, mentre per i comuni mortali scherzi, burle, beffe nelle strade e tra i passanti. Chiudiamo con un saluto che si cantava a squarciagola in quei tempi, ricordando la dolcezza e l’allegria del Carnevale: “E lichème che son bon, son de zucaro panon”.

*docente del Dipartimento di Studi Italiani dell’Università di Zara

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