«Dei film che amiamo ricordiamo le luci»

Bernardo Bertolucci, il regista che raccontò la rivoluzione studentesca e le libertà sessuali, che indagò la storia d’Italia e che realizzò opere iscritte nella storia del cinema

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«Dei film che amiamo ricordiamo le luci»
Maria Schneider, Marlon Brando e Bernardo Bertolucci: accordi durante la lavorazione di Ultimo tango a Parigi (1972). Foto: IPA/PIXSELL

Bernardo Bertolucci era destinato a una vita d’artista. Nelle interviste si divertiva a prendere in prestito la frase di Judy Garland: “Sono nata dentro un baule in un teatro di Parigi”, tratta dal film “È nata una stella” (1954). Quando parlava del suo interesse per l’arte ci teneva a sottolineare: “In famiglia scorreva un venticello d’arte”. Nato nel 1941 a Parma dal poeta e critico Attilio Bertolucci e dalla professoressa di letteratura Ninetta Giovanardi, il giovane Bernardo trascorse gran parte della sua infanzia scrivendo poesie, prima di prendere in mano, all’età di 15 anni, una cinepresa da 16 mm. Si mise a girare due cortometraggi con il fratello minore Giuseppe, che sarebbe a sua volta diventato regista, e da allora la sua strada fu tracciata. Una strada che non avrebbe mai più abbandonato.

Il debutto con un 35 mm
A vent’anni Bertolucci abbandonò l’Università e lavorò come assistente di Pier Paolo Pasolini. L’anno seguente (1962) presentò il suo primo lungometraggio, “La commare secca”, basato su una bozza di cinque pagine di Pasolini, che portò alla Mostra del Cinema di Venezia. Il film racconta un’indagine sull’omicidio di una prostituta a Roma; un racconto che propone molteplici prospettive di diverse persone sugli eventi che segnarono l’ultimo giorno di vita della vittima. Ogni episodio, raccontato all’investigatore invisibile fu girato con uno stile differente. Si tratta, come ammise il regista, di un film di “qualcuno che non aveva mai girato in 35 mm, ma che aveva visto moltissimi film”.

Bernardo Bertolucci a Venezia.
Foto: ANDREA RAFFIN KIKA/PIXSELL

L’identità sessuale e la politica
Fu l’inizio di una carriera straordinaria. Nel giro di un decennio dal suo debutto, questo regista dal talento prodigioso si affermò non solo come protagonista del nascente cinema italiano, ma anche come importante artista internazionale. Dalla stabile collaborazione con il direttore della fotografia Vittorio Storaro, Bertolucci sviluppò nei suoi film uno stile estetico vivido e sensuale. Affascinato dalle questioni di identità sessuale e dalla politica, da uomo di sinistra, pose la politica in primo piano in molti dei suoi film. In particolare nel suo secondo lungometraggio, “Prima della rivoluzione” (1964), che tanti considerano il primo vero film di Bernardo Bertolucci. Il protagonista Fabrizio, Francesco Barilli, è combattuto tra la sua comoda esistenza borghese e la politica marxista radicale dei suoi compagni di scuola. Un personaggio che può essere considerato l’alter-ego di Bertolucci, il risultato di un senso di vergogna del regista per la sua provenienza da una famiglia borghese, che in seguito approfondirà

Raccontare il ‘68
”Prima della rivoluzione”(1964) fu a suo tempo ignorato dalla critica italiana, ma al contempo fu molto apprezzato da quella francese: la prestigiosa rivista “Cahiers du Cinéma” lo celebrò come un capolavoro quando l’archivista Henri Langlois ne organizzò l’uscita in Francia nel 1968. Il film arrivò giusto in tempo per gli eventi del maggio ‘68 e fu visto come una visione profetica. Sebbene Bertolucci non si trovasse a Parigi negli anni della contestazione, utilizzò le notizie provenienti dalla capitale francese come ispirazione per il film successivo che stava girando a Roma, “Partner” (1968), un libero adattamento de “Il sosia” di Dostoevskij. Nell’approccio formale fu questo il più sperimentale di qualsiasi altro film della carriera del regista e l’influenza di Godard è evidente. “Prima della rivoluzione” e “Partner” sembravano posizionare Bertolucci come regista del momento, in diretta conversazione con il mondo che cambiava intorno a lui, ma avrebbe raggiunto il suo più grande successo esaminando il passato dell’Italia.

«Il conformista», la svolta
È difficile comprendere l’impatto dirompente che “Il conformista” – tratto dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia – scatenò alla sua uscita nel 1970. Parliamo di un film che unisce le preoccupazioni freudiane e politiche di Bertolucci in uno studio ironico dell’Italia prebellica che è contestualmente anche un tentativo di penetrare la mente del fascismo. Divenne immediatamente una fonte d’ispirazione per un’intera generazione di registi tra cui anche Francis Ford Coppola che lo definì “il primo classico del decennio”, riconoscendo che fu “Il conformista” a influenzare tutti i suoi film del Padrino.
Bertolucci, Storaro e lo scenografo Ferdinando Scarfiotti, appena ventenni, crearono un ambiente opprimente intorno a Marcello Clerici, un assassino riluttante e sessualmente confuso, interpretato dall’attore Jean-Louis Trintignant, attraverso l’uso espressivo della luce e dell’architettura. Le pareti e i mobili bianchi di un ospedale psichiatrico, la scrivania di un funzionario fascista situata al centro di una cavernosa stanza vuota, gli specchi che tengono Clerici prigioniero delle sue stesse paure e insicurezze. Bertolucci mostra attraverso il trauma infantile del personaggio. Lo sparo diretto all’autista che aveva tentato di sedurlo e un’omosessualità repressa vengono presentati come i fattori che spingerebbero Marcello a offrire i suoi servizi al partito fascista e a contrarre un matrimonio borghese, per il quale gli viene chiesto di assassinare il suo ex professore.

Uno stile sgargiante
”Il Conformista” vide la piena fioritura dello stile sgargiante di Bertolucci: elaborate riprese in carrellata, angolazioni barocche, effetti cromatici opulenti, decorazioni ornamentali e l’intricato gioco di luci e ombre che conferisce al suo lavoro una superficie così particolare. Nello stesso anno (1970) Bertolucci realizzò anche un film per la televisione, “La strategia del ragno”, un lavoro che funge da irresistibile compagno de “Il conformista”. È una trasposizione di un racconto di Jorge Luis Borges e propone il tema letterario del traditore e dell’eroe. Edipico e labirintico come la sua fonte, il film racconta di un giovane che torna nel villaggio padano dove suo padre fu assassinato dai fascisti nel 1936 e scopre gradualmente che il padre, che aveva considerato un eroe, fu in realtà un traditore, ma rimane fuori circolazione e di conseguenza ha poca diffusione e visibilità.

Sul set del Piccolo Buddha (1993).
Foto: IPA/PIXSELL

«Ultimo tango a Parigi»
Se “Il conformista” fu una svolta, “Ultimo tango a Parigi “ (1972) diventò un fenomeno. Alimentato da una rassegna stampa spesso scabrosa e da una famosa recensione entusiasta della celebre critica del New Yorker, Pauline Kael che scrisse tra l’altro: “Questo è il più potente film erotico mai realizzato, e può rivelarsi il film più liberatorio mai realizzato”. “Ultimo tango…” divenne l’imperdibile successo di scandalo in due epoche diverse, per motivi differenti. La storia sessualmente esplicita di un uomo di mezza età, interpretato da Marlon Brando, e della sua relazione ossessiva con una donna più giovane, Maria Schneider, propone scene di abuso emotivo e di sesso in cui l’elemento del consenso è a dir poco ambiguo. Alla sua comparsa il film fu attaccato per motivi di moralismo convenzionale e contestualmente debitamente difeso nel contesto della libertà, del permissivismo e della rivoluzione sessuale. Nel 2016, però, emerse un video in cui Bertolucci suggerisce che la famigerata scena in cui il personaggio di Brando penetra brutalmente quello della Schneider usando un panetto di burro fu improvvisata ma pianificata in anticipo da Brando e dal regista senza dirlo alla Schneider, perché si richiedeva che la sua umiliazione sembrasse vera e reale. Due uomini potenti erano in effetti conniventi nell’aggressione di una donna più giovane. Bertolucci dichiarò il suo comportamento crudele due anni dopo la morte dell’attrice: “Povera Maria – disse –. Non ho avuto l’occasione di andarle a chiedere di perdonarmi”. Bertolucci però rimase “impenitente” e il 28 aprile 2018, in occasione dell’evento organizzato per celebrare il restauro nell’edizione in 4k di “Ultimo tango…” al Festival internazionale del cinema di Bari, annunciò con decisione che Ridley Scott avrebbe dovuto “vergognarsi” per aver sostituito Kevin Spacey con Christopher Plummer nel film “Tutti i soldi del mondo” (che racconta il sequestro di John Paul Getty III, ndr), e che gli sarebbe piaciuto lavorare con l’attore.

La lotta tra classi sociali
Il successo di “Ultimo tango…” permise a Bertolucci di avere piena libertà per il progetto che portò avanti subito dopo. “Novecento”(1976) è un’opera consapevolmente epica, che ripercorre cinque decenni di politica italiana e di lotta di classe attraverso le esperienze intrecciate di tre personaggi simbolici: il nobile contadino Olmo (Gérard Depardieu), il debole proprietario terriero Alfredo (Robert De Niro) e il sadico capo fascista psicotico Attila (Donald Sutherland). Centrale è il tema della vigliaccheria morale che permette al fascismo di prosperare, un tema già precedentemente esplorato in “La strategia del ragno” e “Il conformista”. “Novecento” è un film esplosivo, violento e sessualmente esplicito che raggiungeva i 315 minuti di durata prima che il produttore Alberto Grimaldi ne prendesse il controllo e lo tagliasse a 195 minuti. Del fatto Bertolucci si lamentò con la stampa: “Questo – disse – non è il mio film; è un trailer, una farsa!” Seguì pronta la replica di Grimaldi: “Il mio amico è circondato da leccapiedi che gli dicono che è Dio”. Iniziò così per il regista una crisi d’orgoglio apertasi appunto con lo scontro col produttore. Ci volle tempo perché la versione non rimaneggiata di “Novecento” venga vista dal grande pubblico e accettata come una grande opera.

«L’ultimo imperatore»
Dopo una serie di film incentrati sulle figure paterne, il regista tentò una nuova direzione con il melodramma edipico “La Luna” (1979), un film molto sottovalutato che vanta alcune delle immagini più sontuose di Bertolucci e Storaro e un’interpretazione superba della protagonista Jill Clayburgh. Ma fu “L’ultimo imperatore” (1988) – un biopic sull’imperatore cinese Pu Yi – a riportare in auge Bertolucci. Una festa visiva, con il privilegio senza precedenti per una troupe occidentale, di poter filmare all’interno della Città Proibita. La biografia di Pu Yi, l’ultimo imperatore cinese o Figlio del Cielo, mostra la sua “rieducazione” fino al regime maoista attraverso un’epopea affascinante e sontuosa che copre quasi 60 anni della storia della Cina. Particolarmente impressionante è la luminosa fotografia di Storaro, che catturò lo splendore dorato del palazzo nella Città Proibita. Dopo un soggiorno di due anni in Cina, Bertolucci completò quella che definì la sua “trilogia orientale”, l’esplorazione di culture non occidentali che aprì il suo lavoro a temi esistenziali e filosofici: “Il cielo riparato” (1990), girato in Algeria, Marocco e Niger, e “Piccolo Buddha” (1993), girato in Bhutan e Nepal. Il “Piccolo Budda” fece incetta di Oscar, vincendo tutti e nove i premi per i quali era stato nominato.

Nella Città Proibita per realizzare L’ultimo imperatore (1988).
Foto: IPA/PIXSELL

Il ritorno in Italia
Dopo questo successo, fu facile per Bertolucci trovare investimenti e distribuzione per realizzare altri film, tra i quali l’avvincente adattamento di “Il Tè nel deserto” (1990) di Paul Bowles. Bertolucci dopo 15 anni vissuti lontano dall’Italia tornò in patria per girare “Io ballo da sola” (1996), un film lussureggiante e d’atmosfera, e “L’assedio” (1998), una solida opera da camera. Sembrava che Bertolucci avesse il “pilota automatico” e questi film per la critica non costituivano certo una prova per un grande regista.
Fu il ritorno al 1968 a rinvigorire il cinema di Bertolucci. Il suo film del 2004, “ I sognatori”, adattato da Gilbert Adair dal suo stesso romanzo, è un film guidato da una profonda passione per il sesso, la musica, la politica e il cinema, e costellato di riferimenti cinematografici: Chaplin, Cocteau, Godard, Frank Tashlin, Tod Browning e Nicholas Ray. Dopo aver a lungo rimpianto di non essere stato presente a Parigi per i disordini del 1968, Bertolucci li ripropone, con Isabelle (Eva Green) che s’incatena ai cancelli della Cineteca francese per protestare contro il licenziamento di Henri Langlois. Il film cattura l’eccitazione di un’epoca in cui sembrava che tutto potesse accadere e la disillusione che inevitabilmente ne sarebbe seguita. Per il regista sembrerebbe un grande ritorno o una rinascita emozionante, ma si rivelò quasi un canto del cigno. Poco dopo l’uscita del film, Bertolucci si sottopose a una serie di operazioni alla schiena che gli costarono l’uso delle gambe. È una triste ironia che, dopo aver prodotto uno dei suoi film più liberi, avrebbe usato una sedia a rotelle per i suoi ultimi anni. Bertolucci aveva solo 64 anni quando subì l’infortunio e ci si chiede quali film il pubblico si sia perso nel decennio di inattività che seguì e che fu segnato anche dalla depressione.

Si chiude un epoca d’oro
Bertolucci tornò alla regia con “Io e te” (2012), un film che portava con sé molti dei tratti distintivi del regista. Come in “Ultimo tango a Parigi” e “I sognatori”, si tratta di uno studio claustrofobico di personaggi che si sono volontariamente ritirati dal mondo esterno, mentre la presenza della tossicodipendenza insieme alla suggestione di pensieri incestuosi ricorda “La Luna”. Tuttavia, ci sono momenti in cui il gioco di luci sui volti e sui corpi è impressionante ed evocativo come lo era in alcuni dei primi lavori del regista e come Bertolucci disse in un’occasione: “Sono sempre stato colpito dal fatto che ci ricordiamo molto di più delle luci dei film che amiamo che della trama”. Le luci e le ombre dei film di Bernardo Bertolucci rimarranno sempre con noi e la sua morte sembra tracciare una linea di confine con un’epoca d’oro del cinema italiano.

Il regista con il Dalai Lama e Tawakkul Karman, in Campidoglio a Roma.
Foto: IPA/PIXSELL

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