Ai tempi dei saraceni nel Piemonte (foto)

Abdan Fares Husam Ed Din aveva un vizio. Uno dei due vizi maggiormente aborriti dai comandamenti della sua religione. Non mangiava assolutamente carne di maiale, anche se ne trovava in abbondanza durante le sue scorrerie, ma gli piaceva enormemente il vino. Ecco, era proprio il vino il suo «santo» peccato. Non che lui fosse il solo. Era in buona compagnia. Anche diversi dei suoi più stretti dignitari condividevano con lui questo «peccatuccio»

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Ai tempi dei saraceni nel Piemonte (foto)

Nella zona di Ottiglio, nell’alto Monferrato, il colle di San Germano dovrebbe nascondere una caverna del tempo. Attorno agli anni mille, gran parte del Monferrato e l’attuale provincia alessandrina sino all’oltre Po verso il vercellese era zona di razzie da parte dei “mori”. La storia ne riporta le tracce. I Saraceni infatti si erano attestati ad Acqui, Asti, Alba, Tortona e Serravalle, tanto per citare i centri più importanti. Provenivano dalla loro base di Frassineto nel Golfo di S. Tropez in Provenza, che era diventato un loro scalo stabile e fortificato, protetto dalla vicina fortezza di “Le Gard Freinet”. Il califfo aveva nominato comandante del suo esercito un tale Aban Fares Husam Ed Din, i cui nomi tradotti significavano “cavaliere” e “spada della religione”. Prerogative che ben si addicevano al generale arabo che sapeva guidare magistralmente la sua cavalleria in battaglia e si proclamava valoroso protettore della sua religione.
Abdan Fares Husam Ed Din aveva ricevuto l’ordine di spingersi con il suo esercito di circa ventimila uomini fin verso la piana tra Casale e Vercelli, appoggiandosi ai mori che avevano una base a Frassinello, il cui nome evidentemente derivava da una copiatura di quello del Golfo di S. Tropez. Doveva varcare il Po e spingersi a razziare per la Pianura Padana. Ovviamente qualsiasi nefandezza, violenza, rapina e sterminio erano scontati in queste campagne. Si trattava principalmente di razziare ogni sorta di preziosi, soprattutto quelli delle chiese. Catturare le donne che meritavano di essere trasferite oltremare per diventare schiave, procurarsi le vettovaglie per gli uomini e per i cavalli, sterminare chiunque non ubbidiva ai loro ordini e anche qualcuno di più: tanto i locali non erano altro che degli “infedeli”.

I privilegi dei comandanti
I comandanti, poi, potevano soddisfare capricci, scelleratezze e vizi nascosti, lontano dagli sguardi del Gran Mufti. Abdan Fares Husam Ed Din aveva un vizio. Uno dei due vizi maggiormente aborriti dai comandamenti della sua religione. Non mangiava assolutamente carne di maiale, anche se ne trovava in abbondanza durante le sue scorrerie, ma gli piaceva enormemente il vino. Ecco, era proprio il vino il suo “santo” peccato. Non che lui fosse il solo. Era in buona compagnia. Anche diversi dei suoi più stretti dignitari condividevano con lui questo “peccatuccio”. La campagna che stava conducendo lo portava a percorrere dei territori che già quella volta erano noti per la buona produzione di diversi tipi di vino. Era così preoccupato di raccogliere i frutti proibiti del suo desiderio che, durante le razzie, proibiva ai suoi uomini in modo assoluto di devastare locali in cui era custodito del vino. Anzi, nessuno doveva entrare nelle cantine prima che lui stesso non ne avesse presa visione. Praticamente, prima lui assaggiava e poi decideva se far sterminare o meno gli “infedeli” vinaioli. Si racconta che durante un trasferimento con la sua truppa, nel fare tappa subito dopo Asti, probabilmente dalle parti di Montemagno, dopo aver razziato nelle colline, pose il campo per alcuni giorni di riposo. Nella sua grande tenda teneva concione con i suoi collaboratori, con i comandanti delle truppe e altri personaggi del suo seguito, per fare il punto della situazione, della consistenza delle varie razzie e naturalmente per banchettare.
Evidentemente i giorni di riposo procuravano un certo rilassamento e per scacciare le preoccupazioni, Abdan Fares Husam Ed Din organizzò quella volta una grande abbuffata dove il vino deve essere scorso in abbondanza. Tanto abbondante da stroncare le forze a tutti gli invitati che, si dice, rimasero chiusi nella tenda per ben due giorni e due notti. Certo, il trasporto dei preziosi razziati e quello del vino, per non parlare della moltitudine degli schiavi, creava ai mori non pochi problemi. I carri non potevano procedere spediti come la cavalleria e, di conseguenza le salmerie dovevano essere distribuite in maniera che risultava poco funzionale a servizio della moltitudine. Esisteva, inoltre, un altro problema che preoccupava i Saraceni a causa della loro politica sconsiderata e dei rapporti non sempre chiari che tenevano con i momentanei alleati autoctoni. Capitava, infatti, che stringessero delle alleanze con i signorotti del posto per il mutuo interesse di poter spadroneggiare e difendersi da altri signorotti di castelli limitrofi. Erano alleanze che finivano spesso in feroci rivalse soprattutto a causa dei patti non mantenuti nella suddivisione dei bottini razziati.
Famoso fu, infatti, lo scontro con Aimone, Conte di Vercelli che a causa di un diverbio per la suddivisione di un bottino, questi ruppe l’accordo con i suoi amici arabi. Si alleò con i signorotti locali e in una memorabile e sanguinosissima battaglia annientò i Saraceni presso il Castello di Frassinello, nelle colline a circa cinque miglia da Casale Monferrato.
Il generale saraceno temeva infatti proprio il nascere di un fatto simile che lo avrebbe messo in seria difficoltà. Fu così che venne a crearsi una situazione che ancor oggi evidenzia le sue tracce e di cui numerosi autorevoli scritti se ne sono occupati e che è ben conosciuta da molti abitanti del casalese. Ne fa riferimento addirittura l’Associazione Amici della Natura di Casale & del Monferrato con una ricerca a cura del suo Vice Presidente. Abdan Fares Husam Ed Din decise di stringere i tempi e raggiungere la zona di Ottiglio, dove nell’attuale comprensorio comunale di questo paese, nel colle di San Germano, in zona confinante con gli attuali Comuni di Frassinello e di Olivola esisteva un vastissimo comprensorio cavernicolo di origine carsica, che nei secoli è stato sempre indicato come le “Caverne dei Saraceni”. Protetto dal nucleo fortificato di Frassinello in mano ai mori, l’esercito saraceno poteva predisporre le caverne a ricovero degli uomini e tutela dei cavalli nonchè dei beni razziati. Il sistema delle caverne, sembra fosse enorme, con una capienza che poteva benissimo servire ad un lungo soggiorno e come base per le scorrerie sino alle pianure dell’oltre Po.
Naturalmente, per prima cosa fu ricoverato in un antro ben protetto e celato il pingue bottino di preziosi e oro razziati in mesi di scorribande. I cavalli, sempre ben curati dagli arabi, trovarono rifugio nelle spaziose caverne, così come furono sistemati i prigionieri ridotti in schiavitù. Le grotte, quelle con una cubatura abbondante, furono adibite ad abitazione, mentre i soldati trovarono una decente sistemazione all’interno anche grazie all’ottima ventilazione e alla presenza addirittura di un lago, nonché di una grande vena d’acqua che scorreva sul fondo e che presumibilmente era quella che ancor oggi alimenta la sorgente potabile della “Pozzetta” a ovest del Colle di San Germano. Sconvolgimenti naturali, crolli e frane procurate nei secoli da scavi alla ricerca della mai trovata apertura d’ingresso delle Caverne dei Saraceni, hanno cancellato ormai le tracce della presenza dei mori di Abdan Fares Husam Ed Din. Per molti anni si favoleggiò della presenza di un grande tesoro celato negli antri del Colle di San Germano ed ancor oggi c’è chi giura che questo tesoro dei Saraceni esista.

Prova dell’esistenza
Camini naturali e fenditure della roccia, comprovano l’esistenza delle caverne create dall’assestamento delle falde tufacee e dal dilavamento delle acque pluviali, mentre la scissione tutt’ora in atto sul Colle di San Germano avvalora la presenza di una rete di cavità all’interno, tali da giustificare una grandissima ricettività a quei tempi. Del comandante saraceno, la storia ha perso le sue tracce, ma sono in molti che sperano possa trasmettere la prova della sua esistenza, proprio in virtù del ritrovamento del suo tesoro. Nessuno, invece, pensa che esista ancora una prova concreta del suo passaggio e di quello dei Saraceni che infestarono il Piemonte centro-meridionale, il Monferrato e su, su fino ai valichi alpini del Gran San Bernardo. Attualmente esistono solamente i cognomi come “Moretto”, “Turco” “Algerino” e altri ancora che troviamo lungo le valli i quali sicuramente hanno origine grazie a qualche rapporto con lo stanziamento degli arabi in zona. Ritornando alle Grotte dei Saraceni, si sa di preciso che nel corso dei secoli furono abbondantemente occupate da ogni sorta di gente: sbandati, soldati disertori, zingari, grassatori e banditi, tant’è che nel 1626, il governo Mantovano intervenne per far finire questa “vergogna”. Fece saltare gli ingressi sbarrando così i passaggi senza curarsi del fatto che all’interno potessero esserci uomini, animali e magari il famoso tesoro dei mori. Certo sarebbe piuttosto curioso riuscire a entrare nelle grotte e magari, invece del tesoro, ritrovare bottiglie, otri e caraffe dai quali il vino ormai evaporato, confermasse con i suoi residui gli avvenimenti di un’epoca ormai entrata nell’oblio del tempo, ma che ancora oggi la gente del posto racconta, mentre alcuni addirittura cercano di farli rivivere scavando qua e là nella speranza di imbattersi nell’ingresso delle caverne del generale saraceno Abdan Fares Husam Ed Din.

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