«Terra irredenta, terra incognita» dal 1914 al 1918

Alla Ubik di Trieste presentato il libro di Fabio Todero

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«Terra irredenta, terra incognita» dal 1914 al 1918
Fabio Todero e Raoul Pupo. Foto: ROSSANA POLETTI

Alla libreria Ubik di Trieste è stato presentato il libro di Fabio Todero “Terra irredenta, terra incognita” ed. Laterza, sottotitolo del volume “L’ora delle armi al confine orientale d’Italia 1914-1918”. Proprio sul titolo si è soffermato Raoul Pupo, chiamato a dialogare con l’autore, affermando che si presenta con punti interrogativi a cui Todero ha cercato di dare risposte. “Non si tratta di un libro che racconta di battaglie in senso stretto – ha affermato Pupo –, bensì di ciò che accadde in quest’area tra il 1914 e il 1918, cosa successe alle popolazioni che si trovarono con la guerra in casa, parla di coloro che la combatterono dai due diversi fronti, quello italiano e quello austriaco, di chi partendo da qui andò altrove, lontano come la Galizia e che visse un’odissea nel ritorno. Il primo protagonista del volume è il territorio, questa terra irredenta”.

A questa osservazione l’autore ha fatto presente che il concetto di irredentismo è proprio di queste zone. In Italia era poco compreso. Ne scrisse Imbriani, che avrebbe voluto la riunificazione sotto il Regno d’Italia di tutte le aree in cui si parlava italiano, intendendo il Trentino e la Venezia Giulia. Nel 1863 Isaia Ascoli codificò il concetto geografico e sociale delle Tre Venezie. “Comunque comprendere quali fossero esattamente le terre irredente non era semplice, difficile ammettere di fare guerra per territori che non si conoscevano” ha affermato Todero. Terra incognita è termine che esprime la difficoltà di definirne i confini. Per lo più si parlava di Trento e Trieste, a cui si aggiungeva l’Istria. La città giuliana poi era considerata inarrivabile. Gli italiani di inizio secolo erano prevalentemente analfabeti. I soldati che andavano in guerra si trovavano in luoghi di difficile comprensione, non sempre abitati da italofoni. Si combattè sul Carso e nell’Isontino, sloveni. In alcuni villaggi del Monte Nero contadini vennero scambiati per spie e passati per le armi. Nel litorale la guerra scoppiò un anno prima e gli italiani vennero mandati ai confini del mondo slavo. “Scrivevo questo capitolo – ha affermato lo storico – quando è scoppiata la guerra in Ucraina. I soldati di lingua italiana e slovena si ritrovarono a Leopoli, un luogo simbolico, nella Galizia cimitero dei popoli, come è stata definita. Quella fu una guerra di movimento con grandi scontri in campo aperto, in trincea e sulle sponde dei fiumi, una sorta di guerra napoleonica con armi però moderne, capaci di fare tanti morti”.
“Era vero – ha chiesto Pupo –, che i combattenti del litorale cercavano di salvarsi a tutti i costi, appellati come furono col termine “demoghela”?” “C’erano sicuramente i ‘fedeloni’, ma la maggioranza era una massa grigia che dovette partire, accomunata da un senso solidaristico forte, di aiuto reciproco. Comunque le gerarchie militari austriache non consideravano affidabili né gli italiani né i cechi. L’Italia entrò in guerra un anno dopo e ci furono missioni militari per far liberare gli italiani che vestivano le divise austriache, prigionieri in Russia. L’Italia voleva reclutarli per il proprio esercito”, ha ricordato l’autore. “Una parte venne rimpatriata solo nel 1916, ma pochi finirono nell’esercito italiano, c’erano troppi filtri di controllo. C’erano poi stati quelli che avevano fatto scelte impegnative, passando il confine e arruolandosi da fuoriusciti. Il fior fiore dell’intellettualità giuliana: Slataper, Stuparich, Timeus, Marin e tanti altri. Ma non erano tutti uguali nelle idee. La guerra fungeva da elemento egualizzatore, alla fine le posizioni si diversificarono, alcuni finirono nelle file fasciste, altri scelsero altre strade”.
“Nell’indice del libro si parla di terra materiale, concreta, di Carso?” – ha chiesto Pupo. “Il ligure Carlo Pastorino vi combattè, l’aveva conosciuto attraverso la lettura de ‘Il mio Carso’. Lo ritrovò come un autentico inferno – ha riferito Todero–. Roccioso, rendeva ardua la costruzione di trincee. Mancava l’acqua, d’inverno il freddo era pungente, le estati torride, descrisse un territorio ostile che metteva paura, terrore. E la montagna, le Alpi Giulie, furono luoghi di atti devastanti e della morte bianca, quando sei metri di neve sommersero entrambi i fronti. La guerra mobilitò 60 milioni di persone, ne fece morire 10. Furono messi in atto dispositivi di trasferimento forzato di popolazioni. Nel 1914 cominciò l’esodo da Pola, migliaia di persone vennero allontanate dalla propria casa. All’ITIS (ndr. all’epoca Eca – istituto dei poveri) di Trieste si registrò l’arrivo di persone anziane, donne e bambini. La guerra generava tanta povertà”.
E chi governava la Venezia Giulia alla fine del conflitto? “Furono le autorità militari per un anno, per mantenere il controllo sui territori in cui si registrava la presenza di persone malfidate. Si temevano simpatie per il Regno dei serbi e croati. Nel 1918 si scoprì che oltre a Trento e Trieste c’era un’altra città irredenta, Fiume. Il consiglio dei cittadini di lingua italiana aveva proclamato la volontà di essere annessi all’Italia, analogamente il consiglio dei croati si era espresso per il Regno di Serbia e Croazia. Arrivò D’Annunzio come un elefante in una cristalleria e successe che legionari fiumani e soldati in grigio verde si sparano”.
Il libro di Fabio Todero si conclude con il capitolo che tratta del ritorno dei morti e del conseguente culto dei caduti che si insinuerà fortemente nella popolazione.

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