«The Blind Poet» contro le chiusure mentali

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«The Blind Poet» contro le chiusure mentali

FIUME | Pensate a uno spettacolo che pone in evidenza il miscuglio di nazionalità, linguaggi e destini che concorrono a creare l’uomo di oggi, la sua “identità” plasmata per generazioni e generazioni. Allo stesso tempo, pensate a uno spettacolo che, affrontando questi stessi temi, si ponga anche come una diretta e aspra critica alla chiusura mentale dell’Europa contemporanea. Ebbene, si presenta così “The Blind Poet” (Il poeta cieco), allestimento della compagnia teatrale fiamminga Needcompany, diretto dal suo fondatore, il belga Jan Lauwers, presentato domenica sera al Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc”, quale appuntamento del programma introduttivo a Fiume Capitale europea della Cultura 2020.

“The Blind Poet” è costruito attorno all’intrecciarsi delle storie “a ritroso” dei performer della Needcompany: risalendo l’albero genealogico di ognuno di loro, dalle recenti storie di famiglia fino agli avi più lontani, Jan Lauwers ricostruisce il miscuglio di nazionalità, lo stratificarsi delle culture e l’intrecciarsi dei linguaggi che li hanno plasmati come individui, ma soprattutto l’incrociarsi dei loro destini nel corso dei secoli.
Sul palco convivono religioni – cristianesimo, ebraismo e islamismo – e lingue diversi. Si parla, infatti, fiammingo, francese, inglese, tedesco, norvegese, arabo e spagnolo, tutti condividono lo stesso spazio grande quanto l’ampiezza del mondo raccontando le proprie storie. È un lavoro che indaga su identità e diversità, su un mondo insidiato dal razzismo, ma che oramai è completamente e inevitabilmente mescolato.

Sette ritratti, sette storie multiculturali

Il testo, scritto e messo in scena da Jan Lauwers, si snoda attraverso la narrazione di sette ritratti. Sono racconti sottoforma di monologhi in prima persona di Grace Ellen Barkey, Jules Beckman, Anna Sophie Bonnema, Hans Petter Melø Dahl, Benoît Gob, Maarten Seghers e Mohamed Toukabri. Nei quali vengono affrontati temi del multiculturalismo, della migrazione e della comunità. Jan Lauwers scava nel vissuto individuale per disegnare un tracciato condiviso; ogni attore infatti ha delle origini meticce, è emigrato dalla propria terra d’origine (o l’hanno fatto i suoi antenati) e fa parte di una micro-comunità, in questo caso la Needcompany, la vera protagonista dello spettacolo.

Spettacolo teatrale come un concerto rock

“The Blind Poet” di Jan Lauwers e della sua Needcompany, possiede diverse fattezze di un concerto rock, tuttavia il suo contenuto è prettamente teatrale, con un sapore barocco che richiama forme spettacolari come il circo, le fiere, il varietà, e non ultimo il teatro meccanico. La pièce, seguendo la linea del concerto musicale, rock o pop che sia, si dipana con l’ingresso degli attori in scena avvolti in mantelle di seta lucida che ricordano un po’ i kimono giapponesi, visibilmente gratificati di occupare il loro posto nella fossa d’orchestra tra gli applausi degli spettatori. Alcuni imbracciano uno strumento musicale, per la maggior parte chitarre elettriche, acustiche e bassi, ma si notano anche una batteria, uno strumento a corda ricavato da una pentola di latta e un violino, suonato da una donna con una coroncina di fiori in testa.
Il primo dei sette ritratti è quello della coreografa e performer Grace Ellen Barkey. L’attrice – compagna di vita di Jan Lauwers – ripete il proprio nome una decina di volte in modi diversi. È attorniata dalla luce di numerosi riflettori colorati che sono posti alle sue spalle e mettono in risalto il suo vestito giallo, ma soprattutto il suo cappello decorato con erbe e fiori. La sua bocca è truccata di rosso e bianco come quella di un clown. E ai clown fanno pensare anche le lunghe ciabatte che indossa. Davanti a lei, allineati sul perimetro dell’avanscena, ci sono gli altri attori della compagnia che la incitano a raccontare la sua storia.
È stata fatta nascere, racconta la Barkey, da sua nonna cinese nel più grande Paese musulmano della terra, l’Indonesia, e deve a un certo sindaco tedesco di Brema presente nel suo albero genealogico che 800 anni prima ha avuto rapporti lì con numerose donne, il fatto che oggi ci siano anche dei Barkey neri. Non solo afferma di avere parenti ovunque nel mondo, ma anche di essere stata da tutti loro e, dunque, in pratica, dappertutto.
Il singolare racconto, una lunga storia che risale fino alle origini del tempo, dà il tono all’intera serata: uno dopo l’altro i sette performer che vediamo sul palcoscenico si presentano con analoghe storie. Uno di loro sostiene di discendere dai crociati che durante i loro viaggi mangiavano i figli degli ebrei e dei musulmani; un altro dai Vichinghi, che a loro volta, sostiene, discendono dai Troiani; e un’altra ancora da quell’antenato emigrato in Cina che fu lì ucciso dalla nonna di Barkey: “Tutto è connesso a tutto”. Alla fine però il tunisino Mohamed Toukabri, che non ha alcun albero genealogico, srotola di nuovo tutta la storia, che ora appare come un racconto che ha fatto dimenticare che prima dello sviluppo europeo
fosse esistita un’altra cultura, il che si riflette emblematicamente nel fatto che a Cordoba sia stata costruita una chiesa lì dove un tempo si ergeva una moschea.
Il titolo, “The Blidn Poet” (Il poeta cieco), si riferisce a un antico poeta persiano di epoca medievale, Abu al‘ala al Ma’arri, che nei suoi versi descrive un mondo di raffinatezza intellettuale, esprimendo un messaggio di libertà e di tolleranza. Jan Lauwers trasse ispirazione per il suo lavoro da una visita alla moschea di Cordoba, in Spagna, che idealmente lo riportò a un’epoca moresca di massimo splendore: pluriculturale, alfabetizzata, raffinata, evoluta dal punto di vista della parità sessuale e della laicità.

Un ensemble vivace e straordinario

Il pubblico fiumano ha potuto ammirare in scena un ensemble vivace che forma una comunità in cui vita e performance s’intrecciano e si confondono. I performers sono strepitosi. Fanno di tutto: danzano, suonano (sono polistrumentisti), sollevano pesi, si confrontano in numeri e slanci acrobatici, si rincorrono, lottano e raccontano il proprio vissuto, la propria identità. E tutto ciò mentre sono impegnati a recitare. La regia di Jan Lauwers adopera tutte le frecce al proprio arco per fare dello spettacolo un’arte teatrale totale, completamente lontana da quella impostazione classica che siamo abituati a vedere. La sua regia, nell’arco delle due ore e mezza dello spettacolo, non è mai ripetitiva. Anzi, è il contrario. È sempre innovativa, ingegnosa, con trovate e soluzioni registiche che, come degli assi nella manica, vengono presentate come piccole risorse inaspettate e risolutrici, e che non mancano di meravigliare il pubblico. La musica di Maarten Seghers interpretata dal vivo dagli stessi danzatori è potente, evocativa, commovente. Le scene sono maiuscole, intense. L’uso delle luci sapiente, a volte anche proibitivo, con i riflettori direttamente puntati sul pubblico, per creare ombre e giochi. Insomma, uno spettacolo che tiene inchiodati per tutte le due ore e mezza di durata.

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