«Sea wall». Un monodramma semplice che rimanda all’anima nuda dell’autore

Il brano di Simon Stephens, che nella traduzione italiana si presenta in una versione del Teatro di Capodistria, è stato ospite dell'INK di Pola

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«Sea wall». Un monodramma semplice che rimanda all’anima nuda dell’autore

Come si racconta la morte di un bambino? Non la si racconta. “Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere” diceva un filosofo perché il linguaggio è sempre insufficiente e quindi fuorviante. Forse è insufficiente anche il pensiero muto sul nascere, per cui oltre all’impossibilità di raccontarla agli altri, non siamo neanche in grado di spiegarcela noi stessi. Nessun racconto vale la vita di un bambino, in questo caso una bambina. Tuttavia il dolore di un padre che ha dovuto subirne l’esperienza per un colpo sinistro del Destino, questa volta piuttosto cinico, trova sempre il modo di venire a galla. In “Sea wall”, l’attore italo-sloveno Francesco Borchi ha dato un volto, una voce (e probabilmente un’ulcera gastroduodenale) ad un padre-marito-amico di nome Alex che ha perso la figlioletta – unica e prediletta – di nome Lucia. Il monodramma è di Simon Stephens e nella traduzione italiana si presenta in una versione del Teatro di Capodistria (Gledalisče Koper) che è stato ospite del Teatro Popolare Istriano di Pola, per la regia di Boris Cavazza.

Un protagonista che tace e parla

Non è facile recensire un monodramma. Sono cinquanta minuti scarsi di un flusso di coscienza che procede letteralmente a singhiozzo, come un fiume, tra rapide, cascate e correnti tranquille: manca il dialogo (tranne l’ovvio con sé stessi), mancano i costumi, mancano le scenografie, gli attrezzi. Anche lo stile della regia è minimalistico, come il corredo di luci. La scena è semplicemente nera e pesa esclusivamente sulle spalle di questo attore-protagonista che tace e parla, parla e tace, si rode e si consuma per lo sbaglio di una vita: l’aver lasciato la figlioletta giocare sulle scogliere senza sorvegliarla. Cercherà di sgravarsi dalla responsabilità lasciandola cadere sulle spalle dell’amico Arturo, poi cercherà di attribuirla al Fato, quindi a tutti e due, Arturo e Fato, e sia vero in minima parte, ma non per la totalità dell’evento. Pertanto il protagonista deve arrivare al dunque e confessarselo: è colpa sua. La colpa è sua e di nessun altro. Ma è facile a dirsi. Meglio continuare a tacere. E allora come continuare a vivere con questo macigno sullo stomaco? Ebbene è impossibile.

Un dramma maschile

Il protagonista rivive i ricordi degli ultimi anni. Il resoconto dei duelli filosofico-teologici sull’esistenza, la natura e la collocazione di Dio nell’universo sono l’accessorio più interessante del dramma, tranne l’ovvia rivelazione della morte della bambina. La sua malinconia è un fiume in piena, i ricordi sono spezzati, rotti, vanno in frantumi e si dileguano. Le frasi sono interrotte, si sovrappongono come a strati, si urtano a vicenda, soffocano. Il padre è anche un marito ma la moglie in questo caso è un personaggio vago, appena accennato, etereo, come se non fosse mai esistita. Questa volta – una volta tanto – il dramma della perdita di una bambino non è un dramma femminile. Il dramma stesso sembra privo di un concetto benché sia gravido di sentimenti. Al pari di molte altre lingue, l’italiano non ha un termine specifico per indicare il padre (o la madre, indistintamente) che abbia perso un bambino e i motivi sono vari, di norma storicamente dati: l’alta mortalità infantile fino alla prima metà del Novecento, gli eventi bellici, le difficili condizioni di vita, la carenza delle cure mediche, l’atteggiamento del fatalismo più radicale e quindi l’assenza di qualunque volontarismo, per cui in passato la perdita di un figlio non ha rappresentato l’eccezione come oggi, ma la norma, la costrizione e la necessità. Manchiamo dunque di una parola sul modello di “orfano” o “orfana” per descrivere lo stato contrario di un padre o una madre che abbiano perso il solo figlio o la sola figlia che hanno scelto di avere. Ecco come il linguaggio non rende giustizia al sentimento incomunicabile. Tuttavia la forza del dramma deve stare nel monologo e nell’interprete. Per Francesco Borchi, la forza di questo monodramma “risiede nella sua semplicità, che rimanda all’anima nuda dell’autore” e ne conveniamo. Il racconto non ha filtri, è fluido nella composizione, e privo di ogni abbellimento teatrale. “L’unico spettacolo nello spettacolo è l’anima senza filtro”, ha scritto l’attore a proposito di questo testo che viene interpretato alternativamente in sloveno e in italiano.

Un drammaturgo britannico

Per la cronaca, l’autore di “Sea wall” è Simon Stephens, uno dei più prolifici drammaturghi britannici. Autore di quasi trenta opere teatrali originali, Stephens ha curato le traduzioni e gli adattamenti teatrali di film e classici del teatro come “Ossessione” di Luchino Visconti (2017), “Casa di bambola” di Henrik Ibsen (2012), “Il giardino dei ciliegi” (2014) e “Il gabbiano” (2016) di Anton Čechov nonché “L’opera da tre soldi” di Bertolt Brecht e Kurt Weill (2016).

Il monodramma “Sea wall” è andato in scena in anteprima nel 2008 a Londra. Successivamente ne hanno ricavato un cortometraggio, risultando in un “film corto ma scomodamente lungo” che viene distribuito solo online.

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