Racconti fiumani tra fantasia e realtà. La villa del silenzio

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Racconti fiumani tra fantasia e realtà. La villa del silenzio
Foto: Florinda Klevisser

L’acqua fresca del mattino sfiorava le guance di Helga, mentre scivolava leggera tra le piccole increspature di quel mare verde-azzurro. Era così limpida da permetterle di seguire i movimenti di una famiglia di salpe, che riconobbe dalle linee gialle che attraversavano il loro affusolato corpo argenteo. Amava quel luogo così familiare. Ci veniva con sua nonna da bambina e, anche se ormai erano trascorsi molti anni, le sembrava di immergersi nello stesso mare, nella stessa acqua pura di quel tempo così spensierato. Alzò lo sguardo verso la villa, che sembrava osservarla a sua volta. C’era qualcuno dietro a quelle finestre che sembravano abbandonate e mancava poco che cadessero a pezzi? Se lo chiedeva da anni. Negli ultimi tempi, ogni tanto a fine nuotata prendeva il telefonino e dava un’occhiata agli annunci immobiliari, per vedere se quell’appartamento era stato messo in vendita. Un giorno trovò l’inserzione che cercava.
“Pronto. Agenzia Centro? Ho visto che vendete un appartamento a Grottammare, in una vecchia villa. Codice…”.
“Sì, sì, ho capito quale. È una nuova acquisizione. Ma non la può ancora vedere”.
“In che senso? Sono in zona e vorrei vederlo oggi stesso!”.
“Oh no. Non è possibile. Sa quanta gente vuole vederlo? C’è una lista d’attesa. Si deve mettere in coda. Possiamo richiamarla al numero da cui sta telefonando?”.
“Ma io… Sì”.
“Grazie e buona giornata”.
Una signora dall’aria aristocratica ascoltava con attenzione la telefonata. Non le sfuggiva nulla e sapeva che la giovane donna veniva spesso in quel luogo. Le piaceva. Poteva essere una buona vicina di casa.
“Mi scusi se ho ascoltato. Io ora salgo e vado a casa. Vuole che le faccia vedere il giardino?”.
Helga era ancora soprappensiero per la telefonata, che aveva smorzato il suo entusiasmo. Non capiva perché non le volevano far vedere la casa. Doveva mettersi in fila? Era come se avessero capito che il suo era più un sogno che un interesse concreto. Non sapeva nemmeno quanti soldi avessero in banca.
“Oh… scusi…”.
Alzò lo sguardo verso la signora e arrossì come una bambina. Le sembrava di rivedere sua nonna, anche se in realtà le due donne non si somigliavano fisicamente.
“Dice sul serio? Vengo volentieri!”.
Salirono le scale facendo attenzione ai gradini che mostravano i segni della violenza del mare durante le tempeste. Arrivarono a un portone arrugginito, chiuso con un lucchetto lucido e ben oliato. La vecchia signora le fece strada ed entrarono in un giardino incantato pieno di piante di tutti i tipi – palme, glicini, viti, alberi dagli alti fusti e soprattutto tanti tipi di erbacce. Si intravedevano alcune statue ingrigite dal tempo, dei vasi riccamente decorati e perfino i resti di una fontana, i cui pezzi erano sparsi tutt’intorno alla sua collocazione originale. Alla fine della scalinata si stagliava, con tutta la sua decadente imponenza, la vecchia villa. Squillò il telefono dell’arzilla signora che, scusandosi con il suo innato garbo, si allontanò per rispondere. Helga approfittò per avvicinarsi a un malconcio gazebo da cui si vedevano la città e il porto. Poggiò malamente il piede sull’ultimo gradino e si sbilanciò. Per evitare di cadere si aggrappò con forza ai resti dello stipite della porta. Un lampo di luce l’abbagliò e avvolse il gazebo in chiarore surreale. Erano sparite le scritte che lo imbrattavano ed erano apparse delle finestre, bianche e lucide, spalancate per far entrare la brezza del mattino che muoveva le leggerissime tende svolazzanti. Numerose statuette di pietra bianca ornavano il piccolo edificio, che accoglieva un tavolo da tè circondato da comode poltrone in rafia azzurra.
“Ah, eccola. Non la trovavo!”.
Helga si risvegliò da quella visione che la aveva colpita come un fulmine a ciel sereno.
“Sa che un tempo questo gazebo era circondato da tante piccole statuette? Le ho viste con i miei occhi quando sono venuta a vivere qui nel 1954…”.
“Sì… e aveva le finestre. Lo so. Ma non so come…”.
La vecchia signora non diede peso a quelle strane parole, pronunciate con un filo di voce. Forse non le aveva nemmeno sentite. Helga sentiva una connessione fortissima con quel luogo, che sembrava chiamarla a sé. Prese il cellulare e scattò alcune foto, che mandò subito al marito. Ma da lui non ebbe alcuna risposta. Mentre l’anziana signora continuava a raccontarle storie di quando si trasferì in quel luogo, dove le era stato assegnato un appartamento per quel che da sola definì un miracolo, Helga cercava di toccare tutto quel che poteva senza farsi notare. Ma non succedeva nulla. Arrivarono al portone.
“Vuole vedere l’interno? Abbiamo una bella scalinata…”.
“Sì! Con gioia! Posso fare qualche foto per mio marito?”.
La signora era divertita dall’entusiasmo di quella che vedeva come una ragazza, anche se era già una donna. Dietro al pesante portone che necessitava un’urgente aggiustata, si aprì uno spettacolo: una maestosa scalinata in legno, in stile Altdeutsch, sormontata da un gigantesco lampadario degli anni Trenta. In un angolo, poggiato per terra, c’era un cartellone che sembrava uscito fuori da un caseggiato jugoslavo degli anni Ottanta e che spiegava ai condomini le regole del vivere comune. Salutò la signora, che iniziò a salire le scale, e si dedicò a scattare un’infinità di fotografie, quasi a voler immortalare ogni singolo dettaglio. Nel silenzio della villa si sentivano solo i passi, che per quanto leggeri facevano scricchiolare il legno. Appoggiata alla balaustra, Helga continuò ad ammirare quell’ingresso così particolare, che indicava chiaramente che la casa non era stata pensata per più di una famiglia. Si girò e afferrò la maniglia del portone. In quel momento, sentì come una scarica elettrica attraversarle il braccio. La luce si fece nuovamente strana e rischiarò la zona che la circondava. Si scansò per lasciar passare due uomini che portavano dei grandi mazzi di fiori, seguiti da un altro che dava istruzioni su dove poggiare le cose. Poi, altri individui con casse di vino, frutta e verdura freschi e provviste varie.
“Al gran galà di stasera deve essere tutto perfetto! Preparate le decorazioni per la sala da ballo e poi penseremo alle scale. Forza. Non c’è tempo da perdere. Schnell!”.
Helga continuava a tenere ben stretta quella maniglia, per non perdere lo spettacolo, che come una pellicola cinematografica le si stava dipanando davanti.
“Le scatole portatele giù alla cuoca e fate quello che vi dice”.
Una donna si mise a lucidare con un panno morbido intriso di cera il corrimano in legno, mentre un’altra passava con acqua e aceto il tessuto color rosso rubino della guida che proteggeva il legno dei gradini e che conferivano alla scalinata un’aria ancora più elegante.
Il telefono di Helga ruppe la magia.
“Hai finito quel progetto per Neom? Vogliono iniziare a usare l’intelligenza artificiale negli uffici dell’Oxagon e non abbiamo ancora un’interfaccia da fargli vedere. Mi mandi qualcosa o no?!”.
“Ma non era per fine anno?”.
“No, lo hanno anticipato. Sai che la concorrenza è agguerrita…”.
“Ti rendi conto di quanto lavoro ci sia?!”.
“Lo puoi fare o no?”.
“Sento i miei assistenti nelle Filippine e ti faccio sapere”.
“Va bene. Ma sbrigati!”.
Il suo volto, illuminato fino a un momento prima dallo stupore di quel che aveva appena visto, o immaginato, si era spento. Lo stress del suo lavoro era riaffiorato e aveva ripreso il posto abituale che aveva nella sua mente. Riguardò quell’ingresso, le grandi porte a vetri, il vitrage a rombi gialli e lasciò il palazzo. Si sedette in macchina. Era un po’ frastornata. Decise di chiamare nuovamente l’agenzia, ma nessuno le rispose. Poi telefonò a suo marito, e nemmeno lui le rispose. Mise in moto. Non aveva ancora deciso se raccontargli quello che le era successo. Forse era solo un colpo di sole o lo stress accumulato in quell’anno così impegnativo in cui aveva passato più tempo nel metaverso, o meglio nel programmarlo, che nella vita reale. Era brava nel suo lavoro e i tempi erano maturi per i creativi visionari come lei.
Si era appena immessa nel traffico che, con la coda dell’occhio, notò delle persone davanti alla villa. Rallentò. Una donna aveva in mano dei documenti. Dal finestrino aperto le sembrò di sentir parlare in inglese e in russo. Le venne il sospetto che fossero dell’agenzia. Decise di fermarsi e andare a controllare, ma dovendo riparcheggiare non fece in tempo. Davanti al portone non trovò più nessuno. C’era qualcosa che l’aveva irritata e non capiva esattamente cosa. Voleva vedere quell’appartamento e lo voleva subito! Si spazientiva raramente, ma sentiva che non c’era tempo da perdere. Tornò in macchina e richiamò l’agenzia. Trovò occupato. Ma non si diede per vinta finché non le rispose la segretaria che le disse nuovamente di aspettare di essere contattata dall’agente.
“Mi scusi, non ci siamo capite. Ho appuntamento con quella vostra agente alta, bionda e un po’ in carne, non so se mi spiego… mi sfugge il nome…”, bleffò.
“Ah, Marina?”.
”Sì, esatto. Mi ha dato appuntamento in ufficio, ma non ricordo a che ora”.
“Sarà qui nel pomeriggio dopo le 15, quindi passi pure verso quell’ora”.
Il bluff aveva funzionato. Non aveva un piano preciso, ma doveva fare almeno un passetto nella direzione in cui voleva andare.
Alle tre in punto aprì la porta dell’agenzia immobiliare.
“Buongiorno. Mi attende Marina”.
Una giovane donna le fece strada fino a una scrivania piena di fogli di ogni genere e colore. Si sedette e con disinvoltura chiese di vedere tutto ciò che avevano a disposizione sull’appartamento in vendita nella vecchia villa.
L’agente sembrava seccata da quell’intrusione, ma dato che la donna era già lì non vide motivo per non accontentarla. Girò lo schermo verso di lei e davanti agli occhi attenti di Helga fece scorrere un carosello di fotografie, una più brutta dell’altra. L’appartamento necessitava di una ristrutturazione completa.
“Ha una planimetria?”.
“No, non esiste. Non è mai stata fatta, ma le faccio uno schizzo”.
Prese un foglio e una matita e buttò giù qualche linea. Mentre disegnava, squillò il telefono di Helga. Era suo marito.
“Finalmente! Va tutto bene? È tutto il giorno che ti cerco. Mi sono preoccupata…”.
“Sì, tutto bene cara. Scusami ma è stata una giornata impegnativa e ho grandi novità. Sei seduta? (…) Sono finalmente riuscito a convincere la mia azienda a spostare l’ufficio di progettazione a Fiume e ci trasferiamo lì a fine anno. È quello che volevamo!”.
Lei si sentì mancare il respiro.
“Ci servirà un appartamento! Magari qualcosa vicino a quel posto meraviglioso delle foto che mi hai mandato stamattina…”.
“…In affitto o da comprare?”, la sua voce tremava. Un’emozione sconosciuta si stava impossessando di lei.
“Ci staremo per molto tempo quindi se ne trovi una bella potremmo anche comprarla”.
“Budget?”.
“Con la promozione avrò anche un consistente aumento di stipendio quindi vai tranquilla”.
“Non so che dire… Che tempismo… Sai dove sono? In un’agenzia immobiliare!”.
“Non finirai mai di sorprendermi! Devo scappare ora. Mi dirai tutto dopo”.
Ormai sapeva cosa fare. Guardò con attenzione la planimetria. Chiese matita e gomma. Ridisegnò alcuni vani cambiandone forma e funzione. Le serviva per riflettere sulla ristrutturazione. E poi estrasse il libretto degli assegni.
“Quanto chiede la proprietaria per la caparra?”.
”…il 10%”.
“Prepari la proposta. Sono interessata. A chi intesto l’assegno?”.
“Ma non ha nemmeno visto l’immobile!”.
“Se voi lo fate vedere solo ai russi e non prendete sul serio la gente del posto come facevo a vederlo!”.
L’agente la guardò stupita e arrossì. Aveva colto nel segno.
Scrisse la cifra richiesta e consegnò l’assegno, insieme a un foglio di carta su cui aveva firmato la proposta di acquisto, vincolata a una verifica della documentazione da parte del suo avvocato. Avventata forse sì, ma sprovveduta mai.
Uscì da quell’ufficio con l’aria di chi aveva appena acquistato un biglietto per un lungo viaggio, di quelli che non sai dove ti porteranno, ma sai che ti cambieranno la vita.

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