«Quell’amore per il lavoro»

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«Quell’amore per il lavoro»

FIUME | Quello della connazionale fiumana Silvana Vlahov è un “curriculum” di vita veramente invidiabile. Classe 1938, è cresciuta nel rione di Scoglietto – più precisamente in via dell’Acquedotto –, dedicandosi per lunghi anni prima al giornalismo – ha lavorato al nostro quotidiano “La Voce del popolo” –, e in seguito all’istruzione scolastica in qualità di insegnante e quindi direttrice di una delle SEI di Fiume. Ha vissuto in prima persona parte della ricca, complessa e travagliata storia del Novecento fiumano, a partire dall’occupazione fascista ai bombardamenti degli Alleati, e dall’esodo all’arrivo di nuove genti nel capoluogo quarnerino. Ha visto mutare la sua amata città. Un’infanzia vissuta in una Fiume completamente cambiata, che non le ha impedito però di dedicarsi alle cose belle, come ad esempio lo sport, e di respirare a pieni polmoni quella cosa meravigliosa che è la vita. Abbiamo voluto incontrarla alla soglia dei suoi 80 anni, per parlare della sua attività professionale, facendole rievocare tantissimi episodi, memorie e avvenimenti che riguardano da vicino la nostra realtà comunitaria.

Che cosa rappresenta per lei Fiume?

“È un’isola immaginaria su cui rifugiarmi quando mi sento triste. Mi lego a un dettaglio, lo elaboro, m’appiglio a un pensiero precedente finché questo mi fa stare bene. E siccome è un’isola circondata dall’acqua, mi tuffo, raggiungo a lunghe bracciate la terraferma e continuo così fino ad abbandonare quest’isola, in attesa del nostro prossimo incontro. Spesso mi fermo davanti ai cancelli di quelle case in cui una volta abitavano i miei amichetti d’infanzia e che a causa dell’esodo sono rimaste vuote, abbandonate all’incuria oppure occupate da gente estranea. In Cittavecchia giocavo con la mia amica del cuore, Angiolina, che un giorno mi disse: ‘Domani non mi vedi più. Parto, vado in Italia’. Non l’ho più vista. I traumi di quegli anni ce li portiamo dentro. Ancora oggi rammento con tristezza l’appello in classe quando qualcuno giustificava l’assenza dell’amico con quella terribile frase: ‘Nol xe più, xe andà via!’. Quando leggo i ricordi degli esuli, mi sembra di ritornare insieme a loro sulla mia isola immaginaria, ora difficilmente ricomponibile. Stiamo male tutti”.

Conserva dei ricordi sui bombardamenti?

“Assistetti al primo bombardamento di Fiume, a fine estate del 1943, dalla terrazza della nostra casa di famiglia a Pobri dove mia madre si era rifugiata perché il papà combatteva sul fronte africano. 

Gli aerei, scaricate le bombe, puntavano verso il Monte Maggiore e la Bocca grande sparendo dalla nostra vista. Finito il pericolo, tutti ci riversavamo sulla terrazza. Vedevamo Fiume in lontananza e cercavamo di capire cos’era stato colpito. ‘Il porto, il cantiere, le case del centro’, dicevano le mie zie guardando col cannocchiale. Per noi piccolini, che non capivamo la gravità della situazione, rappresentava quasi un divertimento, ma non per mia madre e le sue sorelle che erano all’oscuro della sorte toccata agli uomini di famiglia. Alla prossima incursione aerea sentivi la nonna tuonare: ‘Mularia subito in casa e meteve soto el tavolo’. Per tutto il 1944 e nei primi mesi del 1945 siamo corsi sotto al tavolo diverse volte. Ricordo così tanto fumo sopra Fiume”.

Lei ha iniziato come giornalista a “La Voce del popolo”?

“Sono stata assunta alla Voce nel 1972. Catapultata in quel mondo per me assolutamente nuovo, tutto un fervore e un continuo rincorrere il tempo. Erano gli anni in cui il giornale era diretto dai cosiddetti ‘capi storici’, redattori vecchio stampo guidati dal caporedattore Paolo Lettis. Pochi trasmettevano ai giovani il proprio sapere; vigeva la regola che ognuno dovesse imparare il mestiere ‘rubando’ da chi sapeva di più. A onor del vero, i ‘capi storici’ si dedicavano al quotidiano anima e corpo e di conseguenza pretendevano che i nuovi arrivati li imitassero. Non esisteva una vita privata, figli, famiglia e problemi domestici dovevano essere lasciati fuori dal giornale; la dedizione doveva essere completa. A ‘La Voce’ il mestiere lo dovevi imparare facendo la ‘gavetta’; il nuovo arrivato doveva acquisire tutte le nozioni relative al processo di stampa, per cui inizialmente era destinato al Reparto correttori sistemati in un angolo della tipografia”.

Che ricordi conserva della redazione di allora?

“Ho iniziato il mio percorso giornalistico nel Settore cultura: erano i tempi di Renzo Vidotto in qualità di caporubrica, di Carlo Valeri uomo di grande cultura, ma incompreso dai colleghi, di Anita Peresson, sempre infreddolita ma bravissima nei reportage su Abbazia. Ricordo ancora Elis Geromella giunta da Pola, che qualche anno dopo avrebbe sposato Luigi Barbalich, all’epoca redattore tecnico. Più tardi la ‘Cultura’ passò in mano a una squadra di donne giovani e brave. Ma io ormai ero… approdata alla ‘Cronaca fiumana’”.

Com’era organizzato il lavoro?

“Il giornale rappresenta un mondo straordinariamente entusiasmante. Ho lavorato a ‘La Voce’ fino al 1984 e per me sono stati degli anni bellissimi. I fatti quotidiani venivano soppesati con serietà, commentati in tutte le sfaccettature dal Collegio redazionale e non era facile con i tempi che correvano, decidere quale taglio dare alla notizia, quale informazione approfondire, e quale invece ignorare. La tecnologia era di là da venire e Livia Sfiligoi, la segretaria di Redazione, tra le tante incombenze finiva al telefono per ore a prendere nota dei pezzi che venivano inviati quotidianamente dalla Redazione di Pola e dai collaboratori esterni di tutta l’Istria, dal Capodistriano e da Trieste. La ‘Cronaca fiumana’, retta da Aldo Bressan, era il settore più vivo della Redazione, vi confluivano i piccoli e grandi fatti del giorno e quando la collega Rosi Gasparini passò ad altri incarichi, assunsi le redini del settore che lei aveva curato con successo per anni: cronaca nera e giudiziaria. Ad Aldo Bressan era succeduto nel frattempo Paolo Lettis, defenestrato d’ufficio dall’incarico di caporedattore. Gli anni con Lettis sono stati particolari, vuoi perché trasmetteva generosamente a tutti il grande bagaglio della sua vasta cultura, vuoi perché aveva contribuito a formare nel settore un clima di straordinaria collegialità per cui l’affiatamento tra colleghi era completo e le frequentazioni, anche fuori dall’ambiente di lavoro, erano sempre occasioni di divertimento. Per me furono anni indimenticabili di duro lavoro, ma anche di grandi soddisfazioni”.

All’epoca per la stampa del giornale veniva utilizzato il piombo?

“Proprio così. La stampa era a piombo, motivo per cui l’intero grande e fuligginoso salone era coperto da una spessa patina di unto. I linotipisti, dei quali ricordo Mario Schiavato, compilavano le righe del giornale con lettere di piombo. Il proto Vito Zajc era un monumento di simpatia e allegria. Era un piacere conoscere tutta quella gente che ancora oggi frequento in parte, oppure i loro figli. Erano i tempi di Gianfranco Miksa, che aveva sostituito Luigi Barbalich, di Clelia Grozić e Amelia Barbieri, di Stanko Prelec. Purtroppo, molti di questi colleghi per i quali il lavoro era anche divertimento, non sono più tra noi. Li ricordo con estremo affetto”.

Dopo gli anni trascorsi alla Voce, è passata all’istruzione scolastica?

“Ho dedicato dodici anni al nostro quotidiano. Il resto degli anni di servizio, più di 40, li ho dedicati invece alla scuola. Prima alla portuale non appena laureatami, dov’ero insegnante e direttrice, quindi supplente d’inglese alla Matteotti, insegnante e direttrice alla SEI Belvedere, con la quale vissi il trasloco dalla vecchia, piccola, romantica e pericolante sede del rione di Belvedere al vecchio e maestoso edificio di Cosala. Dopo avere raggiunto il pensionamento nel 1994, per non starmene con le mani in mano, ho fondato alla CI di Fiume la Scuola Modello, allo scopo di diffondere la lingua e la cultura italiane a livello L 2 per ragazzi e adulti della maggioranza e non solo. Nel corso degli anni la Modello si è creata una bella reputazione anche tra i docenti di madrelingua italiana, che oltre alla lingua offrivano ai corsisti anche quel pizzico di cultura italiana. Un ventennio nel corso del quale ho ricoperto pure il ruolo di presidente della SAC Fratellanza. Ora mi godo finalmente la pensione e penso al mio periodo zagabrese, londinese, milanese, ai tanti viaggi e a qualche sogno nel cassetto che ho ancora. Salute permettendo”.

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