La retorica del dolore dal Medioevo ai giorni nostri

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La retorica del dolore dal Medioevo ai giorni nostri

FIUME | La questione del dolore e della sofferenza vissuti nel Medioevo come spettacoli purificanti, redentivi e salvifici. Inseriti a loro volta in una più vasta cornice della storia delle idee, per essere compresi. Sono queste le riflessioni che il filosofo Martino Rossi Monti – ricercatore dell’Istituto di Filosofia dell’Università di Zagabria – ha riconstruito e affrontato ieri alla conferenza “Guardare il dolore degli altri. Sofferenza e Medioevo cristiano”, presentata al Dipartimento di Italianistica della Facoltà di Lettere e Filosofia di Fiume.

L’appuntamento è stato introdotto dalla responsabile del Dipartimento, Corinna Gerbaz Giuliano e dalla preside della Facoltà di Lettere e Filosofia, Ines Srdoč Konestra. A porgere i saluti anche il Console generale d’Italia a Fiume, Paolo Palminteri. A presentare il relatore fiorentino al pubblico del Dipartimento di Italianistica, raccontando il suo lavoro, è stato il prof. Luca Malatesti.
Martino Rossi Monti è attualmente ricercatore presso l’Istituto di Filosofia di Zagabria grazie a una borsa di studio “Newfelpro” finanziata dal Governo della Repubblica di Croazia e dal programma Marie Curie. È stato assegnista di ricerca in filosofia all’Università di Firenze, dove ha conseguito il dottorato in Filosofia nel 2007, e ha trascorso periodi di ricerca all’Università di Chicago e all’Università di Melbourne. Tra i suoi temi di ricerca: Plotino e la tradizione platonica; le idee di grazia e bellezza dell’anima tra tarda antichità e Rinascimento – tema sul quale ha pubblicato, oltre a diversi saggi in italiano e in inglese, il libro “Il cielo in terra: la grazia fra teologia ed estetica” (Torino 2008) –, la tradizione fisiognomica, il problema del male e della crudeltà. Collabora, tra l’altro, con le riviste “Intersezioni”, “Bruniana & Campanelliana” e “Antiquorum Philosophia”.
Alla conferenza, Martino Rossi Monti ha esposto la questione e il significato dell’osservare il dolore altrui nel mondo tardo medievale come una funzione purificante, redentiva e salvifica. Più precisamente quello nel contesto cristiano attraverso l’uso della crocefissione, delle sofferenze di Cristo e della Vergine, come anche la ricreazione immaginativa di questi spettacoli nella mente dei fedeli e nell’ambito clericale.
Il significato di queste pratiche e la loro evoluzione, fino all’affievolimento del fenomeno dei giorni nostri, sono state illustrate dal ricercatore attraverso la storia delle idee, con analisi storico-culturali particolarmente acute ed esaurienti.
In tale occasione abbiamo raggiunto Martino Rossi Monti per porgli alcune domande.

Come era vissuto il dolore nel Medioevo cristiano?

“Era vissuto come un’esperienza salvifica, purificante e redentiva. Basti pensare alle immagini di Santi e Sante che si sottopongono a delle torture. Dolori che la popolazione cristiana prendeva come esempio e come modello da seguire.
In queste, le divinità cristiane si autoinfliggono delle sofferenze fisiche con delle privazioni terribili. Lo scopo, rivolto ai fedeli, era d’inseguire delle esperienze di dolore, per sentirsi quanto più vicini alle sofferenze patite da Cristo. E quindi, per mezzo della grazia divina, raggiungere una sorta di autopurificazione, libera da ogni peccato”.

Qual è il significato del “Guardare il dolore”?

“Nel Medioevo cristiano veniva incoraggiato e promosso il tema delle sofferenze infernali, che a seconda dell’inferno e purgatorio, si distinguono in esperienze di dolore punitivo eterno, per il primo, mentre per il secondo, si tratta di un dolore temporaneo e purificatore con la possibilità di salvezza. Questo spettacolo della sofferenza dei dannati era attentamente descritto sia nei sermoni, sia nell’iconografia.
I fedeli pertanto erano esposti in continuazione a questo tipo di messaggio che possedeva anche una funzione educativa. In altre parole ‘se non ti penti del male che hai fatto, finirai anche tu tra i dannati’”.

È stato uno scopo educativo con la funzione di controllare la popolazione?

“È una delle teorie che di solito viene più di tutto divulgata. È stato sicuramente un metodo della Chiesa per controllare le masse. Anche se, occorre sottolinearlo, la paura dell’inferno è stata avvertita e temuta della Chiesa stessa.
Non era una semplice paura istigata negli altri. Questo tipo di messaggio era terrorizzante perché in parte era terrorizzato anche chi lo divulgava”.

Questo ragionamento è completamente diverso da quello che pervade oggi?

“Ovviamente, però qualcosa è rimasto. La retorica del dolore, secondo la Chiesa, ha sempre in qualche modo una funzione salvifica. Solamente trent’anni fa, Giovanni Paolo II firmava la lettera apostolica ‘Salvifici doloris’ sul senso della sofferenza. Allo stesso modo la ricerca ossessiva del dolore si è oggi molto attenuata. È scomparsa la propaganda e il tono del messaggio, per cui i fedeli cristiani non vengono più assaliti da questa retorica”.

Secondo lei qual è il motivo?

“Penso che ci siano tanti fattori. Uno è sicuramente la desantificazione del dolore; il progresso della medicina e della scienza che riescono a combattere il dolore. L’illuminismo, la protesta e la battaglia contro la sofferenza universale, a partire da Leopardi fino a Darwin. Ma anche il movimento laico che pone l’accento sulla felicità dell’uomo su questa Terra, e quindi sulla positività della lotta contro il dolore”, ha concluso Martino Rossi Monti.
Sempre ieri, il relatore ha tenuto una seconda lezione alla Facoltà di Lettere e Filosofia – per il Dipartimento di Filosofia, con tema “New Technologies, Old Fears” (Nuove Tecnologie, antiche paure).

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