La formula del successo è la produttività

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La formula del successo è la produttività

Trenta o quarant’anni fa – negli anni successivi un po’ meno –, il Palach è stato il punto di riferimento del rock fiumano, la culla di una scena musicale che ha saputo esprimersi e affermarsi in tutta l’ex Jugoslavia. In questo tempio fumoso ci si muoveva con difficoltà, a fare lo slalom tra giubbotti in pelle segnati dal tempo e ascelle sudate. In questo caso lo slalom che facciamo ha lo scopo di evitare a ogni costo i luoghi comuni. Eccone alcuni, in ordine sparso: il rock non è più quello di una volta; i giovani non hanno più ideali; si sono persi i veri valori, rock e arte, sport e calcio, mondi paralleli…

Ci saranno tra questi anche delle verità, o mezze verità, di cui andiamo a discutere con Sandro Bastiančić, Jegi per gli amici, uno degli esponenti di spicco di una scena rock fiumana che molti considerano in via d’estinzione. Lo è davvero?

Quadrati intrisi di nostalgia…

Pochi giorni fa, nel Piccolo Salone in Corso è stata inaugurata una mostra un po’ particolare, con le cover dei dischi realizzate da Mladen Stipanović, una cinquantina di quadrati intrisi di nostalgia, anche per il vinile, un materiale dismesso che però sta tornando di moda dopo essere stato travolto e in buona parte annientato dai vari formati digitali, facili da reperire (gratis) e immagazzinare negli spazi ridottissimi dei nostri telefoni intelligenti, senza scaffali ingombranti. Le copertine in esposizione narrano in buona misura la storia del rock fiumano, dal 1988 a oggi. Vi troviamo, nuovamente in ordine sparso, Let2, Let3, Grad, Fit, Grč, Blagdan band, En Face, Vava, Urban, Turisti, Gipss, Mr. Lee & Ivana Sky, Morso, Gerilla, Mario Furka & Štićenici, Unlogic Skill, fino agli ultimi arrivati, in senso anagrafico.

È cambiato tutto… o niente

Che cos’è rimasto della scena fiumana? C’è una scena nuova? “Bella domanda. Avrei un aneddoto recente. In occasione di un concerto con la ‘Blagdan band’ a Zagabria, l’organizzatore ci ha presentati come il meglio che può arrivare da Fiume… Sul manifesto veniva indicato che fanno parte della band i componenti di Let3, Laufer e En Face. Sui social, in breve tempo sono arrivati i commenti tipo: ‘Il meglio? Mi viene da ridere’ e cose di questo tipo. Sarà uno dei modi in cui viene percepita questa scena che, per certi versi, sembra essersi fermata a metà degli anni Novanta. A qualcuno sembra che sia cambiato tutto e sarebbe bello se fosse così. Comunque sia, non è più la stessa cosa”; racconta Jegi, cantautore, chitarrista, da un po’ di tempo anche autore per altri interpreti come Natali Dizar, Massimo Savić, Tereza Kesovija. Altri tempi, conferma Bastiančić. “Sì, era proprio diverso. Ci si trovava davanti al Palach, davanti al Kont o U prolazu, senza particolari accordi, orari e tutto nasceva in modo spontaneo, come gli incontri stessi. Anche la scena rock fiumana è nata in modo spontaneo. È in questi luoghi che si organizzavano le prove, il noleggio delle attrezzature. Oggi le innovazioni tecnologiche hanno portato i giovani a pensare in modo diverso. Le nostre idee partivano dalla passione, dalle emozioni, alle giovani generazioni da uno schermo”.

Incidere un disco? Un miracolo…

Le tecnologie dovrebbero consentire ai musicisti di oggi di raggiungere in tempi più rapidi e con costi decisamente ridotti i risultati del proprio lavoro, la materializzazione del loro impegno. I costi di produzione, e questo vale anche per il video, non sono paragonabili alle cifre che servivano in passato.
Con gli En Face – gruppo nato nel 1988 e tutt’ora in attività –, Sandro Bastiančić con gli altri della band dovette attendere il ‘91 per veder realizzato l’album in vinile “Barock’n’roll” e altri tre anni per quello successivo “S dlana Boga pala si”. Fino al 2005 ne arrivarono altri quattro, in forma digitale su CD. “Confesso di essere fiero per quel primo album che oggi trovo in alcuni gruppi Facebook che si occupano di vinile. Un appassionato di Niš ha detto di averlo trovato a Lubiana, contento di averlo comperato per 20 euro. Non mi ero reso conto che con il passare del tempo erano salite le sue quotazioni. Per noi quel disco altro non era che un regalo che ci siamo voluti fare, un premio per il nostro impegno, un souvenir da conservare. Non eravamo convinti che poi ne avremmo fatto altri. Erano tempi epici, pionieristici. Pochi anni dopo, ricordo la telefonata che ricevetti dal produttore esecutivo che mi fece sentire il suono del nuovo album che tamburellava contro la cornetta. Mi disse di andare con la mia band a festeggiare, dicendo di essere consapevole quanto sia difficile realizzare un disco. Ci servì tempo, pazienza, tenacia per bussare a cento porte prima di aprire quella giusta. Oggi? Oggi puoi fare tutto in casa”.

L’assenza di qualcosa…

Questo dovrebbe consentire a un numero maggiore di musicisti di provarci e di poterne selezionare il meglio. Anche arrivare a una migliore qualità della produzione oggi richiede meno passaggi. “Fino a una decina di anni fa – risponde Jegi –, una canzone nasceva all’interno di uno spazio, attraverso lunghe prove, tentativi, cambiamenti e tanti tentativi falliti. Non si rinunciava mai e si arrivava a un risultato che era il frutto di un duro lavoro. Fino a qualche tempo fa lavoravo così anch’io, ma negli ultimi anni lo faccio a casa il che, forse, non toglie nulla alla qualità, ma io avverto l’assenza di qualcosa, forse lo spirito, le emozioni e le frustrazioni”.

Vivere senza «prostituirsi»

In Croazia, a Fiume, viviamo in un contesto sociale ed economico che non garantisce una vita agiata a chi svolge un lavoro onesto. Anzi, anche chi lavora ha difficoltà ad arrivare a fine mese. Fare musica per tanti è una passione, ma farla in modo da trarne un guadagno sufficiente per vivere sembra tutt’altro che semplice. “Credo di aver trovato la formula per riuscirci. È necessario essere produttivi. Io scrivo per me, per la band e per altri. La matematica è semplice. Questa è una politica che ho adottato, basandomi su quella che era la mia anzianità di servizio. Una decina di anni fa ricevetti l’invito a collaborare dal produttore di Natali Dizdar e quindi di Massimo. Compresi che poteva essere una buona occasione e il l’ho colta al volo. Prima di loro, però, ebbi una richiesta da parte della casa discografica di Severina. La presi in considerazione. Ci ho pensato, ma poi ho rinunciato dopo aver capito che in sei mesi non mi ero mosso di un millimetro. In altre parole, non me la sentivo di avere un ruolo in un film che non comprendo. Già, ho scritto anche per Tereza. Il suo non è un genere che prediligo, ma lo comprendo. È tutto chiaro. Parliamo di bel canto, di musica leggera. La cosa è riuscita”.

Un tuffo nel passato e… in piscina

Un caso di omonimia? No. È la stessa persona. Non scopriamo l’acqua calda constatando che il mondo dell’arte, della musica e del rock in particolare è spesso accompagnato da certi stili di vita, genio e sregolatezza, cioè l’antitesi di quella che consideriamo una vita sportiva. Jegi, ex nuotatore, oggi è istruttore di nuoto, oltre a essere musicista. In ogni caso, è una cosa insolita. “È vero. Questa domanda mi ha fatto tornare alla mente un altro aneddoto. Dorotea Bralić (ex nuotatrice di successo, nda.) la conosco da sempre, da quando era bambina. Quando iniziai a fare l’allenatore di nuoto pensò che fosse proprio un caso di omonimia. Anche se ci conosciamo proprio dai tempi in cui nuotavamo, per lei il mio nome era legato saldamente al mondo della musica. Comunque, il discorso è semplice. Tutta la mia vita è fatta di sport e musica. Le due cose vanno parallelamente. Non ho mai smesso di nuotare. A livello agonistico ho smesso a 19 anni quando dovetti partire per il servizio militare. Pur non praticando il nuoto attivamente, non ho mai rinunciato a tuffarmi in piscina e nuotare per conto mio”, ci ha svelato.

L’ego del «veterano»

“Successivamente, raggiunta una certa età, qualcosa mi ha spinto addirittura di riprovarci a livello agonistico tra i veterani – ha proseguito Sandro Bastiančić – e nei campionati in questa categoria ho avuto delle belle esperienze. Ho capito di poter fare dei buoni risultati in varie discipline nonostante l’età. Sono cose che fanno bene all’ego. Quindi ho visto un’inserzione in cui si cercavano istruttori per lavorare con i bambini. Visto e considerato che in piscina ci venivo comunque, ho deciso di accettare la sfida. Ho capito che è una delle cose più belle del mondo poter lavorare con i ragazzini, un’inesauribile fonte di ispirazione. Ho capito che in questo sport ci sono tanti problemi, a livello di club e Federazione, ma ho scelto di non farne un dramma scegliendo di adeguarmi e a funzionare in questo mondo”.

Sulla strada giusta?

A questo punto, occorrono istruttori di rock? Di che cosa si dilettano e cosa consumano oggi i giovani? Un tempo si condivideva la musica, ci si rallegrava per l’ultimo disco comprato. Oggi non ci si vanta più degli scaffali pieni di 33 giri, ma di terabyte di musica scaricata da chissà dove, contenuta in un telefonino e ascoltata con le cuffie. Si ascolta davvero di tutto, molto spesso anche quei generi che una trentina di anni fa erano inimmaginabili in un contesto giovanile urbano. Di che cosa si nutrono oggi i giovani?
“I miei figli di 4, 10 e 12 anni hanno già visto i Rolling Stones dal vivo, i due più grandi due volte, a Roma al Circo Massimo e a Lucca. Gli amici mi dicono che i figli vanno educati anche in questo senso e che io, secondo loro, sarei sulla strada giusta. Io, però, sono consapevole del fatto che ciò non è una garanzia. Non è detto che un giorno ascolteranno qualcosa che mi farà alzare i capelli. Dieci o quindici anni fa credetti di essere riuscito a influire positivamente su mia nipote, a cui cedetti la stanza e i miei CD, portandola ad ascoltare musica decisamente colta, da Burt Bacharach ad Aretha Franklin. Aveva anche imparato i testi. Ero molto fiero di me. Quando tornò da noi per le feste di Natale, ho scoperto che nascondeva qualcosa. Ho capito che, di nascosto, ascoltava musica turbo folk. Mi ha fatto cadere le braccia. Le influenze delle sue compagnie sono state più forti”.

Superficialità generazionale

Generi musicali di qualità discutibile non sono presenti soltanto da noi. “Credo si tratti di un problema generazionale – commenta Bastiančić –, un po’ come nel mondo dell’istruzione. Manca una metodologia anche nella cultura e nella musica. Mi è capitato nel 2006, dopo un concerto degli Stones a Milano, a San Siro, di conoscere un ragazzo, vent’anni circa, che faceva musica. Quando gli chiesi cosa suonasse, mi ha risposto che si occupava di musica ska. Bene, dissi. Gli ho chiesto se conoscesse i Madness. Non ha reagito. Poi ha ammesso di non averne mai sentito. Se si parla di ska come genere musicale, i Madness sono i primi a cui ti viene da pensare. È come suonare il rock e non sapere dei Beatles o degli Stones, Presley, Little Richard… Parliamo di un fenomeno generazionale a cui non so dare una risposta. La chiamerei superficialità”.

«Soli contro tutti»

Se quanto detto finora parla di un’innegabile crisi di valori, il meglio, o il peggio, deve ancora arrivare. Ci conosciamo da quando eravamo ragazzini, allo stadio di Cantrida a tifare per la nostra squadra. “Soli contro tutti”, era il motto di una tifoseria che voleva essere diversa dalle altre. Per intenderci, non era proprio come andare a Messa e i cori non sono sempre stati ecumenici. Però, nel complesso, ci si riconosceva in un’identità fiumana. Oggi la curva dell’Armada, degli ultrà, ha perso in buona parte anche i colori tradizionali, con una dominante nera che rievoca tempi oscuri, messaggera di odio e portatrice di altrettanto oscuri presagi. Cosa ne pensa il tifoso Jegi?

Il «Vento dalla Dinara»

“Le emozioni e la passione sono due cose che accomunano la musica e lo sport. Mi vengono le lacrime agli occhi sia quando vengo colpito da un brano musicale che quando la mia squadra segna all’ultimo minuto. Certe canzoni posso sentirle anche cento volte e tutte le volte mi emoziono nello stesso modo. Ero felice quando ho visto piangere mio figlio a San Siro, per Milan-Rijeka, dopo il gol del pareggio. Poi è andata male, come sappiamo, ma sono momenti irripetibili. Ho pianto il doppio. Poi la rete del Milan e la delusione di entrambi. A mio figlio non sapevo cosa dire se non che quella era la vita. Lui avrebbe preferito che gli dicessi che non era vero. Per due ore non ci siamo detti più una parola. In quella stessa partita, però, ero fortemente intenzionato a lasciare lo stadio dopo che una parte della nostra tifoseria aveva iniziato a lanciare i bengala accesi nel settore sottostante, dove c’era altra gente. Non era possibile andarsene perché i cancelli erano chiusi. In questi momenti mi verrebbe di mettermi tra loro, con il rischio di prenderle e di mandare quella gente a quel paese. Non è nemmeno vandalismo quello che sta avvenendo. Ci fanno ricordare che nell’evoluzione l’uomo è sceso dall’albero. Non posso accettare che questa sia una parte di noi. Anche quelle maglie nere, tra l’altro, non appartengono alla nostra identità. Lo sappiamo quali sono i colori della nostra squadra. Purtroppo, non possiamo vantarci più di essere la Burrasca dal Quarnero, ma il Vento dalla Dinara…”, conclude con rassegnazione Jegi, citando il titolo di una canzone di Thompson, l’immagine musicale di ciò che vuole essere il tifo calcistico in Croazia. “Per me è una sconfitta – conclude Sandro Bastiančić –, il solo fatto di avere in mente l’idea di lasciare lo stadio”.

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