Dal contenzioso alla normalità

L’altra faccia della questione di Trieste. Esce l’edizione croata del saggio di Federico Tenca Montini, dottore di ricerca in storia contemporanea, che ha affrontato una delle principali controversie di politica estera europea nel secondo dopoguerra dal punto di vista jugoslavo

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Dal contenzioso alla normalità

In un suo breve racconto di qualche anno fa, lo scrittore polesano-buiese Claudio Ugussi coglie un aspetto della pesante atmosfera di quegli anni: “Era stato anche caricato su di un camion, stivati uno sull’altro, con la bandiera rossa in testa e a fianco la bandiera jugoslava e quella italiana con la stella rossa. Cantando avanti popolo erano partiti per Trieste. ‘Život damo, Trst ne damo’, scandivano i compagni croati. Col petto in fuori, la bandiera che gli sventolava sul viso, Obi tentava d’imitarli anche se il significato di quelle parole gli sfuggiva” (“La partenza di Obi”, 1986, menzione onorevole per la narrativa alla XIX edizione del Concorso d’Arte e di Cultura “Istria Nobilissima”). A Fiume, sotto le medesime insegne, si picconava il bilinguismo visivo. In piazza a Zagabria, dopo la dichiarazione anglo-americana dell’8 ottobre 1953, gli studenti si dichiarano pronti all’estremo sacrificio pur di (ot)tenere Trieste.

Ed è proprio una parte di questa frase, nella sua versione croata, insieme a un ritratto di Josip Broz Tito in uniforme, che la casa editrice zagabrese Srednja Europa – orientata in primis alla storia e alla filologia, fondata vent’anni anni fa dagli storici Magdalena Najbar-Agičić e Damir Agičić – ha scelto come copertina per il saggio dello studioso udinese Federico Tenca Montini. A un anno dalla prima pubblicazione, con Il Mulino (collana Percorsi) e la prefazione dello storico sloveno-triestino Jože Pirjevec, la sua analisi su “La Jugoslavia e la questione di Trieste 1945-1954” esce ora anche in Croazia. Il saggio si sviluppa in tre capitoli che prendono le mosse dai momenti di principale discontinuità della storia jugoslava nel periodo di riferimento: la liberazione di Trieste nel maggio 1945, l’espulsione dal Cominform nel 1948 e l’emanazione, l’8 ottobre 1953, della Nota bipartita, la decisione angloamericana di sciogliere il Territorio libero di Trieste ripartendo le due Zone di cui era composto tra Roma e Belgrado.

L’edizione croata a cura di Srednja Europa

Documentazione inedita
La copertina dell’edizione croata rende bene l’idea dell’argomento che l’autore ha deciso di affrontare, secondo una prospettiva inedita per il lettore italiano: quella jugoslava. Per la leadership e l’opinione pubblica dell’ex Federazione, la divisione del Territorio libero di Trieste e quindi anche la successiva perdita del capoluogo giuliano, fu uno shock che riorientò la collocazione mondiale della Jugoslavia.
Adattamento della “brillante” (così la presenta Jakovina) tesi di dottorato che ha discusso nel 2018 in co-tutela tra gli Atenei di Teramo e Zagabria, il libro di Tenca Montini si focalizza soprattutto su quest’aspetto e, rispetto a tanta altra produzione storiografica sul tema della questione di Trieste (tra cui la monumentale e fondamentale opera del piranese Diego De Castro), ha una marcia in più.Infatti, oltre a raccogliere i frutti di precedenti ricerche, amplia la panoramica avvalendosi dei dati raccolti negli archivi di Stato ex jugoslavi, a Belgrado, Lubiana e Zagabria; fonti degli Affari esteri, militari, del partito comunista e del suo Politburo, dell’intelligence, del Maresciallo (il Maršalat), il fondo personale del capo dei comunisti croati a Zagabria che conservano anche le carte della delegazione jugoslava alle trattative di pace a Parigi, che faceva rapporto alla capitale croata; quindi documenti legati all’operato di Vladimir Bakarić, stretto collaboratore di Tito, il fondo personale di Edvard Kardelj, il numero due della Jugoslavia socialista, al quale sono attribuiti i negoziati che portarono al Paese il cosiddetto litorale sloveno; materiali “incredibili” – ci dice il ricercatore udinese –, ma finora poco o per niente consultati dalla storiografia italiana, principalmente per la barriera linguistica.

Arrivo delle truppe italiane a Trieste, 26 ottobre 1954

Capire cosa c’era nelle menti di Belgrado
“La finalità era dunque quella di capire cosa avessero in mente gli jugoslavi rispetto alla questione di Trieste”, premette Tenca Montini. Documenti alla mano, molti dei quali prima inaccessibili, nel suo libro ha ricostruito le più generali strategie titoiste, l’acrobazia diplomatica con la quale Belgrado arrivò alla soluzione di una vicenda potenzialmente esplosiva, che indubbiamente riorientò la politica estera jugoslava, ma anche la tattica comunicativa con la quale riuscì a far accettarla – la pioggia di soldi arrivati da Occidente aiutò di certo ad ammortizzare il trauma –, mentre l’attenzione si rivolse al nuovo ruolo che la Jugoslavia si stava ritagliando nel processo di decolonizzazione: il Movimento dei non allineati, il cui battesimo si tenne ufficialmente a Brioni il 19 luglio 1956, diverrà “il principale strumento a disposizione della politica estera jugoslava nei decenni successivi” e permetterà al Paese “di mantenersi effettivamente in sospeso tra Oriente e Occidente”.

Sul finire del marzo di mezzo secolo fa, trascorsi poco più di tre lustri dal Memorandum di Londra e da un contenzioso che aveva inasprito gli animi dei due Stati, facendo temere addirittura uno scontro armato, nell’ambito di un grand tour italiano di cinque giorni (dal 24 al 29 marzo del 1971, con tappe significative in Vaticano e alla Fiat di Gianni Agnelli), Tito sbarcava anche al Quirinale. Era la prima volta che il Presidente jugoslavo veniva ufficialmente in visita in Italia.

Ad accoglierlo, Giuseppe Saragat, il Presidente italiano che nel 1969 aveva firmato l’onorificenza del cavalierato concessa al maresciallo jugoslavo. Nelle relazioni tra Roma e Belgrado s’era ormai aperta una nuova epoca.

Con Osimo, nel novembre del 1975, si lasceranno alle spalle le ferite della Seconda guerra mondiale.

Il volume edito dalla bolognese Il Mulino

Da crisi a mecca dello shopping
Come osserva nella prefazione lo storico Tvrtko Jakovina (Dipartimento di Storia della Facoltà di Filosofia di Zagabria, MIREES, Alma Mater Studiorum, Università di Bologna), il destino della città di Trieste e il contenzioso italo-jugoslavo, che durò dal maggio 1945 fino alla sottoscrizione del Memorandum di Londra nell’ottobre 1954, furono l’aspetto più delicato, in tempi di pace, “dei rapporti tra i due Paesi, Italia e Jugoslavia e diverse nazioni, in primis quelle italiana, slovena e croata”.
La situazione provvisoria (che fu però duratura) concordata nella capitale del Regno Unito chiuse la crisi e alla fine, per molti cittadini dell’allora Jugoslavia, la città di Trieste “divenne solo piazza Ponterosso – afferma Jakovina –, luogo di acquisti a buon prezzo, un modo mentalmente consolidato di vivere e crescere nell’ex Federativa”, di cui ben pochi dei milioni di consumatori che varcavano la frontiera alla ricerca di jeans, riso e caffè, conoscevano altro, men che meno il patrimonio storico-culturale. “Dagli anni Sessanta del secolo scorso a oggi, l’Italia è stata spesso destinazione dei viaggi di maturità dei liceali croati, ma soltanto durante la Guerra Fredda – aggiunge – si andava a Trieste e ciò aveva un fascino particolare”.
Più narrazioni, meno ombre
Secondo Jakovina, che cita anche il saggio del 2010 dello storico spalatino Franko Dota sulla diversa (e conflittuale) narrazione del dopoguerra e delle vittime e dell’esodo degli italiani d’Istria –, ci troviamo di fronte a manoscritti che “sono esattamente ciò che è necessario per le nostre storiografie, ovvero slovena, croata e italiana, i nostri Paesi, le nostre culture”, vale a dire che ci offrono “un’interpretazione onesta, coraggiosa e multidisciplinare di ciò che è stato e di ciò che non può essere ridotto a una sola esperienza o solamente a una narrazione nazionale”.

Parole che fanno eco a quelle di Jože Pirjevec: “Per quanto le ombre del passato nei rapporti fra italiani da una parte e sloveni e croati dall’altra non siano state fugate del tutto, senza di essa le relazioni fra gli Stati contermini sull’Alto Adriatico non sarebbero improntate a quella normalità che permette loro di convivere nella comune casa europea”.

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