Annamaria Ghirardelli. «Il Teatro fiumano è un grande organismo vivente»

Chiacchierata con l’attrice entrata da poco nel Dramma Italiano, che racconta la sua esperienza nel campo della recitazione

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Annamaria Ghirardelli. «Il Teatro fiumano è un grande organismo vivente»
La sede del TNC. Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

Col pensionamento di alcuni attori del Dramma Italiano, come ad esempio Antun Plešić o i coniugi Nacinovich, nella compagnia è nato il bisogno di un ricambio generazionale. In seguito alla ricerca di nuovi attori che portassero una ventata di freschezza nella compagnia di prosa in lingua italiana del Teatro Nazionale Croato “Ivan de Zajc”, a gennaio è arrivata a Fiume da Milano l’attrice Annamaria Ghirardelli.

Da quanto tempo si trova a Fiume?
“La sera del 3 gennaio sono approdata qui, con l’aiuto di due amiche ho fatto questa traversata e ho preso parte all’audizione. Tramite passaparola di amici ho scoperto che a Fiume stavano cercando un’attrice. Il Dramma Italiano mi ha offerto un contratto di due anni e quindi per ora mi fermo qui. Come ho già detto ai ragazzi della Scuola media superiore italiana, sono originaria di Recanati, ma nel corso della mia vita ho percorso tutta l’Italia e il mio ultimo ‘approdo’ sono stati tre anni a Milano. Penso, comunque, che alcune cose della vita succedano perché abbiamo una determinazione interna e la mia determinazione interna da tantissimi anni è quella di uscire dall’Italia”.

Da dove è nato questo desiderio di lasciare l’Italia?
“A parer mio il sistema italiano ha una serie di problematiche. A me il teatro italiano ha dato tantissimo e non posso che ringraziarlo profondamente perché la mia formazione è avvenuta in Italia e ho accumulato tante esperienze bellissime, ma non mi identifico con l’attore italiano tipico. Noi arriviamo dalla commedia dell’arte, una commedia che ha la maschera e di conseguenza l’attore italiano in genere non è un attore che sparisce dietro al personaggio, ma è un attore che dà il suo volto a tutti i personaggi. A me è interessato sempre il contrario, il che non è un approccio tipicamente italiano e io l’ho sempre saputo. Quando i due primi attori del teatro di Omsk vennero in visita alla mia scuola di teatro, stavamo lavorando sullo ‘Zio Vanja’ di Cechov e l’attrice mi disse: ‘Tu sei in Russia l’incarnazione di Elena Andreevna’, un’attrice russa mostruosamente brava. In Italia questo non sarebbe considerato un complimento. Inoltre, io non ho la tipologia fisica dell’attrice italiana. Innanzitutto sono bionda e non incarno la donna mediterranea. Per me il complimento più grande che mi si possa fare è quando mi chiedono se ero io in uno spettacolo, perché ciò vuol dire che io e il personaggio ci siamo fusi talmente a fondo da essere diventati tutt’uno. Questo, però, è molto lontano dalla tipologia di teatro italiano”.

Da questa discrepanza è nato il desiderio di esperienze nuove?
“Sì, il desiderio di provare nuovi tipi di teatro è dipeso da questo, ma ovviamente le esperienze mi hanno trattenuto in Italia. Negli ultimi tre anni ero particolarmente determinata ad andarmene, anche perché stavo vedendo un’involuzione del teatro, aggravata ulteriormente dal Covid-19. Quando ho iniziato a recitare facevamo sulle 120 date per ogni produzione. Era in pratica una tournée che durava un’intera stagione (ma anche due o tre) e faceva tappa in diverse località. Adesso le produzioni che girano sono pochissime, come ad esempio Roberto Sturno, e le tournée che oggi vengono considerate lunghe sarebbero state considerate ridicole quando iniziai”.

A cosa è dovuta questa involuzione del teatro?
“Fondamentalmente da una questione economica, ma anche da un proliferare di sedicenti attori prodotti dalla televisione. All’inizio erano gli attori di teatro che facevano televisione, ma poi la tendenza si è invertita e abbiamo avuto numerosi partecipanti ai reality show che hanno trovato lavoro in teatro. A me è capitato di essere stata chiamata a ‘salvare’ uno spettacolo che era costituito da persone che non avevano le basi della recitazione e non riuscivano a tenere in piedi una messinscena. Allora siamo stati chiamati noi attori veri a dare un impianto al progetto. Ovviamente, c’è qualcuno che pur partendo da là poi si ingegna e diventa bravo, ma anche in quel caso manca la formazione. La mia non è una forma di snobismo, è proprio il fatto che l’identità del lavoro si è via via sgretolata e questo è un fatto drammatico. Ogni professione ha il suo albo, ma ciascuno pensa che può svegliarsi al mattino e decidere di fare l’attore”.

Quali sono state le sue esperienze lavorative precedenti?
“In passato ho lavorato con molte grandi compagnie, come ad esempio, alla fine degli anni Novanta, con la compagnia del Teatro Vascello di Roma (Nanni-Kustermann), la ‘Fabbrica dell’attore’. Durante quegli anni la compagnia ha realizzato una coproduzione col Berliner Ensemble, perché c’era questo famoso musicista tedesco con il quale è stata fatta la prima mondiale di un testo incompiuto di Brecht. Feci il provino in francese ed ebbi l’opportunità di lavorare all’estero. A Berlino mi innamorai di quest’altro modo di fare teatro, ovvero il teatro come fabbrica”.

Cosa sarebbe il “teatro come fabbrica”?
“Lo ‘Zajc’ è un teatro come fabbrica. È un teatro in cui ci sono tante persone con ruoli specifici che lavorano in spazi diversi e funzionali alla realizzazione di un prodotto unico. Abbiamo, ad esempio, la costumeria, le sarte, l’attrezzista, i vari tecnici e le altre specializzazioni. In Italia la maggior parte dei teatri non ha un’autonomia della struttura rispetto a tutti gli elementi e anche le prove, ad esempio, si devono fare in vani esterni al teatro. Se a Fiume i ragazzi costruiscono la scena dall’inizio alla fine, in Italia c’è un sistema di subappaltatori e collaboratori esterni al teatro. A Fiume il cavallo di Astolfo è stato costruito pezzo per pezzo, pedana per pedana, e tutti noi l’abbiamo visto crescere. Lo stesso sistema viene applicato pure in Germania. Lo ‘Zajc’ comprende 350 persone e mi sento parte di un grande organismo, nel quale tutte le persone collaborano per realizzare un prodotto. Secondo me questo sistema è di una preziosità immensa e questa modalità è da tutelare”.

Lo “Zajc”, dunque, fornisce stabilità?
”Io sono nomade di natura e non mi dispiacciono le tournée in giro per il Paese, ma mi piace anche avere una ‘casa’, un punto fisso, una dimora con tutte le stanze funzionanti nelle quali ciascuno svolge un compito ed è felice di farlo. Questo per me è essenziale, perché il Teatro è fatto dalle persone, è un organismo di carne e sangue. Sarò felice anche quando cominceremo a girare”.

Com’è andato il provino per il Dramma Italiano?
“Quando ho saputo di questo concorso ho mandato il materiale e quando mi hanno chiamato sono venuta a fare la selezione. C’era da portare una prova in italiano, una prova per il teatro ragazzi e una prova a scelta tra danza, canto o quello in cui uno si sente più versato. Non era obbligatorio, ma era preferibile anche una prova in croato. Io, non sapendo niente di croato, ho scelto il monologo della baronessa Castelli di ‘Gospoda Glembajevi’ di Miroslav Krleža e ho fatto un’ottima impressione soprattutto su Aleksandar Cvjetković che ha apprezzato non solo l’interpretazione, ma anche la scelta del pezzo.
Dell’approccio del Dramma Italiano mi piace che ogni spettacolo è pensato per il pubblico e c’è una grossa attenzione al pubblico. Alcune produzioni vengono riprese e riproposte e questo, secondo me, è un modo molto bello di interloquire con il pubblico. Durante le prove per l’‘Orlando furioso’ ci sono stati dei momenti che parlavamo in cinque lingue e mi succedeva di iniziare una frase in tedesco, aggiungerci l’italiano e l’inglese per finirla in croato con ‘Hvala, doviđenja’. La regista e il drammaturgo erano argentini, quindi spesso si parlava pure in spagnolo. Io avendo studiato lingue parlo perfettamente il francese e discretamente l’inglese, ma ho studiato pure latino e greco, quindi diciamo che qualche appiglio linguistico lo posso sempre trovare anche per il croato, che secondo me è una lingua che ha una sua logica”.

Cos’è per lei la recitazione?
“L’atto creativo dell’attore richiede necessariamente la presenza dell’altro, dello spettatore. Non è come un pittore che può fare una tela che poi verrà vista o meno a distanza di tempo. Il nostro prodotto creativo deve venire consumato all’istante e per questo motivo penso che un grande problema del teatro italiano contemporaneo sia la mancanza di repliche. Secondo me l’attore deve avere la possibilità di vedere lo spettacolo muoversi ed evolvere. Lo spettacolo comincia alla prima, ma secondo me il prodotto vero è quello che si vede dopo molte repliche, quando si è nutrito delle reazioni del pubblico”.

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