Buie. «Le tante vite» in cerca di un domani migliore

La sociologa Ornella Urpis sulle migrazioni a Trieste

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Buie. «Le tante vite» in cerca di un domani migliore
Tanja Šuflaj, Ornella Urpis e Drago Kraljević. Foto: Nicole Mišon

Un libro a testimonianza delle migrazioni avvenute tra la fine degli anni ‘80 e gli anni ‘90 del secolo scorso a Trieste, quando questo evento rappresentava un fenomeno di “nicchia”. È questo l’intento del libro “Le tante vite. Racconti di migrazioni nel tempo” di Ornella Urpis, sociologa e docente all’Università degli Studi di Trieste, che è stato presentato venerdì sera presso la Comunità degli Italiani di Buie con la collaborazione della locale Università popolare aperta. Per l’occasione sono intervenuti l’autrice del libro, che ne ha illustrato la struttura e le conclusioni a cui è giunta attraverso la sua ricerca, Tanja Šuflaj dell’Upa di Buie e Drago Kraljević, ex ambasciatore croato in Italia.
Il lavoro comprende 54 interviste semi-strutturate fatte a migranti di tutto il mondo giunti nel capoluogo giuliano e si basa sul metodo della biografia per rappresentare il punto di vista dagli altri. Le testimonianze sono state raccolte nel periodo della guerra nell’ex Jugoslavia; da queste è emerso come allora Trieste rappresentasse un modello, ma allo stesso tempo una destinazione ambita per gli abitanti di quelle terre. Sono state analizzate le dichiarazioni di molteplici esperienze di migrazione: c’è chi è partito per motivi economici, chi ha lasciato il proprio Paese come profugo di guerra, chi richiedeva asilo politico, chi ha raggiunto Trieste per motivi di studio e anche chi vi è giunto come clandestino.
“Questa ricerca è rimasta nel cassetto per molto tempo – ha spiegato Ornella Urpis –; rappresenta un altro mondo e cerca di comprendere i rapporti con l’ambiente e i processi di identificazione. Le persone sono state scelte casualmente, alcune erano sconosciute, altre erano dei conoscenti e tra di loro c’è chi oggi forma il tessuto sociale di Trieste”. Gli anni ‘90 hanno rappresentato un punto di svolta per Trieste, che fino ad allora aveva ospitato solo emigrati per motivi di studio, grazie al progetto avviato alla fine della Seconda guerra mondiale per favorire la specializzazione degli scienziati africani presso la SISSA locale. “Alla fine del secolo scorso la città giuliana personificava gli ideali di prosperità, libertà e felicità e, soprattutto, gli emigrati provenienti dall’ex Jugoslavia incarnano il modello di un’integrazione meglio riuscita. Infatti, nelle varie interviste la maggior parte di loro ha affermato di trovarsi bene e di non avvertire né razzismo, né discriminazione”: ha chiarito l’autrice.
Per anni il multiculturalismo è stato portato avanti come ideale per raggiungere una convivenza tra le diverse etnie presenti sul territorio. L’idea di base era quella di preservare nella cultura, ma allo stesso tempo si mantenevano anche le differenze. Queste ultime erano viste come un fattore di sviluppo e come una bellezza da sottolineare. “La mancanza politica è stata quella di non aver trovato elementi comuni per l’identificazione nell’istituzione – ha proseguito Urpis –. È necessario sviluppare una cultura dell’appartenenza che si basi su valori universali che rappresentino una dimensione di unione e che siano comuni a tutti gli esseri umani”.
Drago Kraljević ha avviato invece una riflessione sui migranti che attualmente si riversano all’interno dell’Unione europea, molti dei quali giungono attraverso la rotta balcanica. “Oggi ci sono molti più stereotipi nei confronti dei migranti rispetto a 30 anni fa – ha chiarito Urpis, in risposta –, allora si trattava di un fenomeno di nicchia, che non influiva molto sulla struttura di una località. Adesso si arriva anche al 25-30 p.c. di stranieri per città ed è normale che una presenza così cospicua vada a modificare la composizione identitaria di quel luogo”.
“Negli ultimi anni ci sono circa 1.080.000 persone irregolari all’interno dell’Ue, parte delle quali giunte attraverso la rotta balcanica, considerata la seconda più attiva dopo quella italiana. Molte di queste hanno ricevuto un’ordinanza di espatrio, ma solo un quarto ha rispettato la decisione di rimpatrio”, ha sottolineato Kraljević. “Questi individui affrontano grandissime difficoltà per arrivare nell’Ue dal Pakistan e dalla zona circostante e, inoltre, spendono tantissimo denaro per la traversata. Stiamo parlando di giorni e giorni di viaggio, spesso in autobus o a piedi, anche attraverso boschi e montagne – ha precisato la sociologa –. Una volta giunti in Europa per di più devono affrontare un iter burocratico infinito, che spesso porta a un nulla di fatto. È normale che quando queste persone si vedono rifiutare il visto non abbiano nessuna intenzione di rimpatriare”.
Due mondi apparentemente diversi: le migrazioni degli anni ‘90 e quelle attuali, che però in entrambi i casi significando l’abbandono della propria casa per una prospettiva di vita migliore. E alla fine che cosa rimane a queste persone? La memoria del proprio Paese d’origine, che spesso viene trasformata in una favola dalla consapevolezza dell’esilio.

Il volume della sociologa.
Foto: Nicole Mišon

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