Pola ama il calcio, ma non basta Manca un dirigente di spicco

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Pola ama il calcio, ma non basta Manca un dirigente di spicco

Il 2018 è stato un anno difficile per il calcio polese, in particolare per la sua espressione di punta, l’Istra 1961. La persona che ha vissuto pià di ogni altra la travagliata stagione chiusasi in estate è stato Darko Raić-Sudar, al timone della squadra, e non solo, che è riuscita a conquistare la salvezza pur giocando in condizioni di precarietà assoluta. Un successo riconosciuto in estate dal sindacato dai calciatori con il premio “Anima buona del calicio croato” (Dobri duh hrvatskog nogometa) e di recente in Regione con il premio “Istriana”. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare i retroscena di una stagione che rimarrà nella storia del calcio di casa nostra.

Di che cosa si occupa oggi Darko Raić-Sudar?

Sono ritornato al mio vecchio lavoro, ovvero quello di responsabile di alcuni impianti gestiti dalla Pula sport: lo stadio Aldo Drosina in primo luogo, ma dal 1.mo gennaio anche di quello dell’Uljanik a Veruda. Data la crisi allo stabilimento navalmeccanico, l’azienda non è più in grado di gestire l’impianto che ora passa sotto l’egida della Città. Comunque sono ancora vicino al calcio, alle vicissitudini dell’Istra 1961 e cerco di dare una mano, almeno con qualche consiglio. Faccio parte pure della dirigenza, come rappresentante della Città di Pola.

Riavvolgiamo il nastro e torniamo a 12 mesi fa. A un Capodanno a dir poco deprimente in seno alla massima espressione calcistica polese…

Era un momento veramente critico. Eravamo in vacanza dopo essere riusciti a portare a termine il girone d’andata con numerosi calciatori che avevano levato le ancore. L’incertezza regnava sovrana, non si sapeva nulla sulle sorti della società. Anche l’interesse dell’imprenditore dalmata Gotovac, che era il candidato principale a rilevare il club, era scemato per cui non sapevamo più che pesci pigliare. Sui media ogni giorno spuntava qualche nuova ipotesi, i tifosi erano, ovviamente, molto interessati sulle sorti della società, ma si era ancora in alto mare. Quasi tutti i calciatori se n’erano andati in quanto dopo che per tre mesi non avevano percepito lo stipendio erano svincolati. In quei giorni ero seriamente preoccupato e pensavo che la fine dell’Istra 1961 fosse vicina.

Invece…

Invece sono stato a una seduta dell’Assemblea della Federcalcio croata dove i dirigenti delle altre società ci invitavano a riprendere il lavoro e dicevano che sarebbero stati loro a venirci incontro. Poi c’è stata anche l’iniziativa dei nostri giocatori Vojnović e Čuljak, che per inciso non avrebbero potuto cambiare squadra in quanto arrivati da poco, i quali avevano detto di volere riprendere con gli allenamenti in attesa degli sviluppi della situazione. Erano settimane d’incertezza. Le altre squadre di Prima lega avevano già iniziato con la preparazione invernale mentre noi eravamo ancora fermi. A fine gennaio, con soli 6 seniores e una squadra imbottita di juniores abbiamo iniziato a lavorare. Eravamo sul lastrico e l’unica cosa che potevo dire ai miei calciatori era che avevano l’opportunità di giocare in Prima lega. Altre promesse non volevo e non potevo fare. Iniziò il campionato, perdemmo 4-0 in casa del Rijeka, ma intanto la squadra cominciava a prendere corpo.

Poi arrivò l’ultimo giorno del mercato invernale…

Quel giorno non lo scorderò mai. Erano le 21 quando Vojnović mi accennò la possibilità di tesserare in prestito il romeno Matei e il brasiliano Bady. Dopo aver visionato alcune loro giocate su YouTube e vista la loro storia calcistica siamo riusciti a prenderli in extremis. A quel punto ho pensato che forse avremmo potuto farcela”.

La squadra era stata allestita, ma tutto il resto era ancora in altro mare…

“Mancava proprio tutto. Non c’era nemmeno il detersivo per lavare le magliette. Poi siamo stati costretti a chiudere la tribuna orientale e quella settentrionale per contenere i costi. Città e Regione ci sono venute incontro, gli allenatori delle giovanili facevano volontariato per poter organizzare le partite. Mi ricordo che una volta il commissario di campo era venuto a Pola per una nostra partita e 90 minuti prima dell’incontro aveva trovato tutto chiuso, io ero impegnato nella riunione tecnica prepartita. Una delle tante situazioni assurde, Ma i ragazzi avevano un cuore d’oro.

Poi c’è stato l’intervento della Città…

Il sindaco mi ha chiamato, preoccupato anche per le scritte sui muri che chiamavano in causa l’amministrazione cittadina. Nel precampionato mi aveva pregato di fare qualcosa, perché nessuno voleva la chiusura del club. Anche il curatore fallimentare aveva fatto il possibile, alcuni imprenditori, ma anche semplici appassionati di calcio ci erano venuti incontro e pian piano ci siamo rimessi in sesto. Polizia, Vigili del fuoco, Pronto soccorso, tutti ci hanno dato una mano nell’organizzare le partite. Una catena di solidarietà che ha coinvolto tutti, anche gente della Slavonia e ancor prima i calciatori della Dinamo che avevano fatto una colletta prima del Natale 2017.

Da tutto ciò risulta che non tutto è marcio nel calcio croato…

Ho avuto la fortuna di conoscere anche il lato migliore del calcio nostrano. In tanti ci hanno voluto aiutare, a partire dalle squadre che ci hanno dato in prestito i loro calciatori. Sia beninteso, non volevamo la carità, ma soltanto la possibilità di giocarci la salvezza sul campo e non retrocedere per vicende extracalcistiche. Per fortuna ce l’abbiamo fatta.

Qual’è stato il giorno più difficile, e quello più bello?

Si tratta dello stesso giorno. Quello della partita di ritorno dello spareggio salvezza contro il Varaždin. All’andata vincemmo per 3-1, ma non era finito. Quando mi sono svegliato il giorno della partita sono stato preso da un brutto presentimento, mi sono chiesto se non finirà proprio sul più bello dopo quanto abbiamo fatto, dopo tutte quelle energie, soprattutto mentali, spese. E poi sapevo che con la retrocessione avremmo chiuso baracca, nessuno avrebbe rilevato un club della cadetteria. Alla fine la Dea bendata ci ha dato quello che ci aveva preso in precedenti partite. Abbiamo perso 1-0, ma abbiamo avuto molta fortuna e alla fine la gioia è stata incontenibile sia sul campo di gioco che negli spogliatoi.

Gioia che avete condiviso anche con i tifosi venuti al seguito. Quanto è stato importante l’appoggio del pubblico in questa travagliata stagione?

È stato fondamentale, è stato il carburante che ci ha permesso di andare avanti fino alla fine. Sia i tifosi più caldi, ovvero i Demoni, sia il pubblico della tribuna centrale ci hanno accompagnati in quest’avventura. Perdevamo in trasferta, venivamo battuti davanti al nostro pubblico, ma il sostegno non ci è mai mancato. In alcune partite al Drosina, noi eravamo già rientrati negli spogliatoi, mentre il pubblico continuava a cantare e ad applaudire. Sono state emozioni forti, direi uniche”.

Durante le conferenze stampa in più di un’occasione aveva detto che la cosa più difficile era mandare qualcuno in tribuna.

“Verissimo. Quando dettavo i convocati mi si spezzava il cuore per coloro che non finivano a referto. Guardi, i ragazzi giocavano gratuitamente, alcuni dovevano prestare i soldi per il carburante per arrivare fino al campo di allenamento, e io dovevo escluderli sia dalla formazione iniziale sia da coloro che venivano con me in panchina. Era la parte più dura, ma i ragazzi avevano capito che qualcuno doveva pur restare fuori”.

Da tutto ciò si capisce che il suo non era soltanto un ruolo di allenatore, ma anche di “pompiere”, di psicologo…

“Mi arrangiavo come potevo, cercavo di creare uno spirito di squadra anche con grigliate a Promontore. Il nostro successo è dovuto proprio al fatto che funzionavamo come una famiglia e ancora oggi i calciatori sono rimasti in contatto”.

Chi eleverebbe a giocatore simbolo della stagione.

“Sono stati molti. Vanja Iveša è stato come un padre per molti, Vojnović era un vero leader sia in campo che negli spogliatoi. I vari Roce, Ottocchian che sono rientrati a Pola per salvare la baracca hanno avuto un ruolo enorme. E poi il romeno Matei, uno che aveva già giocato in Champions League contro il Barcellona, ha dato tutto, giocando anche infortunato. Dopo alcune trasferte, durante le soste nelle aree di servizio estraeva la carta di credito e pagava per tutti. Una persona squisitissima, un grande campione.

Chiudiamo il capitolo della stagione scorsa chiedendole di raccontarci qualche aneddoto?

“Ce ne sarebbero a decine, ma l’esempio più lampante riguarda l’ucraino Matyazh. Dopo avere giocato il girone d’andata senza percepire un centesimo voleva rimanere a Pola a tutti i costi. Gli ho detto che non avevo il coraggio di tenerlo a Pola. Aveva famiglia, doveva guadagnare da vivere per sé e per i suoi. Io non potevo garantirgli nulla. Alla fine mi ha ascoltato. E dire che a Pola ne aveva vissute di cotte e di crude.
Ricordo che il giorno di una partita, quella contro l’Osijek al Drosina, lui e Okochukwu erano venuti in campo con le valigie. Erano stati sfrattati dall’appartamento in quanto il Club non aveva pagato l’affitto. E manco sapevano dove avrebbero dormito la sera dopo. Ma nonostante tutti questi problemi Matyazh disputò la migliore partita con la maglia dell’Istra 1961. Ecco, vedete di che pasta sono fatti i giocatori che avevo a disposizione. E, nota bene, non è una situazione che si era protratta per un paio di settimane o mesi, ma per tutta una stagione”.

A salvezza raggiunta, la società è stata rilevata dal Gruppo Baskonia-Alaves, che non l’ha confermato in panchina?

“A essere sinceri me l’aspettavo. L’ho detto pure a loro e non serbo rancore. Quando ci siamo incontrati la prima volta ho detto loro che capisco il fatto che la nuova dirigenza desideri persone di fiducia. Non volevo rimanere in panchina per uno-due turni e dopo venire sollevato dall’incarico. Io avevo portato a termine la mia missione, ero stanco e mi sentivo consumato. Nel primo mese ero a disposizione del neo allenatore Marquez, ma non mi vedevo nel ruolo di vice. Quello che mi dispiace è che la nuova dirigenza non abbia dato fiducia ad alcuni dei miei calciatori che avrebbero meritato la conferma non soltanto per quanto fatto, ma anche perché servivano alla squadra. Credo che i dirigenti del Gruppo Baskonia-Alaves all’inizio abbiano sottovalutato il livello della Prima lega croata. Comunque ripeto, senza i proprietari di oggi il club sarebbe scomparso e per questo bisogna loro rendere merito. Ora, ciascuno nel proprio ruolo, abbiamo una buona collaborazione”.

Secondo lei si sta navigando nella direzione giusta?

“Bisogna dargli tempo. Loro stessi speravano in risultati migliori. Sono arrivati moltissimi calciatori nuovi e serve tempo per amalgamarli, ma credo che si stia lavorando bene. A livello organizzativo ci siamo, stanno ancora risolvendo i debiti accumulati. Manca ancora il lato sportivo, quello dei risultati, ma arriveranno anche quelli. Che cosa manca? Per me ci dovrebbe essere una maggiore presenza di calciatori nostrani”.

Lei è ancora giovane, prossimo ai 47 anni. Si vede ancora in panchina?

“Sì. Diciamo che finita la stagione scorsa non volevo saperne di allenare. Con il passare del tempo il campo comincia a mancarmi. Mi mancano gli allenamenti, le partite. Vedremo che cosa mi riserverà il futuro. Sto bene a Pola, ho un buon lavoro. Se arriverà qualche offerta la prenderò in considerazione e valuterò con la famiglia il da farsi”.

Vive a Pola ormai da 15 anni. Si è chiesto mai perché tante tribolazioni con la squadra bandiera del calcio polese, sia questo l’Uljanik di una volta oppure l’Istra di oggi. È mai possibile che non si riesca ad allestire una società che possa vivere serena e tranquilla come in altre regioni della Croazia?

“Me lo sono chiesto diverse volte. Sono cambiate le squadre, i nomi delle società, i dirigenti, ma siamo sempre daccapo. Vede, ho giocato in Slavonia, in Israele e in nessuna di queste aree il calcio è seguito come a Pola. Forse non c’è troppa gente sugli spalti, ma il calcio qui è amato, ne parlano in molti, i media lo seguono bene, anche con meno critica rispetto ad altrove, ma siamo sempre in discussione. Difficile trovare il motivo, alcuni dicono che c’è molta invidia nel settore. A mio avviso il problema maggiore è nella struttura dirigenziale, ovvero nel fatto che non si sia riusciti a creare una figura di spicco nel calcio croato che abbia le porte aperte a Zagabria. Manca un imprenditore che abbia il calcio nel sangue, come ad esempio Meštrović a Osijek, oppure Mišković a Fiume. Noi abbiamo avuto proprietari russi e statunitensi, ora il club è in mano al Baskonia-Alaves. E in tutti e tre i casi le cariche dirigenziali erano in mano agli stranieri. Al Rijeka durante l’era Volpi non era così, all’Osijek di oggi non è così. Un altro problema è il fatto che pur essendo una regione economicamente forte, non abbiamo mai avuto una grande azienda interessata a investire molto nello sport. E non parliamo soltanto del calcio, ma anche degli altri sport.

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