Giovanni Stelli: «In quest’Europa ancora da costruire… va ampliato l’orizzonte culturale della nostra azione»

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Giovanni Stelli: «In quest’Europa ancora da costruire… va ampliato l’orizzonte culturale della nostra azione»

L’associazionismo giuliano-dalmato è sempre stato presente nella famiglia di Giovanni Stelli, professore e scrittore, saggista e uomo di cultura, presidente della Società di Studi Fiumani e del Museo Archivio storico di Fiume a Roma. Personaggio di punta in questo 2018, per i tanti interventi, conferenze e incontri dedicati a Fiume attraverso la storia e la civiltà di una città che nel 2020 sarà Capitale europea della cultura.

Già suo padre a Napoli era stato un esponente di punta dell’associazionismo giuliano-dalmata negli anni immediatamente successivi all’esodo. Stelli è anche un testimone di questo percorso che è cambiato nel tempo.
In che modo?

“È profondamente cambiato. Negli anni Cinquanta e Sessanta predominava nel mondo dell’esodo l’idea del ritorno dei profughi nelle città e nelle terre perdute. Si trattava di una vera fede, alimentata dalla nostalgia e dalla convinzione, peraltro ben fondata, di aver subito una profonda ingiustizia che doveva essere riparata, anche se le modalità concrete di questo ritorno restavano del tutto indeterminate o si traducevano in appelli inascoltati al diritto delle genti, di cui l’Onu, per esempio, avrebbe dovuto essere il garante e così via. Di questa fase mio padre Mario è stato un esponente coerente e generoso, ma negli ultimi anni della sua vita riconobbe il limite di quest’impostazione e guardò con grande interesse al dialogo tra esuli e rimasti iniziato nei primi anni Novanta. L’idea del ritorno era in realtà un’illusione, per quanto generosa: con l’andare del tempo si è dissolta di fronte alla dura realtà storica e gli esuli, organizzati nelle loro associazioni, hanno compreso, chi prima e chi dopo, che questo ritorno poteva essere concepito e realizzato solo come un ritorno culturale, ossia come il tentativo di recuperare l’identità storica italiana delle terre perdute, celata e deformata, se non cancellata, negli anni del totalitarismo comunista. Questo ritorno comportava e comporta ovviamente un rapporto organico con gli italiani rimasti e le loro associazioni, oggi l’Unione Italiana e le Comunità degli italiani, e con la maggioranza slovena e croata e le istituzioni delle due Repubbliche. Ed è proprio in questa direzione che la Società di Studi Fiumani, da me attualmente presieduta, ha lavorato con tenacia sin dal 1989, l’anno della “caduta del muro””.

Quali le battaglie vinte e quali quelle perse in questi decenni?

“Si sono ottenuti molti risultati positivi. Innanzitutto è stata abbattuta la barriera tra esuli e rimasti, alimentata spesso in passato da pregiudizi e scarsa conoscenza reciproca, per cui oggi a Fiume, ad esempio, si può ben dire che i fiumani italiani sono, per così dire, un unico “popolo” e si muovono in unità di intenti e di propositi. Parlando sempre di Fiume, i rapporti con la maggioranza croata continuano a svilupparsi nel reciproco rispetto e con profitto: mi sembra che gli esclusivismi nazionalistici siano stati superati e che comune sia ormai il riconoscimento della realtà complessa, plurilinguistica e pluriculturale delle nostre terre, una realtà che va oggi recuperata e valorizzata, dopo il lungo inverno della devastazione totalitaria. Il ripristino sulla Torre Civica dell’aquila bicipite, le recenti decisioni della Municipalità guidata dal sindaco Vojko Obersnel sul recupero parziale del bilinguismo visivo nella città e del toponimo “Fiume”, le dichiarazioni dello stesso sindaco sulla opportunità di recuperare anche il vessillo tradizionale fiumano (il tricolore carminio, rosso oro e blu turchese), nonché gli ottimi rapporti tra la Municipalità fiumana, la locale Comunità degli Italiani e la Società di Studi Fiumani, sono segni concreti e importanti di questa tendenza alla rivalorizzazione della storia secolare della città. Di battaglie perse non parlerei, parlerei piuttosto di limiti della nostra azione, in parte inevitabili e in parte evitabili: per quel che riguarda i limiti evitabili penso, ad esempio, alle divisioni e alle polemiche interne al mondo associativo sia degli esuli sia dei rimasti e soprattutto al settarismo che ancora caratterizza a volte l’azione di alcune associazioni, che sembrano preoccuparsi più della loro autoaffermazione che della causa comune per la cui realizzazione sarebbe necessario unire tutte le forze disponibili”.

Perché è così difficile passare il testimone alle giovani generazioni, soprattutto lontano dai luoghi di provenienza?

“L’identità istriana, dalmata, fiumana è un’identità di tipo linguistico e culturale, non di tipo religioso, come è il caso degli ebrei. Essa è quindi destinata, nel caso, che è quello maggioritario, degli esuli in Italia, a essere progressivamente riassorbita nella dimensione più vasta dell’identità culturale italiana, rendendo marginale lo specifico regionale: dialetto, usanze, costumi, gastronomia… Così del resto è avvenuto e avviene per le migrazioni interne: il sindaco di Bologna Merola, di evidente origine campana, è diventato bolognese, ma era e resta italiano, perché campani ed emiliani sono italiani. Non è un caso che la salvaguardia dell’identità specifica regionale o locale sia più facile nel mondo degli esuli all’estero, in Australia, in Sud-Africa, in Canada, dove questa salvaguardia coincide in parte con quella dell’identità italiana. La vicenda degli istriani, fiumani e dalmati è analoga a quella degli italiani che si spostano all’interno della penisola, per cui l’assimilazione col passare delle generazioni è un risultato inevitabile. Naturalmente c’è una differenza decisiva e consiste nel fatto che, diversamente dai campani divenuti emiliani o milanesi e così via, gli istriani, i fiumani e dalmati sono stati costretti ad abbandonare le loro terre d’origine e queste terre hanno subito uno stravolgimento etnico e linguistico senza precedenti. La differenza sta insomma nella tragedia dell’esodo. Questo è il senso della domanda: nel nostro caso è certamente necessario “passare il testimone” ai giovani, ma questo può avvenire solo ampliando l’orizzonte culturale della nostra azione. Si tratta di superare tutte le forme di nostalgia, sentimento nobile, ma che rischia di essere angusto ed escludente – e peraltro nelle giovani generazioni poco presente, com’è naturale – e di collocare la nostra questione nella sua piena dimensione storica: si tratta di una questione nazionale, di una questione centrale della storia d’Italia, e di una questione della storia europea, che implica i cruciali problemi delle dinamiche dei nazionalismi contrapposti e dei totalitarismi, degli spostamenti forzati di popolazioni, dei ‘genocidi’ linguistici e culturali e così via. In questa prospettiva la questione dell’esodo dei giuliano-dalmati diventa una sorta di microcosmo in cui si riflette tutta la grande tragica storia del Novecento europeo. Ed è solo in questa prospettiva che è possibile, a mio parere, coinvolgere gli elementi più sensibili delle nuove generazioni”.

C’è un collante nel quale la nostra gente può ancora riconoscersi, sia nelle città di provenienza, ma anche nel mondo, laddove li ha portati l’esodo?

“Credo che questo collante sia costituito proprio dall’esodo, dalla consapevolezza del suo significato morale e storico: l’esodo dei giuliano-dalmati ha travolto un’intera comunità nazionale, non può essere ridotto a un mero ‘spostamento di popolazioni’, come a volte si legge nell’intento ideologico (ancora!) di disinnescarne il significato storico dirompente e le tragiche vicende umane a esso inestricabilmente connesse. È bene ribadire che si è trattato di un evento senza precedenti nella storia delle nostre terre: mai nel corso dei secoli, nell’avvicendarsi delle varie dominazioni politiche, la popolazione autoctona italiana era stata costretta, in stragrande maggioranza, ad abbandonare, e per sempre, le località in cui era vissuta, almeno dal Medioevo fino alla metà del Novecento. L’esodo ha costituito quindi una censura netta e ha inciso in modo profondo sul destino sia dei profughi e dei loro discendenti – che hanno dovuto difendere la loro memoria storica durante lunghi anni, scontrandosi con l’indifferenza e a volte addirittura con l’ostilità dei loro connazionali – sia dei rimasti, diventati per la prima volta nella storia minoranza e costretti a lottare duramente per la loro stessa sopravvivenza, in nuovi difficili contesti”.

In che modo può incidere uno studio più preciso della storia?

“Lo studio della storia e una corretta divulgazione storica giocano un ruolo fondamentale. Le terre dell’Adriatico orientale hanno una storia di lunga durata, le loro vicende non possono essere ridotte a quelle, pur importanti e decisive, del Novecento. Questa storia di lunga durata è una storia di scambi, contaminazioni e ibridazioni linguistiche e culturali, in cui l’elemento italiano ha giocato soprattutto nelle città un ruolo predominante, la cui specificità consiste nella stretta connessione e reciproca influenza, della lingua e della cultura italiane con le altre lingue e culture presenti in queste zone, la tedesca-austriaca, l’ungherese, la slovena e la croata. Solo abbandonando le categorie del nazionalismo otto-novecentesco è possibile dar ragione di questa straordinaria complessità e recuperare a tutto campo la storia dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, una storia che, al di là di differenze interne anche rilevanti, potrebbe costituire un modello per quell’Europa che è ancora, a mio parere, tutta da costruire: un’Europa in grado di coniugare universalità e particolarità, rispetto delle diversità e legame con le proprie radici”.

Insistiamo. A volte si vorrebbe fermare il tempo, ma è questo che dobbiamo fare o è l’evoluzione l’unica possibilità? E quale evoluzione?

“Credo di aver in qualche modo già risposto a questa domanda. Non è possibile fermare il tempo, ma è possibile cercare di influenzare e anche di modificare l’evoluzione degli eventi. Molto schematicamente: il futuro sarà costituito da un mondo globalizzato dominato dalla finanza internazionale e popolato da consumatori senza memoria e senza storia? Oppure è possibile un futuro diverso in cui venga custodita l’eredità positiva della nostra tradizione occidentale in una prospettiva universalistica di pace e di confronto costruttivo tra le varie culture? Ciò che noi facciamo nel nostro piccolo, per così dire, può contribuire a favorire l’una o l’altra di queste due possibilità”.

Come immagina il 2020 a Fiume quando la città diventerà capitale europea della cultura?

“Il recupero della storia della città, a cominciare dai suoi simboli fino alla toponomastica, si inserisce, come è evidente, nella prospettiva di Fiume capitale europea della cultura 2020: Fiume può essere a buon diritto capitale europea della cultura in considerazione del suo ruolo secolare di cerniera tra lingue, culture e popoli diversi. In questa prospettiva molte cose sono state fatte e molte sono ancora da fare. Penso, ad esempio, alla componente ungherese della storia di Fiume, su cui poco si è detto finora e molto invece ci sarebbe da dire. Il recente convegno internazionale sui traduttori fiumani dall’ungherese tenutosi nella sede della Comunità degli italiani a Fiume il 10 ottobre di quest’anno è stato un importante passo in direzione di questo recupero”.

La Comunità ha voluto coinvolgere la SSF nel dibattito sugli odonimi e sul bilinguismo. Che cosa ha rappresentato per voi?

“È stata una decisione molto positiva. Per la prima volta esuli e rimasti hanno lavorato assieme su un progetto comune e concreto riguardante la loro città. E devo anche ricordare la grande sensibilità del sindaco Obersnel che ha voluto la presenza della Società di Studi Fiumani alla conferenza-stampa convocata l’11 ottobre di quest’anno per annunciare la decisione sull’istituzione del bilinguismo visivo in una trentina di strade e piazze del centro storico di Fiume”.

Nelle associazioni degli esuli non esiste un unico grande progetto di sviluppo culturale. È necessario? Quali elementi dovrebbe sviluppare?

“Della necessità e delle caratteristiche di questo progetto di recupero culturale, da perseguire insieme dalle associazioni degli esuli, da quelle dei rimasti, dalle istituzioni italiane e dalle istituzioni e associazioni croate e anche, per quel che riguarda la nostra città, dalle istituzioni e associazioni ungheresi, ho detto in precedenza, quando ho parlato del ritorno culturale. Il progetto già esiste e ha ottenuto anche risultati non disprezzabili: può indubbiamente essere ulteriormente articolato e specificato, ma è necessario superare i residui dello spirito settario che, come ho accennato, a volte ostacola quell’unità d’azione che sarebbe indispensabile oggi più di ieri”.

Spesso non sappiamo attingere dall’inesauribile fonte della storia: il passato di Fiume che cosa può insegnare oggi? Potrebbe citare qualche esempio?

“Il passato di Fiume può insegnare molto, a patto che lo si legga senza paraocchi nazionalistici. Un insegnamento fondamentale, per esempio, è questo: è possibile essere culturalmente italiani senza essere politicamente italiani; è possibile difendere la propria identità linguistica e culturale senza identificare necessariamente nazione e Stato, al modo del nazionalismo moderno. Questo vale ovviamente per qualsiasi gruppo nazionale o etnia. Naturalmente anche l’affermarsi e la diffusione dei nazionalismi, e la parallela dissoluzione degli Imperi plurinazionali avvenuta alla fine della Grande guerra, sono fenomeni storici la cui “logica” deve essere spiegata, ossia hanno le loro ‘ragioni’, il che però non vuol dire necessariamente che avessero ‘ragione’”.

Mentre portava a termine il suo libro su Fiume, a quale tipo di pubblico immaginava di rivolgersi?

“A un lettore che si potrebbe definire ‘medio’, ossia non specialista, ma dotato di una certa cultura e di interessi storici. Pensavo naturalmente, e innanzi tutto, alla nostra gente, agli esuli e ai rimasti, ma anche al lettore croato, che può trovare nel mio lavoro diverse notizie sulla componente croata della storia di Fiume, che in analoghe opere italiane del passato sono state invece indebitamente trascurate. Per questo motivo spero che il prossimo anno veda la luce una traduzione croata della mia Storia, per realizzare la quale si è mossa la Comunità degli Italiani di Fiume”.

Lingua e dialetto. Quali significati e quale importanza?

“Il Dipartimento di Italianistica dell’Università di Fiume-Rijeka insieme alla nostra Società sta lavorando al progetto di un Convegno sull’italiano come lingua di comunicazione dei semi-colti; all’interno di questo Convegno, previsto per gli inizi del 2020, uno spazio sarà dedicato all’italiano parlato e scritto a Fiume nel corso dei secoli, di cui esistono documenti importanti non ancora analizzati sotto il profilo linguistico. È abbastanza nota la tariffa o calmiere del pesce del 1449, ma non è nota la traduzione italiana dello Statuto del 1530, una traduzione più o meno coeva, che conserviamo nel nostro Archivio Museo Storico di Fiume a Roma, così come non sono stati analizzati atti notarili, lettere, patenti, regolamenti, epistolari, tra cui quello di Adamich con Laval Nugent, conservati sempre nel nostro Archivio Museo e che metteremo a disposizione degli studiosi. La questione del dialetto va posta all’interno della questione dell’italiano parlato e scritto a Fiume: sia come prestiti dialettali presenti nell’italiano scritto, sia come lingua autonoma parlata dal popolo, di cui abbiamo una copiosa documentazione”.

I momenti più importanti di questo 2018 che ci lasciamo alle spalle…

“Ho ricordato in precedenza alcuni momenti importanti, ma non ho rammentato quello che mi sembra essere stato in assoluto il più importante di questo 2018. Mi riferisco all’esumazione, avvenuta nel luglio, dalla fossa comune del bosco della Loza nei pressi di Castua, dei resti dei sette italiani trucidati il 4 maggio 1945, tra cui il senatore fiumano Riccardo Gigante – i trucidati in realtà furono otto, perché la salma del maresciallo di finanza Butti era stata esumata clandestinamente già nel corso del 1945 – e alla cerimonia religiosa officiata il 15 settembre nella Chiesa di Castua dal parroco don Franjo Jurčević alla presenza delle autorità governative croate e italiane, dei dirigenti delle associazioni degli esuli, a cominciare da quelli della nostra Società che da oltre 25 anni aveva lavorato per realizzare quest’opera di giustizia, e del Console generale d’Italia a Fiume Paolo Palminteri, il cui appoggio a questa, come ad altre iniziative, è stato determinante”.

Che cosa vorrebbe raggiungere nel 2019? Quali sono i progetti in cantiere?

“Oltre all’assegnazione dei tradizionali premi agli studenti della Scuola italiana che avverrà, come sempre, in occasione della festività di San Vito, saremo presenti al Viaggio del ricordo del Comune di Roma, che quest’anno prevede la visita di Capodistria e di Fiume; abbiamo in programma di ricordare a Roma, al Senato della Repubblica, i due senatori di Fiume Riccardo Gigante e Icilio Bacci; nell’ambito del Raduno annuale dei fiumani organizzeremo una cerimonia al Vittoriale degli Italiani su D’Annunzio e Fiume; abbiamo anche in programma la mostra “D’Annunzio e l’Impresa di Fiume” da realizzare insieme all’IRCI a Trieste e diverse altre iniziative che preciseremo e articoleremo al più presto”.

Un augurio che vorrebbe rivolgere a tutti i Fiumani…

“Mi auguro e auguro a tutti i miei concittadini che nel corso del 2018 le tracce dell’identità culturale di carattere italiano di Fiume divengano finalmente visibili nel tessuto urbano e nella vita cittadina: in tal modo per gli esuli tornare a Fiume, sia pure per qualche giorno, significherà in qualche modo tornare veramente a casa, e per i rimasti vivere a Fiume significherà sentire sempre di più Fiume come la propria città, la città dei loro padri e dei loro avi”.

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