La cascina del Conte Zabo

Aveva da sempre desiderato un mobile nel quale mettere in bella mostra i suoi vini pregiati. La parete di mattoni lasciata vuota sembrava essere lì apposta per accogliere una rastrelliera... Il muro però nascondeva un macabro segreto

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La cascina del Conte Zabo
Foto: Damir Spehar/PIXSELL

Un’onda di sole caldo sembrava percorrere la grande valle che scendeva, tra anfratti e tagli di verde intenso, verso la lontana foschia del mare. Il campanile era l’unico intralcio all’uniformità del paesaggio e un segno che da lì iniziavano le orride del Torrente. Una specie di baluardo alla confusione del traffico turistico a vantaggio di quella tranquillità che da sempre riconduceva alla pace come il Conte Enrique Zabo soleva ripetere. Il Conte Zabo era un tipo del tutto particolare. Giunto, nessuno sapeva come e quando, nella piccola frazione, aveva adottato quell’estremo lembo occidentale, fondendosi talmente bene con l’ambiente chiuso, da divenire un personaggio “consultabile”, come soleva ripetere e soprattutto ascoltato per i pareri che sapeva dare. Di manie ne aveva molte e spesso le tirava in ballo per sottolineare, con gli esempi, il suo modo di ragionare. Non mancavano neppure gli hobby al Conte Zabo. Erano hobby che anche lui annoverava tra quelli dispendiosi. Ma, come si faceva ad abbandonarli. Creavano una certa atmosfera cui ammantarsi e soprattutto giustificavano il suo titolo di Conte. Già: Conte. Ma di chi e di che cosa, nessuno lo sapeva e lui non è che fosse molto ciarliero in proposito. Glissava molto abilmente le domande e quando si sentiva in difficoltà pilotava l’interlocutore a incontrare i suoi hobby.

Nel garage che pareva più un salotto di buone maniere che un ricovero per automezzi, custodiva una magnifica Isotta Fraschini decapottabile cui riservava particolari attenzioni da meccanico esperto. Perfetta e lucida, come fosse appena uscita di fabbrica, la guidava una volta all’anno: in occasione di un autoraduno d’epoca. A fianco, nel grande garage, un’ordinata rastrelliera metteva in bella mostra una serie di biciclette da corsa, anch’esse d’epoca, del tipo e marca usate da famosi campioni professionisti del dopoguerra. In particolare brillava una Legnano che il Conte Zabo inforcava spesso per fare lunghi percorsi, su e giù per le aspre contrade. Nella sua casa, costruita su due piani e nascosta quasi dalle sempreverdi foglie di decine di antichissime piante di olivo, facevano mostra di sé degli ottimi quadri di autori importanti. Seduto su di una poltrona al lato del grande camino acceso, stava leggendo il giornale, quando udì il trillo del campanello. Toccava a lui aprire il cancello. Non aveva infatti domestici e, da scapolo incallito, neppure una compagna che lo aiutasse. Percorrendo il breve viale, riconobbe subito il postino che volentieri si fermava da lui a fare due chiacchiere ogniqualvolta gli recapitava la posta.

La raccomandata del notaio
“Conte, c’è una raccomandata per lei. La manda un notaio”, gli disse il postino. Un rapido pensiero, ma lui non conosceva nessun notaio. Mentre firmava la ricevuta, dei flash della sua vita gli sfilarono di fronte, ma non si arrestarono al contatto con nessun notaio. “Notaio Dr. Antonio Braida di Luino”: c’era stampigliato sul frontespizio della busta. Aprì la busta con un certo nervosismo e, come avesse calcolato il tempo del tragitto, si trovò seduto sulla sua poltrona preferita nel momento in cui iniziò a leggere la lettera. Era la classica missiva di uno studio notarile, con la quale veniva pregato di mettersi in contatto per urgenti notizie che lo riguardavano a proposito di un lascito testamentario a suo favore. Rimase a fissare il numero di telefono stampigliato sotto l’indirizzo del notaio e rimase così per alcuni minuti prima di realizzare che digitare quel numero era l’unico modo per poter conoscere il motivo di quella convocazione. La voce femminile e professionale lo scosse dal torpore. “Buonogiorno signorina. Sono il Conte Zabo. Ho ricevuto ora la raccomandata dal…”. La signorina non lo lasciò neppure finire la frase. “Buongiorno conte; sono la segretaria del notaio Braida, che vorrebbe incontrarla per una questione di un lascito testamentario. Una sua parente, tale Giuseppina Marrano: una Contessa come lei, le ha lasciato in eredità una cascina in Val Veddasca, sopra il Lago di Lugano. Sarebbe opportuno che lei mi fissasse un appuntamento per parlare con il notaio e vedersi il da fare”. Mille pensieri, volti dimenticati, nomi scordati. Un rapido scavo nell’albero genealogico non dette alcun risultato. “È sicura che si tratti di me?”. “Certo. Abbiamo fatto le solite ricerche, anche attraverso i Carabinieri e siamo certi che si tratta proprio di lei, Conte Zabo. Ed è una faccenda anche abbastanza urgente. Lei, capirà…”. Non aveva capito assolutamente niente invece. Gli scocciava infinitamente dover discutere di una faccenda che non conosceva affatto e con uno sconosciuto. Con un notaio per giunta che dava alla faccenda una patina di ufficialità. Un argomento però lo incuriosiva; chissà chi fosse Giuseppina Marrano?

L’eredità di «zia Pina»
“Signorina, se dice che è urgente, potrei venire anche domani mattina. Sempre che il notaio possa…”. “Sì, sì, va benissimo. Anzi se venisse per mezzogiorno, il notaio sarà felice d’invitarla a pranzo e potrete visitare la proprietà nel pomeriggio”. Chiusa la comunicazione, rimase come stordito a fissare la lettera e mille pensieri iniziarono a scandagliare la sua memoria. Scavando, risalivano tra le pieghe della sua esistenza comportandosi come un buldozer che apre un varco tra le macerie di una casa. Giuseppina Marrano. La Contessa Giuseppina Marrano. Possibile che non ne avesse mai sentito parlare. Se era mia zia, doveva essere per forza una sorella di mio padre o di mia madre. Scartiamo mio padre che aveva il mio cognome. Resta mia madre. Ma mia mamma non si chiamava Marrano. Perdio, ma chi era questa Giuseppina?, pensava. Tali interrogativi si susseguirono fino a sera. Dopo cena cominciò a riflettere su di un fatto di cui aveva sentito parlare da ragazzo. Qualcuno gli aveva raccontato che la nonna materna aveva avuto una figlia prima di sposare suo nonno. Si vociferava in famiglia di una certa “sorellastra” Pina, la cui figura si era però persa nei meandri dei ricordi. Si addormentò alternando pensieri parentali con quelli testamentari. Il giorno dopo, a mezzogiorno in punto, scendeva dalla sua vettura posteggiata proprio di fronte allo studio del notaio Braida. Un po’ frastornato dal lungo e monotono viaggio in autostrada, si sentì sollevato dall’accoglienza cortese e festosa, come fosse un vecchio conoscente, che gli riservò il notaio. Con fare accogliente, ma molto professionale, dopo aver espletato le formalità necessarie al riconoscimento del cliente, il notaio lo pilotò verso un accogliente locale in riva al lago. Comodamente seduti a un tavolo elegantemente apparecchiato, finalmente arrivò il momento di conoscere il mistero dell’eredità. Giuseppina Marrano era proprio la zia del Conte Zabo. Figlia illegittima, ma riconosciuta di un certo Conte Saverio Marrano, nata a seguito di una relazione di costui con sua nonna, la madre di sua madre, poco prima che questa andasse sposa a suo nonno. Motivi di blasone e di famiglia avevano messo a tacere il fatto, ma non le ramificazioni dell’albero genealogico. Tant’è vero che si era giunti a scovare l’unico erede legittimo che esisteva.

Il biliardo e il vino
Il lascito testamentario consisteva in una casa padronale con annessa cascina e podere tutt’intorno, situati in una piccola località della Val Veddasca, non distante da Maccagno, in prossimità del confine con la Svizzera. Nel primo pomeriggio il Conte Zabo prese visione di ciò che gli aveva lasciato la “zia Giuseppina” e quella fu la prima delle numerose visite che fece alla “sua proprietà acquisita”. Non era niente male quel posto. Soprattutto quella cascina aveva un nonsoché di frivolo, di elegante e di rustico nel medesimo tempo. All’interno, una serie di archi in mattoni a tutto sesto creavano delle pareti lungo tutto il lato nord dell’ambiente. Pareti che delimitavano lo spazio formando angoli particolari che il Conte Zabo trasformò in un’accogliente zona di relax e di lettura. Un biliardo in mezzo alla sala donava alla cascina quell’atmosfera di fine liberty che riceveva luce dal riflesso del verde ben curato del prato all’inglese. Mancava qualche cosa però. Un tocco che il Conte aveva sempre sognato di realizzare e che non era mai riuscito a mettere in pratica nella sua casa: un mobile a rastrelliera, come fosse una libreria, ma che raccogliesse ed esponesse delle preziose bottiglie di vino. Vi era, in particolare in quella cascina, un tratto di parete, delimitata da uno degli archi in mattoni a vista, che sembrava l’ideale per essere ricoperta dal progetto di un elegante mobile a rastrelliera. La temperatura poteva facilmente essere controllata e soprattutto quella parete creava un vano leggermente meno profondo degli altri delimitati dagli archi. Ben presto prese forma un magnifico mobile ad arco che un falegname del posto realizzò in noce e lo fissò alla parete con delle robuste zanche murate. Su questo, un centinaio di bottiglie dei vini e dei produttori più ricercati mostrava le originali etichette che il Conte non lesinava mai di spiegare orgoglioso a tutti coloro che gli facevano visita.

Un boato nella notte
Il Conte Zabo trascorreva sempre più spesso il suo tempo nella cascina dove trascorreva piacevoli momenti con gli amici. Anche in quell’occasione la serata era trascorsa piacevolmente tra liete conversazione e partite a biliardo e il Conte Zabo stava dormendo tranquillo. Verso le quattro, all’improvviso, un boato squassò la quiete, seguì il classico rumore creato dal frantumarsi a terra di bottiglie di vetro. Il Conte balzò sul letto. Il tempo di infilarsi la vestaglia e le pantofole e si precipitò giù dalle scale, quasi inciampando. L’odore acre del vino lo colse subito. Al tenue chiarore della luna intravide lo scempio e, quasi rassegnato, accese la luce. Le bottiglie erano tutte a terra, la maggior parte rotte, e il vino macchiava copioso il tappeto e i divani, mentre la rossa pozzanghera si allargava sul pavimento di maiolica. La rastrelliera di cui andava tanto fiero era riversa in avanti e poggiava un po’ deformata sul verde panno del biliardo. La parete sulla quale era stata ancorata con le zanche murate, non esisteva più: si era sbriciolata quasi del tutto. Il Conte rimase incantato a guardare lo scempio e ci mise un po’ a mettere a fuoco la situazione, soprattutto perché non riusciva a capire la presenza di un altro muro che intravedeva nel buio dietro a quello sbrecciato che, fino a pochi minuti prima, reggeva la rastrelliera. Scansando i cocci di vetro e con le pantofole ormai abbondantemente inzuppate di vino, avanzò verso la parete crollata. Vide qualcosa che lo lasciò tra l’interdetto e lo spaventato. Due corpi mummificati giacevano seduti a terra. Sotto un velo di polvere, si intravedevano ancora i loro vestiti. Uno dei corpi indossava delle scarpe evidenti da donna. Non se la sentì di proseguire oltre. Quasi meccanicamente si spostò verso il tavolino divenuto grigio dalla polvere dei calcinacci sul quale era posato il telefono. Compose il numero delle Guardie Cantonali e si sorprese dall’essere imbarazzato nello spiegare cosa era accaduto e soprattutto cosa aveva trovato. Alle prime luci dell’alba arrivò il Sostituto Procuratore, poi via via arrivarono quelli della Scientifica, il fotografo, altre Guardie ancora e verso la tarda mattinata i cronisti delle testate locali e gli operatori della TV. Alla fine arrivarono gli operatori comunali a trasportare all’obitorio le due mummie.

Il mistero delle mummie
La cascina del Conte Zabo divenne un caso pieno di incognite. Se ne impadronirono i giornali e le televisioni, ma non si riuscì a fare luce sul mistero delle due mummie. Il Conte Zabo però non si dette pace e andò a raccogliere tutte le voci che circolavano. Scoprì così che la Contessa, “sua zia” Giuseppina, aiutò, durante la Seconda guerra mondiale, diverse persone a raggiungere il vicino confine svizzero e che ospitò in casa un giovane perseguitato politico di cui non si seppe più nulla a guerra finita. Altre voci parlavano di una non meglio definita tresca amorosa nata tra il giovane ospite e una ragazza bionda che si nascondeva in Svizzera. Erano anni terribili e sembra che il Conte Marrano fosse un misterioso agente di un non precisato schieramento. Sta di fatto che il nome dei due corpi non si è mai saputo. Non si è saputo chi fossero; come e perché fossero stati murati dietro una parete abilmente dissimulata e soprattutto da chi, visto che la Contessa Giuseppina, sicuramente non sarebbe stata mai in grado di improvvisarsi “muratore”. Dunque c’entravano anche altre persone, ma quali e in che maniera coinvolte non fu mai dato sapere. Al Conte Zabo non rimase altro che leccarsi le ferite e constatare quale pericolo avesse corso con la possibilità di venire travolto da un muro tirato su alla bene e meglio per nascondere due cadaveri. Un muro debole abbattuto dal peso di un mobile che si ancorava a lui per reggere ed esporre quel ben di Dio di una preziosa rassegna enologica.

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