Da secoli i costumi tradizionali sono una testimonianza preziosa di determinati paesaggi e di precise comunità, esprimendone la cultura e le tradizioni, riflettendone l’identità unica e andando ben oltre al semplice aspetto estetico. Per tutte indossarli non è soltanto un momento folcloristico, bensì un modo di perpetuare l’appartenenza a una storia, di tenere stretto il legame con le generazioni che le hanno precedute, di preservare e celebrare le radici culturali. Il gioco e la scelta dei colori, l’accostamento dei tessuti, dei ricami, delle decorazioni, l’intersecarsi di linee, pieghe, pizzi e frange costituiscono una forma d’arte che rappresenta l’espressione di una sensibilità particolare ed un sistema di segni nel quale si riconosce e si identifica ogni piccolo paese. Quello femminile dei pittoreschi abitati di Vele e Male Mune e di Žejane (Seiane), frazioni del Comune di Mattuglie, non fanno eccezione.
A raccontarcelo, portandoci direttamente sul campo e facendocelo letteralmente “toccare con mano”, è stato Robert Doričić (lu Ovčarić/Doričićev), professore assistente presso le Facoltà di Medicina e di Studi sanitari dell’Università di Fiume, nonché già presidente dell’ex associazione “Žejane” e membro attivo delle Cattedre del Sabor ciacavo di Laurana e di Draga di Moschiena, come pure dell’Ecomuseo di Draga di Moschiena e del Centro genealogico del Castuano e della Liburnia. Studioso e appassionato alla storia locale, all’etnografia del luogo e alla lingua seianese (una variante di quella nota in linguistica quale istrorumena), ci ha fatto presente che in merito la letteratura non manca, a iniziare dalle importanti ricerche effettuate in loco tra il 1948 e il 1954 dall’etnologa Jelka Radauš Ribarić riversate nel manuale “Il costume popolare femminile in Istria” e riprese nel lavoro di dottorato “Il costume popolare femminile a Vele e Male Mune e a Seiane dalle ricerche di Jelka Radauš Ribarić a oggi” di Tomislav Augustinčić (inserito nella raccolta di opere “Mune e Seiane a Makso Peloza” a cura di Robert Doričić). Da rilevare anche lo scritto “Coprire per mostrare” del docente di tradizioni popolari ed etnomusica presso la Facoltà di magistero dell’Università di Trieste, Roberto Starec, le memorie lasciate da Franjo Matetić, nativo del paese di Zvoneća e molti altri. In concomitanza con il succitato contesto, Doričić ha rilevato che “i primi tratteggi del costume popolare femminile dei tre villaggi risalgono alla seconda metà del XIX secolo, nell’ambito degli studi relativi alla lingua seianese”, specificando che “nel 1856 arrivò in paese uno scrittore/linguista di viaggio che, tra le altre cose, descrisse Žejane e l’abbigliamento tradizionale delle seianesi fino nei dettagli. Leggendolo, è facilmente intuibile che lo stesso è cambiato nel tempo (ad esempio il copricapo, ‘facol’, era inizialmente bianco anziché rosso) e che, con l’inizio del XX secolo, cominciò a essere sempre meno indossato nella vita quotidiana e vestito solamente in occasione delle festività, di natura privata o religiosa. Le loro proprietarie avevano con lo stesso un rapporto molto speciale, di forte attaccamento sentimentale e ne è dimostrazione il fatto che sceglievano di vestirlo anche per lasciare questa vita. In tale contesto ricordo un caso risalente agli anni ’90 dello scorso secolo. Addirittura sulle lapidi del cimiterio di Mune e Žejane vi sono moltissime foto riportanti le defunte con addosso il costume tradizionale: vi si può osservare il fazzoletto, il ‘firtuh’ e altri”. Dalle immagini che Robert ci ha indicato e fornito in visione, dapprima sulle tombe del camposando di Mune e Žejane e in seguito sulle bellissime fotografie della sua collezione, come pure sulle due bambole mostrateci da sua mamma, bene in vista nella cucina della loro casa di Žejane, notiamo che l’abito tradizionale delle donne dei tre villaggi è costituito da una miriade di elementi, in una perfetta coesistenza di strati.
Un passato sentito e stratificato
A detta dell’esperto la parte superiore del costume femminile di Mune e Seiane consisteva in un lungo camicione bianco (‘vrhnje’) sopra il quale se ne indossava un altro (‘opleće’), la cui versione originaria si chiudeva per mezzo di lacci e vantava una cucitura rosa o rossa, a differenza di quella più moderna, in cui sono stati tolti. Quella inferiore era caratterizzata da una sottoveste (‘kotula’) stretta alla vita, suddivisa in più strati, ampiamente plissettata al fine di creare un volume importante. La plissettatura si raggiungeva facendo attraversare e stringere un filo sulla cintura teso a raccogliere riccamente il materiale, nonché facendola riposare in acqua e pressare sotto un carico pesante, sotto il quale giaceva per svariato tempo, a volte addirittura per un anno intero. Dal momento in cui i tessuti cominciarono a venir acquistati un elemento fondamentale dell’abito divenne una specie di tunica nera, senza maniche, detta ‘počrnjenka’, il cui materiale e la lunghezza sono variati nel tempo. Nella versione antica, detta ‘modrina’, la stessa si presentava in stoffa, fino alle caviglie, con un’orlatura in alternanza rossa e gialla. Quella più recente, molto più corta, è invece in cotone. Entrambe, come accennato, si sfoggiavano durante le festività, soprattutto quelle religiose e nelle processioni del Corpus domini. I motivi principali erano rappresentati dal grembiule (‘firtuh’) e dal copricapo (‘facol’). Per ciò che concerne il primo, fino alla Prima guerra mondiale si vestiva quotidianamente per svolgere le faccende di casa, nello specifico per cucinare e non presentava decorazioni particolari, mentre a seguire divenne un capo tramite il quale si trasmetteva il prorpio status. Ad esempio, quando la donna era in lutto il ‘firtuh’ era di colore nero, mentre in altre occasioni, nello specifico quelle cerimoniali, sullo stesso si poteva ammirare un’esplosione di colori e motivi floreali, pizzi e una meravigliosa ricchezza di altri dettagli. “In famiglia custodiamo quello indossato dalla mia bisnonna in occasione del suo matrimonio”, ha rimarcato. Sotto il grembiule, le donne erano solite mettersi una larga cintura di lana intessuta, detta ‘kanica’ ricoperta da una fascia detta ‘cota’, di colore rosso e giallo. Sulla ‘počrnjenka’ si sovrapponevano, a strati, il grembiule e quest’ultima, i cui nastri tradizionalmente raggiungevano i due metri, ed erano tesi a mascherare quello del ‘firtuh’. Per ciò che concerne il ‘facol’, in antichità veniva portato durante la giornata lavorativa e si presentava di colore bianco. Più tardi lo si cambiò con quello colorato, fondamentalmente rosso con le frange, le quali venivano cucite manualmente dalle proprietarie. Lo si legava dietro alla nuca e, in tempi più recenti, le ragazze più giovani lo toglievano alla fine delle cerimonie per mettere in mostra le loro acconciature. Dai documenti etnografici studiati si viene a sapere che venivano regalati ai parenti più vicini o a persone particolarmente care alla famiglia in occasione dei matrimoni, da cui si desume che, oltreché identitario e patrimoniale, aveva un valore sentimentale. Così è anche per il mio, regalatomi dalla defunta zia Maria, che dopo il Secondo conflitto mondiale per lungo tempo visse a Bari. Presumo che l’abbia ereditato dalla mia bisnonna Polina che, come la maggioranza di quelli conservati dai seianesi e dai munesi, sia stato acquistato a Vienna o in qualche altra città austriaca. Ciò era legato al fatto che, dalla seconda metà del XVIII secolo, grazie a un decreto emanato dall’imperatrice Maria Teresa, gli abitanti di Seiane, Vele e Male Mune percorrevano l’impero austriaco, in seguito austrungarico, vendendo aceto di casa in casa. Durante la permanenza in quei territori acquistavano i copricapo e, al rientro in paese, li regalavano alle loro mogli e figlie, le quali vi aggiungevano gli ornamenti, facendoli diventare elementi del costume popolare locale a tutti gli effetti. A completamento del costume popolare, le donne indossavano delle calze in lana bianca o, nella versione più moderna, dei collant color pelle e ai piedi un paio di ‘opinč’ o, più recentemente, delle scarpe basse”.
Valorizzazione
Dai racconti di Robert Doričić inerenti al costume popolare tramandato da oltre cent’anni in famiglia e in generale a quelli delle seianesi e munesi, veniamo a sapere che lo stesso oggidì viene omaggiato e ricordato in svariate occasioni, sia privatamente che collettivamente. Oltre alle sunnominate sfilate e cerimonie, lo si può trovare in qualità di souvenir tradotti in cartoline, fotografie, disegni, bamboline. In tale contesto abbiamo avuto modo di ammirare i suoi album privati, nei quali l’abito tradizionale viene orgogliosamente indossato dalla sua bisnonna, dalle cugine, dalla mamma in un intreccio di vite, storie e legami. Le fotografie, ha tenuto nuovamente a specificare, sono importantissime, in quanto gran parte del patrimonio tradotto in abiti è andato perduto con la distruzione dei tre villaggi nel 1944. A farci simpatia sono state le bamboline custodite dalla famiglia Doričić, una a mo’ dei souvenir che tempi addietro venivano venduti a scopi turistici e l’altra quale pezzo unico. “La prima è stata creata dalla defunta seianese Ana Legac, un’insegnante di lingua inglese la quale, andando in pensione, cominciò a realizzarle su modello del costume tradizionale. L’abitino della seconda è stato imbastito da Luciano, il defunto fratello di mio padre, molto attivo nell’associazione folcloristica locale, basandosi su quello che portava mia nonna”, ci ha ancora riferito. Infine, ha spiegato, l’abito tradizionale ha assunto un ruolo fondamentale, ma di natura più turistico/commerciale anche nell’ambito carnascialesco, nello specifico durante le sfilate degli scampanatori, specificando anche che “a Žejane opera un’associazione folcloristica di natura artistico-culturale, che si esprime attraverso canti e balli tradizionali durante i quali i costumi vengono adeguatamente presentati. Inoltre vorrei ricordare anche un’occasione speciale, ovvero il matrimonio di Umberto I di Savoia negi anni ’30 dello scorso secolo, in cui una delegazione di Mune e Žejane, guidata da un rappresentante del paese sloveno di Podgrad, di cui all’epoca i Comuni facevano parte, furono invitati a Roma a rappresentare il territorio. In una delle fotografie della mia collezione è chiaramente visibile nello sfondo Castel Sant’Angelo. Infine, non bisogna dimenticare la figura del sacerdote e storico Makso Peloza, nato a Vele Mune, che ha svolto un ruolo fondamentale per la salvaguardia del patrimonio culturale locale e, nello specifico, per quella del costume popolare femminile. Infatti, resosi conto che in seguito alla distruzione dei villaggi ne erano rimasti pochi e consapevole del loro significato per la comunità locale, cominciò a prodigarsi in svariati modi per valorizzarli, raccontarli e documentarli. Nonostante fosse un periodo difficile e le persone dovevano affrontare importanti problematiche esistenziali, a sua detta era necessario redigere uno scritto e, in tale contesto, contattò l’etnologa Jelka Radauš Ribarić, la quale scrisse la sua importante monografia.Oggi questo patrimonio viene ripreso anche dai più piccoli: non molto tempo fa la collega Adrijana Gabriš ha realizzato insieme al gruppo di pargoli che frequentava la ludoteca “Žejančići” una serie di cartoline riportanti i motivi degli abiti. Per concludere, nel mio piccolo, continuerò a portare avanti svariati progetti tesi al mantenimento delle nostre tradizioni e della lingua, in seno ai quali non mancherò mai di parlarne, di raccontarli e di descriverli”.
Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.
L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.