CNI, un ruolo nel segno dell’eccellenza svolto a beneficio di tutti

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CNI, un ruolo nel segno dell’eccellenza svolto a beneficio di tutti

Si avvicinano le elezioni politiche in Slovenia e sta pertanto per concludersi il mandato parlamentare di Roberto Battelli, per lunghi anni, anzi per decenni, deputato al seggio specifico della Comunità nazionale italiana alla Camera di Stato. È stato egli stesso a decidere che fosse giunto il momento di ritirarsi. Forse Battelli deciderà di dedicarsi ancora alla politica. Staremo a vedere. Dopo una carriera così ricca di successi, comunque, vale la pena di volgere un attimo lo sguardo indietro e fare un po’ il punto sulle esperienze accumulate. Riflessioni che sicuramente possono essere preziose per la CNI nel suo insieme.

La sua è stata una carriera parlamentare di prim’ordine, caratterizzata da tanti successi. A conclusione del suo ultimo mandato alla Camera di Stato del Parlamento sloveno qual è il suo stato d’animo? Come è arrivato alla conclusione che fosse giunto il momento di dire addio al seggio di deputato della CNI?

Ho preso la decisione di non ricandidarmi in tutta serenità. Ventotto anni e 8 mandati consecutivi sono tanti. In tutto questo tempo ho cercato di dare compiutezza a parte di un percorso che spero non si concluda mai, partendo dal posizionamento delle Comunità nazionali autoctone e dei loro diritti nella Costituzione della Slovenia indipendente e passando al trasferimento – il più fedele e completo possibile – delle norme costituzionali e internazionali nel sistema giuridico e istituendo infine alcuni meccanismi di controllo sull’attuazione della tutela. In tutto – dice la statistica – in questo momento in Slovenia sono oltre 200 gli atti giuridici che riguardano direttamente o contengono norme che si riferiscono alle minoranze. Voglio ricordare che a partire dal 1990 l’intero impianto politico, giuridico e istituzionale del Paese è stato trasformato, riscritto in tutte le sue espressioni e si sta via via trasformando costantemente, come è normale che sia. Problematica è semmai la direzione del cambiamento… Comunque all’inizio è stato necessario far riconoscere il gruppo parlamentare per poter essere rappresentati nel Collegio del presidente e poter godere delle importanti prerogative che i gruppi hanno nel sistema dell’Assemblea Nazionale, ottenere di poter scegliere di quali Commissioni, Comitati o organizzazioni parlamentari internazionali far parte, nonché mantenere la Commissione per le comunità nazionali autoctone che già esisteva nel precedente ordinamento, come i seggi specifici del resto. Quest’impianto, con qualche miglioramento, esiste tutt’ora e spero possa rappresentare una buona base per l’inizio dell’attività del mio successore.

Un’esperienza preziosa

Nel momento dell’addio è il caso di ricordare i suoi inizi professionali che sono legati anche al nostro quotidiano, La Voce del popolo. L’esperienza giornalistica nella redazione capodistriana del giornale della CNI le è tornata utile nella sua attività politica? Possiamo dire che è stata una sorta di trampolino di lancio?

Assolutamente sì. Erano gli ultimi Anni 80, critici, ma pieni di fermenti del cambiamento democratico che peraltro condividevo anche, forse soprattutto nell’ottica delle opportunità d’emancipazione che ero convinto si potessero aprire per la CNI con l’avvento della democrazia in una società autenticamente fondata sui diritti umani e sui valori europei. Era quella l’unica possibile via d’uscita dalla crisi economica, politica e istituzionale in cui era sprofondato il sistema jugoslavo. Entrò in crisi anche TV Capodistria dove ero capoturno dei telegiornali e dove, come i colleghi, facevo molte altre cose poiché bisognava riempire con i più disparati contenuti le fasce di programma, per non perderle. Assistevo quotidianamente alla dissoluzione del sistema e ne davo notizia, ma non si capiva più bene a chi ci si rivolgesse, non c’era riscontro. Così, quando si liberò il posto di corrispondente de “La Voce del popolo” per il Capodistriano, feci domanda e venni assunto. Ero libero, padrone di me stesso. Seguivo, oltre alla cronaca e agli avvenimenti quotidiani, i problemi della CNI, i movimenti di dissenso, la nascita dei partiti, Gruppo 88, le manifestazioni a Lubiana… E la gente leggeva. Quando fui nominato presidente dell’Associazione costiero-carsica dei giornalisti, instaurai i contatti con il Sindacato dei giornalisti dell’FVG e insieme organizzammo a Capodistria un convegno sulla libertà di stampa. Qualche tempo dopo promossi la fondazione del Sindacato indipendente dei giornalisti della Slovenia: i soliti infiltrati se ne impadronirono immediatamente, soffocandolo. Pare esista ancora. In virtù della mia posizione nell’Associazione giornalisti ero anche membro del Giurì d’Onore. Ricordo bene due casi. Il primo riguardava un signore smilzo e occhialuto dall’aspetto dimesso, con un vestito molto liso e i sandali. Aveva scritto, e gli era stata pubblicata dal “Delo”, una lettera in cui criticava il fatto che la stessa persona fosse contemporaneamente redattore responsabile di quello stesso giornale e insieme responsabile per la stampa dell’Alleanza socialista, cinghia di trasmissione del Partito con la “società civile“, e responsabile della stampa presso il Comitato centrale del partito. Gli demmo ragione. Quel signore dimesso era Matevž Krivic, che divenne giudice della Corte costituzionale e che, in quella veste, votò sempre a nostro favore nelle numerose cause che hanno riguardato i diritti minoritari. L’altro caso riguardava un’accesa disputa interna al giornale satirico Pavliha tra un tale Mikeln, redattore, e un tale Novak, geniale fustigatore delle scempiaggini e delle ipocrisie del regime. Non si arrivò al voto. La seduta fu sospesa, di lì a poco Pavliha divenne piatto e insulso. Smise di uscire. Qualcuno potrebbe farci una tesi di dottorato sulla vicenda di quel Pavliha. Mi sia concessa un’ultima rievocazione: nel 2005 o giù di lì, tutti noi parlamentari ricevemmo un biglietto omaggio per il film di Clooney “Good night and good luck” tratto da una storia vera, ambientata nel periodo del Maccartismo negli USA, quando il perfido capo dell’omonima Commissione d’inchiesta usò i metodi stalinisti per illustrarne la perversione e, facendo così, distrusse effettivamente la vita di molte persone. Lo stesso inarrivabile Chaplin decise di abbandonare gli Stati Uniti e di non tornarci mai più. A fine proiezione ci fu un dibattito sulla soppressione della libertà di stampa in Slovenia, cosa che non sussisteva. All’uscita era evidente l’imbarazzo del pubblico che, per quanto cercasse d’identificarsi con le vittime dell’oppresssione, non ce la faceva proprio. La propaganda aveva sbagliato film e rivelato la sua essenza: distogliere l’attenzione dalla realtà. Per quanto mi riguarda, in fondo in fondo, sono sempre rimasto un giornalista. Devo tantissimo a quell’esperienza.

La passione al primo posto

Per il “mestiere” di deputato serve talento, passione politica, oppure è anche un qualcosa che s’impara faticosamente giorno dopo giorno, specie all’inizio?

Metto la passione al primo posto, al secondo l’esperienza che, appunto, si acquisisce. Del resto, esistono due tipi di politici: quelli che usano la gente per i propri fini e quelli il cui fine è cercare di fare del bene per la gente. C’è poi anche chi persegue appassionatamente il proprio tornaconto. È essenziale che siano assicurate le condizioni che consentano agli individui, ai cittadini, di fare la propria scelta tra gli uni e gli altri in piena libertà. Il ruolo dei media è cruciale.

La posizione delle minoranze

Nei primi anni dopo la conquista dell’indipendenza della Slovenia qual era il clima che si respirava nel Parlamento di Lubiana? Come rappresentante italiano aveva incontrato chiusure, incomprensioni, difficoltà?

Vi sono state due fasi: quella precedente al riconoscimento e quella immediatamente successiva. La prima è stata favorevole per noi dal punto di vista legislativo. La politica slovena era consapevole del fatto che un atteggiamento positivo nei confronti delle minoranze autoctone, dati anche i “diritti acquisiti”, costava ben poco rispetto ai benefici che sarebbero derivati sulla via del riconoscimento internazionale e dell’accesso soprattutto al Consiglio d’Europa, del quale la Jugoslavia non aveva mai fatto parte così come non aveva aderito, nel 1948, insieme all’intero blocco sovietico, alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, collocandosi così dalla parte sbagliata della Storia. Già le riforme costituzionali dell’89 avevano girato il timone nella giusta direzione introducendo il pluralismo partitico e ora l’opera andava completata. Ben presto iniziò il lavoro sulla riforma sia della Costituzione slovena che di quella federale jugoslava. Bisognava preparare il terreno per un’adeguata tutela costituzionale delle minoranze autoctone e, nella veste di presidente della Commissione per le nazionalità, preparai, insieme con l’allora segretario della Commissione, un’Informazione sulla posizione delle Comunità nazionali autoctone italiana e ungherese con le relative conclusioni da presentare alle Camere separatamente e in seduta congiunta. Le decisioni, approvate tra l’11 e il 13 dicembre del 1990 – le elezioni si svolsero nell’aprile del ‘90 –, prevedevano: 1. La tutela dei diritti acquisiti come base di partenza per l’ulteriore emancipazione della posizione delle minoranze; 2. Il mantenimento degli impegni in materia di tutela delle minoranze previsti dai Trattati internazionali e la stipulazione in tempi brevi di un accordo con la Croazia per la salvaguardia dell’unitarietà della CNI e 3. L’impegno della Slovenia a partecipare alla stesura, sottoscrivere e ratificare i documenti internazionali di tutela delle minoranze – Consiglio d’Europa, CSCE ovvero in seguito OSCE, Nazioni Unite ed altre rilevanti organizzazioni internazionali –. Erano infatti già nell’aria le avvisaglie della carneficina interetnica jugoslava. La decisione al punto 2, sull’unitarietà, mi consentì di inserire nell’articolo 64 della Costituzione il diritto ai legami con il popolo d’appartenenza oltre che con l’Italia come Nazione d’origine, e di redigere e proporre più tardi l’ossatura del Memorandum trilaterale che suscitò polemiche all’inizio, ma che consentì da una parte di giungere al Trattato Italo-Croato sulla tutela delle minoranze con l’implicita estensione della tutela prevista dallo Statuto speciale a tutto il territorio in cui in Croazia è riconosciuta la minoranza italiana e dall’altra, di ottenere che la Slovenia non smettesse di finanziare le istituzioni comuni con sede in Croazia, UI compresa, fino a consentirne la registrazione nell’agosto del 1998 alla vigilia dell’iter d’approvazione della legge di tutela “globale” della minoranza slovena in Italia. Ma qui siamo nella seconda fase, più negativa per noi, caratterizzata dalla presenza ricattatoria nel governo Drnovšek del Partito popolare, xenofobo e antieuropeo, paladino della difesa del sacro suolo della patria dall’acquisto di immobili da parte dello straniero, leggi il perfido italiano. In realtà non si poteva aprire il corrispondente capitolo dell’acquis europeo senza togliere dalla Costituzione il divieto per gli stranieri, quindi anche per i cittadini europei, di possedere immobili in Slovenia. Reo di averlo detto apertamente, il premier Drnovšek dovette affrontare l’impeachment che fu respinto per pochi voti. Insomma a partire dal 1992 si creò un gran guazzabuglio su una riforma ovvia, tra “compromessi spagnoli”, fascismi, revisionismi storici, ritorni alla madrepatria, quinte colonne, snazionalizzazioni, gonfiamenti di petti, campagne di propaganda psicologica con tutti i media che propagavano contemporaneamente le stesse falsità ed esagerazioni e pubblicavano all’uopo lettere deliranti di lettori e sedicenti pubblicisti, il tutto principalmente rivolto contro l’Italia e gli italiani, CNI compresa, ovviamente. Antica ricetta usata da molti, ma connaturata in particolare ai regimi totalitari e autoritari dove il nemico esterno, vero o presunto, consentiva di mascherare non solo le contraddizioni, ma spesso anche le nefandezze interne. Con in più l’uso inflativo della tecnica portata alla perfezione dallo stalinismo e che consiste nell’accusare gli altri di perpetrare, aver perpetrato o voler perpetrare i crimini e le ignominie che stai perpetrando. Comunque sia, i moniti, i messaggi ostili più o meno subliminali, le minacce più o meno aperte ci hanno sempre accompagnato, così come gli atteggiamenti sprezzanti o di sufficienza nei confronti dei nostri reali problemi, atteggiamenti che sono fomentati proprio da coloro che creano quei problemi. Tutte cose assolutamente sproporzionate rispetto alla nostra indole e reale consistenza. È un’attitudine ereditata dal processo di disumanizzazione messo in opera per provocare l’esodo che, nella porzione slovena della Zona B, ha portato alla sostituzione forzata della quasi totalità della popolazione: 27mila italiani, secondo fonti slovene, nell’arco di una dozzina d’anni, dal ‘45 in poi, ma specie dopo il ‘54. Nel 1957 il Liceo italiano di Pirano aveva una sola studentessa, quello di Capodistria ne aveva tre, tanto per rendere l’idea. Un tale risultato non si sarebbe mai potuto perseguire e ottenere in un sistema democratico. Secondo l’ultimo presidente della presidenza della RS di Slovenia, Janez Stanovnik, il totalitarismo stalinista venne mantenuto ed esercitato ancora per 15 anni dopo la guerra. Vennero così vanificate nella sostanza le disposizioni dello Statuto Speciale annesso al Memorandum di Londra, poiché venne praticamente eliminato il soggetto, il gruppo etnico italiano, a tutela del quale quelle disposizioni erano destinate; e qui ci troviamo al cospetto dell’apoteosi dell’esercizio dell’arbitrio. Nel dire queste cose non sono mosso da risentimenti o rancore, ma dalla convinzione che il futuro di tutti possa e debba essere costruito su ben altri presupposti. Se la legittimazione di quell’approccio da parte della politica slovena, dello Stato sloveno, vale per noi, sappiano i cittadini sloveni che in ogni momento potrebbe valere lo stesso per loro. Capiscano finalmente che sotto questo punto di vista non c’è differenza tra “noi” e “loro”.

Prassi totalitarie

Lei ha vissuto in prima persona, potremmo dire da protagonista o da osservatore privilegiato, il periodo della transizione dal totalitarismo alla democrazia in Slovenia: qual è la sua impressione a proposito? Si è riusciti a compiere il grande passo, o molti sono ancora legati mentalmente al socialismo anche se a parole professano l’attaccamento ai valori occidentali?

Il problema dei totalitarismi consiste anche nel fatto che le loro conseguenze negative si fanno sentire a lungo. Alla caduta del muro molti analisti furono dell’opinione che le transizioni sarebbero durate almeno due generazioni, se si fosse lavorato bene. L’abbandono delle prassi totalitarie implica in primis la separazione dei poteri, la riforma della sicurezza, quindi delle Forze armate, della polizia, dei servizi – a proposito, che fine hanno fatto le schiere di agenti, informatori, delatori e quant’altro, dove sono, cosa fanno? – della giustizia, del sistema economico, del sistema scolastico e via dicendo… Tutto ciò incide su interessi e rapporti ben consolidati che tendono a mantenersi anche nelle mutate condizioni prendendo la “forma” di ciò che nella domanda è definito come “valori occidentali”, ma mantenendo la sostanza del privilegio e dell’impunità real-socialisti. Le élite che “concessero” la democrazia si sentono minacciate e offese, non intendono ovviamente accettare di essere vissute invano e tendono, avendo più esperienza dei nuovi venuti, a riprodursi nel sistema economico-finanziario, nella giustizia e nei media: quanto basta a riempire di sé il Parlamento, ma non ad affrontare e risolvere i problemi, a garantire un futuro, il più sicuro possibile, per le giovani generazioni, usando in primis le straordinarie opportunità offerte dall’integrazione europea e imparando a dare il proprio contributo al suo perfezionamento. La Slovenia si trova da anni ripiegata su sé stessa non tanto per la crisi economico-finanziaria del 2008 quanto per le conseguenze delle malversazioni bancarie. I 5 miliardi di euro di debito scaricati sulle spalle dei contribuenti per sanare le banche avrebbero potuto essere, se proprio necessario, usati molto meglio. La metà della crescita economica della Slovenia, che è dovuta al fatto che negli ultimi anni dopo la crisi specie l’industria automobilistica tedesca ha ripreso a importare i prodotti sloveni e che non è il risultato delle necessarie riforme interne, viene vanificata dal pagamento degli interessi sul debito.

Il lupo perde il pelo…

Il centrosinistra ha spesso cambiato pelle a Lubiana, è riuscito a tirare fuori dal cappello personaggi nuovi, rivelatisi vincenti, anche se a volte si è trattato di meteore. A queste elezioni sarà la volta di Šarec a fare le veci della sinistra tradizionale?

Le facce nuove sono il pelo, il “centrosinistra” il lupo. Dal 2011 in poi abbiamo avuto due elezioni anticipate: quelle di domenica prossima, almeno formalmente, sono anch’esse anticipate. In questo periodo si sono succeduti 4 governi. Dal 2008 in poi tutti gli appuntamenti elettorali hanno coinciso con le fasi di decorso del caso Patria contro il leader del Partito democratico sloveno, Janez Janša, fino alla sua incarcerazione nel 2014, a meno di un mese dalle elezioni. Dopo sei mesi la Corte costituzionale sospese l’esecuzione della pena in attesa di una decisione definitiva sul caso, ma la maggioranza parlamentare, con una decisione politica senza fondamento giuridico, tolse a Janša il mandato. Successivamente la Corte costituzionale annullò la condanna poiché il fatto non sussisteva. Anche le accuse mosse contro Janša dalla Commissione per la lotta contro la corruzione, che provocarono la caduta del suo governo nel 2013, vennero respinte dalla Corte d’appello, ma il danno ormai era fatto, il monito chiaro. Di Janša ognuno può avere l’opinione che vuole, ma anche del funzionamento della macchina della giustizia ordinaria non si può avere che la peggiore delle opinioni. Anche per questo è difficile prevedere ciò che avverrà domenica prossima e nei giorni successivi. Gli esperti della propaganda psicologica, della manipolazione, dell’intimidazione, della persecuzione, dell’indottrinamento – tutte queste professionalità addestrate a operare contro i propri concittadini – escogiteranno qualcosa fino a domenica? E cosa faranno se dovesse vincere l’attuale opposizione? L’esperienza insegna che è difficile fare previsioni in merito.

La scena politica slovena è tradizionalmente divisa tra “rossi” e “bianchi”. Si è riusciti a compiere passi decisivi verso la riconciliazione nazionale, o destra e sinistra sono ancora schiave delle contrapposizioni del passato?

Recentemente il Presidente Pahor ha ospitato i discendenti rimasti di una famiglia della quale ben 11 membri, compresi i bambini, le donne e i vecchi, vennero trucidati nel 1942 dai partigiani. Encomiabile gesto sul quale però aleggia sinistro il sospetto che si sia trattato più di una “riabilitazione” delle vittime che non della condanna dei carnefici. Quell’eccidio, come tanti altri purtroppo, ha più, se non del tutto, il sinistro carattere della ferocia rivoluzionaria bolscevica che non della legittima guerra di liberazione di un popolo dall’occupatore straniero. Neanche l’inaugurazione del monumento alla Riconciliazione nel centro di Lubiana, qualche tempo fa, disertata da molti, sembra aver sortito gli effetti desiderati. Tra l’altro quel monumento, pur imponente, ha la strana proprietà di non essere notato quando ci passi accanto, o meglio sotto. È anonimo. Eppoi quand’è che sarà onorato, in occasione di quali ricorrenze, di quali eventi? Mi pare che ancora non si sappia. D’altra parte, negli ultimi tempi, vi è in Slovenia un’ostentazione della simbologia comunista che non ho incontrato in nessuno, ma proprio nessuno dei Paesi dell’Est europeo o dei Balcani Occidentali nei quali mi sono frequentemente recato per lavoro. Evidentemente dalle nostre parti si trascura il fatto che l’opposto del fascismo non è il comunismo, ma la democrazia.

Carriera di successo nell’OSCE

Nell’ambito della sua carriera non può essere certamente scordato il suo ruolo nell’Assemblea parlamentare dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa. Cosa ci può dire delle sue missioni nel contesto dell’OSCE? C’è qualche curiosità di cui si ricorda con piacere o forse con preoccupazione?

La nascita dell’Assemblea Parlamentare dell’OSCE viene sancita dalla Carta di Parigi nel 1990. La promozione della dimensione parlamentare divenne cruciale dopo la caduta del muro anche se l’OSCE rimase ed è tutt’ora un’organizzazione intergovernativa che decide con la regola del consenso. Venni proposto come capo della delegazione – tre membri – in sede di Commissione esteri, della quale facevamo entrambi parte, dall’ormai scomparso Peter Bekeš che divenne poi Ambasciatore a Zagabria e Roma. Insomma ai primi di luglio del 1992, presi in consegna una Golf di servizio del Parlamento e partii con i colleghi e la segretaria alla volta di Budapest dove si svolgeva la seduta dell’Assemblea. Uno dei temi principali dei lavori fu ovviamente la guerra nell’ex Jugoslavia che dalla Croazia si era già allargata alla Bosnia. Nel 1994 partecipai per la prima volta a una missione di monitoraggio delle elezioni, in Macedonia. Da allora ne avrò fatte una trentina, penso, 12 delle quali come capo-missione, ovvero come Coordinatore Speciale della missione cosiddetta di breve termine, quella che produce il rapporto preliminare che viene presentato all’indomani del voto. Alla stesura del rapporto partecipano l’Ufficio dell’OSCE per i Diritti Umani e le Istituzioni Democratiche, i cui esperti sono presenti nel Paese “monitorato” per almeno un mese e i capi delegazione delle altre assemblee interparlamentari come quelle del Consiglio d’Europa e della NATO o anche a volte del Parlamento Europeo. Per l’Assemblea parlamentare dell’OSCE sono stato per alcuni anni membro del gruppo di lavoro per il cosiddetto “conflitto congelato” della Moldova, tesoriere per i tre mandati consentiti dal regolamento e sono relatore per il Sud Est europeo ovvero per i Balcani Occidentali – i Paesi dell’ex Jugoslavia che non sono membri dell’UE più l’Albania – dal 2006 e, dal 2015, uno dei 7 vicepresidenti dell’Assemblea con mandato triennale, il più lungo possibile dato l’alto numero di voti con i quali venni eletto alla sessione annuale di Helsinki. Negli anni ho presentato in approvazione all’Assemblea una decina di risoluzioni riguardanti la sfera dei diritti umani e del consolidamento delle istituzioni democratiche, nonché le problematiche inerenti i Balcani, decine di emendamenti alle altre risoluzioni e le relazioni relative ai miei ruoli in sede plenaria, di Comitato direttivo, che raccoglie i capi delegazione, e dell’Ufficio di presidenza, che raccoglie tutti i funzionari eletti. Elenco queste cose per esprimere la mia profonda gratitudine all’Assemblea dell’OSCE, che mi ha letteralmente formato, dandomi la possibilità di confrontarmi con realtà spesso drammatiche e tragiche, ma anche con storie di successo. Una vera lezione di vita.

Ottimi i rapporti bilaterali

La Slovenia come vede l’Italia e i rapporti storici nell’Adriatico orientale? Vi è stata un’evoluzione nel modo in cui si guarda alla storia dei rapporti interetnici nel Litorale?

I rapporti tra i due Paesi sono ottimi; l’Italia rimane il secondo partner commerciale della Slovenia; non mi risulta che esistano questioni aperte di qualche rilievo tra Lubiana e Roma. Di altissimo livello anche la cooperazione nel campo militare e della sicurezza. Personalmante auspicherei, da parte delle autonomie locali slovene dell’Istria, una più fattiva collaborazione in tutti i campi con Trieste e gli altri comuni limitrofi dell’FVG, come pure con i comuni limitrofi istriani della Croazia. Il fatto che non vi siano animosità tra le popolazioni istriane lungo il confine sloveno-croato è un chiaro segnale alle due capitali che tutte le questioni devono e possono essere risolte attraverso il dialogo, in uno spirito costruttivo. A proposito della collaborazione e degli scambi soprattutto culturali, ma anche in altri settori, tra le tre realtà confinarie, devo sottolineare l’eccellenza del ruolo svolto quasi quotidianamente dalla CNI a beneficio di tutti. Sono rari gli esempi di un così efficiente uso di risorse pubbliche.

Per decenni lei si è battuto per i diritti della CNI. Come le appare globalmente il quadro ora? Cosa lascia metaforicamente in eredità al suo successore?

Francamente, questa è una domanda da rivolgere al mio successore.

Uniformità di trattamento

Cosa ricorda del periodo di transizione della CNI negli anni Novanta? Allora si parlava tanto di unitarietà, uniformità di trattamento. Questi principi si sono consolidati o sono sempre a rischio?

Sono a rischio, ma lo sono sempre stati. Il concetto di “unitarietà”, si badi bene, è stato da noi ampiamente anticipato ed è previsto ad esempio sia dalla Convenzione quadro sulla tutela delle minoranze che dalla Carta delle lingue regionali o minoritarie del Consiglio d’Europa, entrambe ratificate da Slovenia e Croazia. L’uniformità di trattamento, come ho già accennato, riguarda principalmente la Croazia, dove la stessa minoranza, quella italiana, ha più diritti in una parte del territorio in cui è comunque riconosciuta. Non si tratta di cose trascendentali, ma sostanzialmente del bilinguismo, dato che istruzione e cultura sono comunque garantiti. Parlo delle garanzie, non del grado della loro attuazione effettiva. Se ho ben capito nell’ordinamento croato, che non è molto distante per certi versi da quello italiano, il bilinguismo, nelle sue diverse forme, passa attraverso il consenso delle autonomie locali. Questo è un passaggio essenziale. È lì che si vive e convive. Pola ha fatto notevoli progressi. La chiara presa di posizione del sindaco di Fiume Obersnel sulla vergognosa proposta di referendum sui diritti rappresentativi delle minoranze esprime perfettamente la consolidata maturità democratica della Croazia che spero prevalga. La negazione della diversità culturale che storicamente caratterizza ogni Paese equivale a un’automutilazione. Anche per scongiurare queste minacce, mi sia consentito uno sfogo ricordando che, molti anni fa, in tempi molto bui, un manipolo di confinati dal fascismo a Ventotene, scrisse un memoriale sul quale è fondata l’Unione europea. Sia dunque prudente chi volesse identificare gli italiani con il fascismo e si vergogni invece di disprezzare una cultura che, senza chiedere niente in cambio, gli ha consentito nei secoli di formare e godere della propria.

Una situazione scandalosa

Le recenti vicende riguardanti gli odonimi hanno fatto ritornare in primo piano la questione del retaggio culturale della CNI, del suo rispetto. L’opinione pubblica del Litorale ha maturato la consapevolezza delle tradizioni storiche del territorio?

Assolutamente no. Anzi, le forze politiche non fanno nulla in proposito. Pensano di cavarsela piazzando gli Juri a capo dei musei. Non biasimo gli Juri ovviamente, ma intendo dire che ciò non basta. Insorgo invece contro le politiche che negano sistematicamente il fatto che le tradizioni storiche e culturali, il patrimonio culturale – incluso l’elenco dei personaggi storici a partire dall’Umanesimo, attraverso il Rinascimento, l’Illuminismo, il Risorgimento e fino alla contemporaneità con Quarantotti Gambini e Tomizza, se vogliamo – sono parte integrante della cultura italiana. La Slovenia contiene dentro di sé parte della cultura italiana, così come l’Italia contiene dentro di sé parte della cultura slovena e nella propria Legge di tutela della minoranza linguistica slovena s’impegna a tutelare il patrimonio culturale sloveno. Anche la Legge slovena sull’istruzione minoritaria parla del nostro patrimonio culturale come di uno dei capisaldi dei curricula. Ma in che cosa consiste questo patrimonio che è ovviamente a disposizione di tutti? Per due volte, con due governi diversi, ho tentato invano di piazzare tra le modifiche della Legge sulla tutela dei beni culturali, gli emedamenti che avrebbero consentito la tutela specifica del patrimonio culturale delle minoranze, comprese le annesse ricerche etnografiche, che praticamente ignorano le città in cui viviamo. I 1200 anni di storia di Capodistria scritta in loco non sono in sloveno. Che ci vogliamo fare? La politica slovena dovrà porre rimedio a questa scandalosa situazione.

La quintessenza del disprezzo

Si respira un determinato clima d’insoddisfazione tra i connazionali del Capodistriano per il modo con cui vengono stilati gli elenchi elettorali specifici della CNI…

Su questa questione posso dire che ho tentato in tutti i modi di contrastare le norme della Legge sull’evidenza del diritto di voto che riguardano i nostri elenchi elettorali. Mi sa che i connazionali abbiano preso un po’ sottogamba la questione. Quelle disposizioni esprimono la quintessenza del disprezzo nei nostri confronti che pervade la mentalità di buona parte della burocrazia statale. Anzitutto l’approccio: noi, lo Stato, non sappiamo chi appartiene alla minoranza. Se c’è per caso qualcuno, faccia richiesta – letteralmente: sta scritto richiesta –. Se inoltra la richiesta deve passare il setaccio di criteri che solitamente valgono per la concessione della cittadinanza. Se i diciottenni vogliono iscriversi si preparino per tempo per esercitare il loro diritto costituzionale. Gli appartenenti alla CNI già iscritti, attraverso la loro Commissione, saranno costretti a sottoporre i diciottenni a questa procedura. Può darsi che mi sbagli, ma, non so perché, questa cosa mi ricorda la Conferenza di Wannsee…

Meno provincialismo

Lei ha parlato più volte della necessità di garantire nelle nostre scuole un insegnamento di qualità, anche dall’ottica linguistica. Il quadro legislativo attuale e la prassi forniscono garanzie a riguardo? Cosa si potrebbe fare per migliorare la situazione?

Concentrare tutte le energie per un’azione coordinata tra tutti i soggetti competenti – asili, scuole di ogni ordine e grado, ufficio di consulenza dell’Istituto pedagogico, CAN, UI, UPT, rappresentanze diplomatiche e consolari italiane e MAE – per garantire il turnover del personale docente con quadri di madrelingua italiana, come da trattato internazionale, che abbiano ottenuto l’istruzione prescritta dalla legge – laurea – in lingua italiana. Se non lo facciamo saremo spacciati nell’arco di una generazione, o forse anche prima.

Infine un suo giudizio sulla situazione politica attuale nell’ambito della CNI. Si va verso le elezioni nell’UI. Comunque vada, qualche novità, magari generazionale potrebbe esserci… Qual è il suo auspicio per il futuro?

Confido nella capacità della CNI di rinnovarsi. Forse ci vorrebbe meno ragioneria, meno provincialismo e più attenzione alle politiche necessarie a perpetuare la nostra grande tradizione linguistico-culturale. Sicuramente bisogna puntare sulla formazione.

Nella vita mai dire mai. Ci potrà essere forse un ritorno alle vecchie passioni politiche?

Mah, non saprei. Mi si lasci intanto andare in pensione, che non vedo l’ora…

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