Elvia Nacinovich: attrice per vocazione, poetessa per caso

Chiacchierata con l'ex primattrice del Dramma Italiano dello «Zajc» di Fiume. Dopo un'infinità di ruoli portati in scena, l'attrice dignanese si è cimentata anche nella poesia in dialetto istroveneto, aggiudicandosi il Premio letterario «Raìse», che si svolge ad Arquà Polesine, in provincia di Rovigo

0
Elvia Nacinovich: attrice per vocazione, poetessa per caso
Foto: GORAN ŽIKOVIĆ

Il giornalista e saggista italiano Sergio Lepri, nel suo libro Professione giornalista, ha definito l’intervista come “un colloquio tra un giornalista e un interlocutore che lo ha accettato, conoscendone gli scopi: rendere pubbliche le sue risposte”. L’intervista giornalistica va intesa anche come un processo di interazione fra giornalista e intervistato. Di regola la conduzione dell’intervista non è sempre un processo semplice in quanto la flessibilità e la variabilità delle condizioni di entrambi i soggetti rende quasi impossibile l’individuazione di regole generali fisse per una corretta conduzione, anche se la regola delle 5 W offre una buona base di partenza. Per prepararsi al meglio è necessario conoscere il motivo dell’intervista, documentarsi sulla figura da intervistare e preparare un elenco di domande.
Semplice, vero? In teoria sì, ma alle volte il motivo, di cui sopra, può rappresentare una sorpresa, come nel nostro caso. Il personaggio che abbiamo deciso di intervistare risponde al nome di Elvia Nacinovich, dignanese classe 1953, per tantissimi anni primattrice del Dramma Italiano del Teatro nazionale croato “Ivan de Zajc” di Fiume. Elvia Nacinovich, nata Malusà, la potremmo definire quindi attrice di teatro, autrice di spettacoli teatrali e per ragazzi, traduttrice e regista, ma ora alla sua biografia dobbiamo aggiungere anche poetessa. In questa intervista, però, non affronteremo direttamente il tema “teatro”, pur non potendolo evitare. Il teatro, parlando con Elvia, è sempre e comunque un tema ineludibile. Dopo un’infinità di ruoli portati in scena, Elvia si è infatti cimentata per la prima volta nella poesia in dialetto istroveneto. “Buona la prima!”, esclamerebbe un regista, perché Elvia si è aggiudicata al primo tentativo il Premio letterario “Raìse”, che si svolge ad Arquà Polesine, in provincia di Rovigo, comune con poco più di 2.600 anime, da non confondere con Arquà Petrarca, comune della provincia di Padova, ubicato ai piedi del Monte Piccolo e del Monte Ventolone, nei Colli Euganei, in cui morì il grande poeta Francesco Petrarca. Il singolare Premio letterario è stato creato da un migrante polesano e perpetuato negli anni con l’apertura ai veneti dell’Istria, dell’America latina e dell’Australia. Raìse, cioè radici, vuole premiare gli autori di origine veneta che si esprimono in versi e in prosa, purché nei dialetti della Lingua veneta.

«Le vestali delle proprie radici»
Ma cos’è che ha spinto Elvia Nacinovich a partecipare a questo concorso letterario?
“Ho saputo dell’esistenza di questo premio qualche anno fa da Tiziana Dabović. Sono rimasta subito affascinata dal titolo di questa manifestazione, Raìse, perché, voja o non voja, siamo diventati tutti quanti, un po’ per vocazione, un po’ per necessità, le vestali delle nostre raìse. Sappiamo benissimo che non si può avere un futuro se non si ha un passato. La cosa mi era piaciuta, ma non è che ci abbia pensato tanto in quel momento. Tu magari ci pensi, ma la vita poi dispone diversamente, fai cose che ritieni più importanti e impellenti. Insomma, fino all’anno scorso non ci avevo pensato. Poi mi sono trovata ad avere un po’ più di tempo, tra una prova e l’altra, anche per motivi di salute, e me xe vegnù ‘sta poesia, che si intitola Capita. L’ho mandata, ma senza troppe aspettative. Poi ho avuto la bella notizia del premio. Ogni premio è importante, piacevole, gratificante per noi che facciamo questo mestiere che xe fato de gnente, che ha la stessa consistenza della ragnatela, dei sogni… Qualche volta pensi magari di aver scritto qualcosa di buono, ma non hai nessun riscontro, mentre il premio è sempre un attestato e non può che farti piacere”.
“Bruno (il marito, anche lui attore del Dramma Italiano, n.d.a.) è stato poi così gentile da propormi di andare a ritirare questo premio. Io sono anche un po’ pigra e magari non ci sarei andata, avrei aspettato che me lo mandino a casa. Gliene sono grata, perché ogni incontro ti arricchisce. Per noi si è trattato anche di una specie di pellegrinaggio, perché una trentina d’anni fa eravamo stati un mese a Rovigo in virtù di una collaborazione tra il Dramma Italiano e il Teatro Sociale di Rovigo. Sempre nei paraggi avevamo fatto anche altri spettacoli, come ‘Le baruffe chiozzotte’ di Carlo Goldoni”.
Era la stagione 1992/93. Cinque attori della compagnia fiumana (Elvia e Bruno Nacinovich, Giulio Marini, Ester Vrancich e Rossana Grdadolnik) presero parte alla messa in scena della commedia “Il thesoro” di Luigi Groto (detto il Cieco d’Adria, letterato e drammaturgo del XVI secolo, n.d.a.), coprodotto dalle due compagnie. Dopo una serie di repliche in Italia, il lavoro fu proposto anche al pubblico fiumano, che lo accolse con grande interesse.

«Il veneto è una lingua parlante ricca di sfumature, musicale»
“Per raggiungere la località del premio – prosegue Elvia –, abbiamo passato tutti i posti dove avevamo fatto gli spettacoli. Beh, a una certa età si diventa più sentimentali. Vedere poi questo paese, adagiato mollemente tra il verde, si ha l’impressione che qua siano tutti rilassati. La gente del posto ti fa sentire a tuo agio, a cominciare dalla sindaca Chiara Turolla (alla guida del comune dal 26 maggio 2014, eletta dalla lista civica Arquà agli arquatesi, n.d.a.), dal vicesindaco Luigi Carlesso, persone squisite. È stato coinvolgente anche l’incontro con altri poeti. Mi ha fatto poi molto piacere vedere i giovani sbandieratori, questi piccolini con tanto talento ed entusiasmo, vedere che questo posto s’impegna a mantenere le tradizioni. Il Castello (la cerimonia di premiazione si è svolta nel castello medioevale, unico superstite di un’antica rete di fortificazioni che presidiava il Polesine, n.d.a.) è un posto magico, come lo è ogni castello, spazioso, vasto, ma con la sua intimità. Era il pomeriggio del 10 settembre – ricorda Elvia – con una temperatura ideale. Ho ritirato il premio anche per Mario Simonovich, vincitore nella categoria prosa”.
“Riprendiamo a parlare in veneto, se possibile con delicatezza e affetto, con le radici delle parole che crescono e vivono in noi, nella nostra lingua festosa, dove la poesia diventa argine verso il difficile momento che stiamo attraversando – ha affermato nella circostanza il vicesindaco e assessore alla cultura di Arquà Polesine, nonché segretario del Premio, Luigi Carlesso –. Il veneto è una lingua parlante ricca di sfumature, musicale: si sente nel mormorio dei pioppi, nella freschezza dei nostri fiumi e canali, nell’armonia dei nostri paesaggi”. Il dialetto istroveneto è stato utilizzato dagli attori del Dramma Italiano in alcuni spettacoli, tra cui “La rappresentazione dell’Amleto nel villaggio di Merduscia di Sotto”, messa in scena circa cinque anni dal Dramma Italiano. “Vi invito a entrare con me a Mrduša Donja e capire che il dialetto non è localizzazione, bensì lo strumento di una comunità che difende il suo sistema chiuso in un contesto globale – è il messaggio che il regista pratese Luca Cortina aveva lanciato per annunciare lo spettacolo –. Voglio presentarvi i suoi personaggi in modo che possiate, come me, riconoscervi in loro e nelle persone che vi circondano nella vita di tutti i giorni”.

Con il compianto Eugenio Allegri in “Zoran e il cane di porcellana” di Aram Kian (2015).
Foto: ŽELJKO JERNEIĆ

«Bona la prima, cussì la xe»
Dopo questo “preludio”, viene naturale chiedere a Elvia Nacinovich di spiegarci un po’ meglio il suo rapporto con la poesia.
“Una roba molto strana. Per me la poesia è come un fiume carsico. Viene, scompare, riappare… In effetti non sento di appartenere a questa categoria. Ci sono delle poesie che mi sembravano quasi scritte sotto dettatura. Bona la prima, cussì la xe. In queste circostanze ho l’impressione di non esserne io l’autore. È come se, puntando le antenne verso qualcosa ti arrivasse un segnale, un regalo di qualcun altro. Mi è capitato di svegliarmi una mattina piangendo perché avevo in testa una storia, la storia di un marinaio che era stato tradito. In un attimo ho scritto una poesia su questo marinaio, in dialetto bumbaro. Altre volte, però, per costruirla ci metto tantissimo tempo. Nel primo caso non sento di avere un merito, perché è venuta troppo facile. Nel secondo caso, proprio perché ci metto troppo tempo, mi do dell’incapace. Un poeta vero non ci metterebbe tanto tempo. Insomma, non mi sento poeta. Attrice da sempre, però. Quando sono andata in pensione, e non sono una che guarda indietro, lasciare il lavoro non è stato un grande trauma, anche perché avendo un nipotino hai le giornate piene, ti senti realizzata come non mai, molto più che essere genitore. Però, ora che mi hanno richiamato per fare ‘LockClown’, il progetto di Angelo Cecchelin e Davide Calabrese, con regia e adattamento di Davide Calabrese, al mio ritorno sul palcoscenico ho capito quanto sia importante per me. Posso farne a meno, sì, ma se lo faccio mi fa bene”.

È poesia anche immedesimarsi in un ruolo?
“Sì, penso di sì. Si inizia per timidezza. Il poeta si espone, trasmette un pensiero proprio e alla fine ci mette la firma. Un attore parla facendo suo il testo di un altro, interpretandolo. Esponendosi, sì, ma all’inizio è come uno schermo, un alibi. Da piccola adoravo il Carnevale perché mi dava modo di fare quello che solitamente non facevo. Lo aspettavo con ansia. Insomma, mi sento attrice, sì, ma poetessa no. Ho scritto anche lavori per teatro, quelli me li sentivo. Io e Bruno abbiamo fatto musical per bambini, io scrivevo il testo, lui le musiche. Uno lo abbiamo fatto durante la guerra, una specie di parodia sul delicato momento politico, trasponendo la goldoniana ‘Mirandolina’, che era diventata ‘Istriolina’. All’epoca ottenne molti consensi. Lo spettacolo era stato allestito attorno al nucleo della Filodrammatica di Pola. Iniziammo con pochi personaggi, ma poi continuava ad arrivare gente. Insomma, mi sento autore di teatro”.

Il bumbaro perduto
Qual è il suo rapporto con i dialetti? Il plurale è dovuto al fatto che oltre a quello istroveneto, Elvia ha nel sangue quello bumbaro, di cui ormai ci sono pochi parlanti a Dignano.
“A Rovigno hanno saputo mantenere il proprio dialetto, ma a Dignano si è un po’ perso. Forse a causa dei vecchi… Io l’ho imparato da mia nonna, sentendola parlare con le altre sue comari, ma già con mia mamma non lo parlava e con me ancor di meno. È un po’ come quelle persone che evitano di parlare il dialetto con i figli pensando di fare del bene… Quando sei una bambina, però, assorbi tutto ed è per questo che mi è rimasto dentro. Da giovane avevo scritto una poesia in bumbaro e pensavo che sarebbe stata l’ultima. Era come una domanda alla nonna: ma perché non parlava con me in bumbaro? Per me il dialetto era la lingua dei vecchi, come un vestito che prima non ti andava bene, ma adesso sì. In veneto, però, non avevo mai scritto una poesia. In bumbaro mi dava una dimensione poetica, in veneto non avrei mai pensato. Scrivevo o in italiano o in bumbaro. Questa è stata l’occasione per scrivere anche in istroveneto. Non è comunque la prima esperienza dialettale. Nel 2014 abbiamo vinto un’edizione di Dimela cantando con la canzone ‘Tango dela recession’, cantata da mia figlia Alba. Ci sono anche canzoni per bambini in istroveneto, ma questa è la prima poesia in assoluto”.

Il fascino dei molteplici ruoli
Abbiamo chiesto a Elvia se nella sua carriera teatrale avesse preferito interpretare ruoli che in un certo senso le somigliassero, oppure qualcosa di completamente diverso.
“In realtà, è molto più difficile da fare un personaggio che ti assomiglia di più e non sono soltanto io a dirlo. Sei più restio a interpretare personaggi che ti assomigliano. Hai paura di mostrarti, di svelarti. I ruoli che ti sembrano distanti, invece, li senti tuoi. Ti danno l’occasione di indagare nel tuo profondo e di tirare fuori anche il lato buono, l’altra faccia della luna. In realtà, facendo questo mestiere ti rendi conto delle grandi potenzialità che ognuno di noi ha nel corso della sua vita. Saremmo potuti essere mille altre cose. Come i bambini, che hanno cento interessi. A un certo punto, però, uno si sceglie il ruolo che gli piace fare nella vita. Io già da bambina avevo questo problema. Mia mamma faceva la sarta. Finché c’era questo pezzo di stoffa, avevo mille idee per fare un vestito. Oggi me lo immaginavo così, domani diverso. Una volta fatto, però, non si poteva cambiare niente, per cui era meno interessante. Scegliermi un ruolo nella vita, qualsiasi, e fare soltanto quello, non faceva per me. Insomma, è importante avere la possibilità di non dover scegliere tra regina o serva, tra santa o puttana. I ruoli che mi hanno dato più soddisfazioni sono i lavori in cui ho avuto un doppio o addirittura triplice ruolo. Uno di questi è la ‘Maria Stuarda’ di Dacia Maraini in cui facevo sia la regina Elisabetta I che la serva di Maria Stuarda, alternandomi nei ruoli. Per questo lavoro avevo ricevuto anche il Premio Mediteran al Festival delle piccole scene. Un altro Premio teatrale l’ho ricevuto per il lavoro ‘Tutto sulle donne’ di Miro Gavran”.
Lo spettacolo, ricorderemo, aveva visto in scena Elvia Nacinovich, Elena Brumini e Rosanna Bubola, ciascuna delle quali si era fatta carico di cinque ruoli diversi in cinque storie di vita alternate e intrecciate, tutte al femminile. “Tu cerchi sempre di cambiare, di essere diverso, ma il pubblico non ricorda come eri la volta scorsa, ma quando la stessa sera, con lo stesso lavoro, vedi tanti ruoli diversi, allora si riesce ad apprezzare maggiormente la versatilità dell’attore. È quello che mi ha dato le soddisfazioni maggiori. Beh, certo, ci sono tanti altri ruoli che mi hanno regalato grandi soddisfazioni”.
In questo contesto Elvia ha ricordato il ruolo avuto nello spettacolo “Dramma Italiano – La casa dei fiori che volano” di Edoardo Erba, uno dei più noti drammaturghi di oggi, che lo aveva scritto su commissione per il Dramma Italiano in occasione del 60º della compagnia. “Aveva pensato questo ruolo per me e quando qualcuno scrive per te un ruolo così importante, ti fa anche sentire importante. Il bello è che questo personaggio era afasico, non parlava tanto, usava le parole, ma non nel senso giusto, in seguito a un ictus, molto simbolico nel senso della perdita del linguaggio. Il regista ha capito immediatamente la nostra situazione, degli italiani di qua, dal secondo dopoguerra in poi. Lo spettacolo era ambientato nell’immediato dopoguerra. Erba era rimasto molto colpito dal fatto che eravamo così legati alla nostra lingua. Ha capito che la lingua è importante, che non puoi affermare la propria identità se non hai una lingua per veicolarla. Lo ha espresso in modo poetico. La lingua è molto più importante di un padre e di una madre, di una casa, di un paesaggio… Questo personaggio mi era rimasto dentro”.

I fantini della letteratura
Sull’argomento dei ruoli, vicini o lontani, sono stati in molti a esprimersi, come ricordato da Elvia. “Mi diverte cambiare continuamente i ruoli, lo faccio per vivere tutte le vite che non potrei mai vivere”, aveva detto Riccardo Scamarcio, mentre la grande Claudia Cardinale aveva dichiarato: “Io amo calarmi nei personaggi con l’esperienza che ho della vita, della mia vita. Mi piace recitare per la possibilità che mi dà di vivere, oltre la mia, altre vite, altre storie: parto da me, e cerco di inventarmi nuovi modi di essere donna”. L’attore statunitense Scott Glenn aveva detto in una circostanza di essere diventato attore “perché mi rifiuto di poter vivere una vita sola”. L’attore inglese Sir Ralph Richardson aveva definito gli attori “i fantini della letteratura”. “Altri forniscono i cavalli, le commedie, e noi li facciamo semplicemente correre”. “Recitando crei un mondo diverso e come attore devi convincere gli spettatori a entrare in quel mondo, sia che faccia parte del loro immaginario sia che si tratti di qualcosa di totalmente estraneo alle loro vite”, è invece il punto di vista di Christian Bale, un altro attore inglese. La tesi di Elvia viene confermata anche da Giancarlo Giannini: “Io non credo che la somiglianza dell’attore con il personaggio aiuti nell’interpretazione. Anzi, più è lontano e meglio è”.
Per quanto riguarda il repertorio, Elvia afferma di non aver avuto mai pregiudizi. “All’epoca della prima edizione di ‘Esercitazione alla vita’ mi chiamavano tragičarka, ma forse perché avevo la voce bassa. Mi piacciono anche i ruoli comici. Questo ‘LockClown’ è una passeggiata di salute per noi e per chi ci viene a vedere. Sono molto grata a Giulio Settimo che si è ricordato di me. Mi ha aspettato. Ci siamo trovati tutti in sintonia, a parte Bruno, con il quale sono da una vita, ma anche Stefano (Surian, n.d.a.), giovane, persona squisita e pieno di talenti, simpatico, spiritoso, intelligente e anche umile. Il regista pure. Bravissimo, uno che ti dà le dritte, che capisce dove può darti un po’ di corda per farti andare da solo. Ha ritoccato il testo di Cecchelin con tanto garbo (Angelo Cecchelin è uno dei più significativi autori futuristi della scena triestina e del teatro musicale italiano, n.d.a.), inserendo minuziosamente le cose moderne, attuali, senza però snaturare Cecchelin, tanto da darti l’impressione che si tratti di una cosa molto attuale. L’uomo non cambia. Mi sembra ridicolo sentire alle volte qualcuno che commenta come un testo antico sia attuale. Ed è proprio questa attualità a essere tragica. Significa che non siamo cambiati e questa cosa non ci fa onore”.

«Un poeta dovrebbe far stare meglio chi legge le sue poesie»
Ci saranno altre avventure nella poesia oppure si è trattato di un episodio casuale, di qualcosa di effimero?
“Potrebbe essere effimera questa in dialetto veneto, perché in italiano o in dialetto bumbaro ho ricevuto diversi premi a Istria Nobilissima. La poesia va e torna, quello che hai dentro di te deve pur uscire da qualche parte. Se non fai teatro, se non ti sfoghi da quella parte, deve venir fuori da una altra. Non ho pubblicato mai niente. Faccio l’attrice, interpreto testi teatrali, leggo racconti, prosa, ma sulla lettura della poesia ho avuto sempre dei dubbi. Per me la poesia è una cosa molto intima. Non dovrebbe avere un mediatore, un interprete. Essendo già di per sé aperta a diverse interpretazioni, non è necessario che ci sia qualcun altro a dare la sua impronta. Non mi piace leggere neppure le mie, peggio ancora ascoltarle lette da qualcun altro. L’unico neo della premiazione, secondo me, è stato quello di far leggere le poesie a un gruppo di attori e ragazzi. Ti puoi anche sentire importante se qualcuno legge la tua poesia, ma meglio leggerle da soli. Giacomo Scotti cercava sempre di convincermi a partecipare alle serate letterarie, ma io semplicemente non ci andavo. Svicolavo sempre. Lui mi spronava anche a pubblicare queste poesie, ma io non ne sono convinta. Chi andrà a leggere le mie poesie? Io scrivo e mi sento meglio dopo aver scritto, ma il poeta dovrebbe far stare meglio chi le legge e io sinceramente non so se le mie poesie potrebbero far stare meglio chi le legge”.
“La poesia è come l’acqua nelle profondità della terra. Il poeta è simile a un rabdomante, trova l’acqua anche nei luoghi più aridi e la fa zampillare”, scrisse il grande Alberto Moravia. Il poeta, però, si limita a scriverle le poesie; ci vuole però il lettore per completare il significato. L’attore francese Philippe Noiret, che nel famoso film “Il postino” (1994) di Massimo Troisi, candidato a 5 premi Oscar, interpretò la figura del poeta cileno Pablo Neruda, disse: “Quando la spieghi, la poesia diventa banale. Meglio delle spiegazioni è l’esperienza diretta delle emozioni che può spiegare la poesia a un animo disposto a comprenderla”. Tra queste frasi potremmo inserire anche quella di Elvia: “Il poeta dovrebbe far stare meglio chi legge le sue poesie”. Su argomenti del genere si potrebbe disquisire all’infinito, ma possiamo dire con certezza che una poesia è sempre il frutto di determinate emozioni e di determinati pensieri che hanno avuto la fortuna di trovare le parole per esprimersi. Elvia Nacinovich ha saputo sempre trovare il modo per esprimersi, sul palcoscenico oppure con la penna in mano, dando una nuova vita a un personaggio oppure dando forma a un pensiero. Si troverà sempre l’“animo disposto a comprendere”, ne siamo certi.

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display