Alla (ri)scoperta del feudalesimo nel Vecchio continente

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Alla (ri)scoperta del feudalesimo nel Vecchio continente

Con la Germania, un’opera etnografica scritta nel 98 d.C., Tacito riportò per primo come i capi barbari fossero soliti circondarsi di fedelissimi, per godere della loro protezione militare ed assicurare stabilità alle proprie tribù. Questo modello, non dissimile da quello dei clienti che gravitavano attorno all’amministratore delle province di età classica, maturò nei regni romano-barbarici per evolversi in età merovingia. Il re si attorniava di un gruppo di guerrieri scelti (i trustis), che prestavano servizio militare in sua difesa in cambio di privilegi, terre e titoli. Nel caso qualcuno avesse osato recare loro offesa, il tribunale regio decretava che li si risarcisse con un indennizzo doppio o triplo rispetto al normale (il guidrigildo). Si andò avanti così fino al IX-X secolo. Le cose si acuirono con l’arrivo di Normanni, Saraceni e Ungari, popolazioni che, premendo da est e sud, intensificarono le loro incursioni sul continente europeo, causando una generale destabilizzazione non solo economica (porti insicuri, strade commerciali interrotte) ma anche politica dell’intero territorio. La destrutturazione progressiva dell’impero carolingio, l’assenza di un potere centrale quale garante di ordine e sicurezza a salvaguardia dei cittadini, contribuirono a generare un senso di insicurezza generale. Dunque si ripartì “dal basso”, e in assenza di un potere monarchico comune si avviò quello che, alla storia, è passato come il “fenomeno di incastellamento”: la costruzione di castelli fortificati, borghi e fortezze. Ogni piccolo signore divenne a suo modo re e prese a solidarizzare o a rivaleggiare con i borghi vicini. Molti saranno sorpresi del fatto che, questo tipo di ristrutturazione sociale, perdurò ben oltre il Medioevo: ad abolirla fu Napoleone solo nel 1806. Sradicarla dopo 2000 anni di prassi ben avviata, a questo punto, è un’impresa. A pensarci bene, il concetto di democrazia sarà sì nato all’ombra del Partenone, ma se già Platone (La Repubblica, Politico) e Aristotele (Politica) lo criticarono, non c’è da sorprendersi se, nel 2018, a soli 200 anni dall’abolizione ufficiale del feudalesimo, la democrazia non sia ancora giunta alla sua piena maturità. Cioè: l’involucro c’è, dunque pare che ci sia anche il resto, ma a mancare è ancora una parte notevole di sostanza. Durante il feudalesimo la società era divisa in plebe, clero e nobili. Oggi, a fronte di un problema di proporzioni globali (l’immigrazione), le cui sollecitazioni pressanti costringono i governi “democratici” a revisionare non tanto le proprie strutture, quanto l’immagine ideale che di queste negli ultimi 2 secoli è stata passata all’opinione pubblica, si torna a (ri)scoprire un sinistro nesso col passato “recente”: la società pare sia ancora divisa in plebe (il Parlamento e il Presidente della Repubblica, rappresentante il primo dei cittadini e loro garante il secondo), clero (una Chiesa che non ha pudore a schierarsi apertamente contro il governo) e nobili (certa magistratura con la sua rete di protetti e fedeli). A tradire la facciata sono le stesse parole del sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, secondo cui “solo attraverso un giudice ordinario o amministrativo il Decreto Sicurezza potrà eventualmente essere dichiarato incostituzionale”.
L’avverbio è di rito, poiché a questa mirabile integrità etica, sorretta da un umanitarismo a dir poco fervente, segue una velata minaccia: “Abbiamo già pronta un’azione per sterilizzare in ogni modo gli effetti nefasti di questo decreto”, così Dario Nardella, sindaco di Firenze. A poco vale la reprimenda dei presidenti emeriti della Corte Costituzionale (Cesare Mirabelli e Giovanni Maria Flick), che richiamano all’osservanza del sistema democratico: la lega dei nobili, i trustis d’oggi, quei sindaci disubbidienti capitanati dal presidente dell’associazione dei comuni (Anci), Antonio Decaro, persiste nel suo intento di scavalcare quanto voluto dal governo, democraticamente votato in Parlamento e controfirmato dal Presidente della Repubblica.
La plebe non conta. Ma il dato più allarmante è che i trustis d’oggi riconoscono il potere sovrano non negli organi statali di rappresentanza e tutela dei cittadini, bensì nella magistratura, un’istanza elitaria che si vuole neutra, ma i cui membri, tanto per puntualizzare, non sono nemmeno eletti dalla cittadinanza. Fa poi riflettere che la chiamata alle armi provenga proprio da due sindaci (De Magistris, Napoli e Orlando, Palermo) a capo di città dove alcuni scafisti hanno messo radici, gestendo con la complicità delle mafie locali attività di copertura per il loro traffico di vite umane (il prezzo di trasporto è di 3000 euro per immigrato). Forse tutto questo ritrovato idealismo, magari, è sorretto da altre ragioni, più che quelle prettamente etiche. E forse la sinistra italiana, carente di leader e progetti, tenta di rilanciare un nuovo programma di “incastellamento” attraverso il quale ridefinire per sé un nuovo potere, visto che ormai è assoldato che la corona è persa. Bando a chi li offende, allora, questi illustri sangueblu. Chissà a quanto ammonterà stavolta il guidrigildo.

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