Passaggio da Buie e Montona per arrivare agli scritti su Venezia

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Passaggio da Buie e Montona per arrivare agli scritti su Venezia

Qualche giorno fa è stata presentata a Trieste la pubblicazione del Circolo Istria intitolata “Dall’Istria a Lepanto”, a cura di Livio Dorigo, Franco Colombo e con un importante intervento del prof. Pio Baissero, nato a Trieste da famiglia istriana. Tra le altre importanti funzioni dirige l’Accademia europeista dell’FVG perché è nelle sue corde. “I miei luoghi prediletti – afferma Baissero – si dividono tra Italia, Slovenia, Croazia e Austria, insomma le terre intorno all’antico “Golfo di Venezia” cioè al Mare Adriatico. Ad esempio, l’Istria. Quasi inutile dire che, oltre a Gorizia e Trieste dove sono nato e dove ho compiuto i miei studi, amo e sto bene tanto a Venezia come a Vienna. In queste due città-capitali si respira cultura e si apprezzano la buona musica, la storia, l’arte e la buona lettura. Perciò, quando ci vado, mi sento a casa. Poi, dalle nostre parti, fuori dai centri, grandi o piccoli che siano, ci sono i boschi… per farla breve il manto forestale è stato ed è per me, un altro luogo vitale e suggestivo che merita di essere non solo visitato, ma anche meditato”.

Non a caso “Il legno di San Marco” e “Galia” sono i suoi libri più famosi, due dei tanti, in cui le sue origini vengono a galla.

Le scoperte più entusiasmanti fatte negli archivi del Nord Est d’Italia?

“Direi che all’Archivio di Stato di Venezia si trovano documenti cinquecenteschi di grandissimo interesse per la storia dell’Istria. Raccontano nei particolari, ad esempio, di come la Serenissima avesse a cuore la cura del bosco della “Val de Montona”: proprio così definita dagli Atti del Consiglio dei Dieci! Vi si possono anche leggere gli incredibili aggettivi usati per descrivere quella foresta: “bela”, “dileta”, “cara”. Voleva dire che la Repubblica manifestava un grande amore per quel bosco, ovviamente un amore non disinteressato, dato che era in grado di fornire un legno di grande pregio per la costruzione di galee e galeoni in Arsenale, nel sestiere Casteo di Venezia”.
Con una famiglia che proviene da Montona, non solo il bosco ma anche i leoni marciani fanno parte della sua storia personale?
“Buie e ancor più Montona, dove affondano le nostre radici, hanno l’impronta secolare di Venezia: a Montona le pietre parlano con una decina di Leoni marciani e altre antiche testimonianze tuttora presenti. Dai racconti sentiti in famiglia si definiva una viuzza di quella cittadina come “Rialto”, tanto per dire quanto profondo fosse il legame della piccola città istriana con Venezia e la sua storia”.

Del rapporto di questa terra con Venezia è stato scritto moltissimo ma non si finisce di scoprire nuovi spunti e dare spazio a nuove riflessioni. Perché?

“Perché il passato, paradossalmente ancora più del futuro, può rivelarsi come un mistero, riservando spesso inedite riletture, sorprese e ridimensionamenti di miti ritenuti incrollabili: poco si ricorda, ad esempio, del non secondario ruolo degli istriani e dei dalmati nell’armata navale della Lega Santa; poco si pensa all’ingente impiego del legno della “Val de Montona” nella struttura delle migliori galee della “flotta da mar” della Serenissima, tecnologicamente le più avanzate in quell’epoca”.

Che cosa si scopre studiando il mare, visto anche da una località nel cuore dell’Istria, che aveva un porto di riferimento ed un commercio legato alla realtà dell’Arsenale veneziano, il mare si vedeva in lontananza e si sentiva vicino?

“Nell’Istria interna, quella agricola, non c’erano ovviamente batane sulle banchine, né reti da pesca o odori di salsedine. Ma si sapeva bene come, ad esempio, gran parte del lavoro forestale – e non solo forestale – fosse destinato ai carigadori, cioè ai porticcioli della Bastia e di Porto Quieto per il trasporto a Venezia. Dunque il mare costituiva la via principale e privilegiata attraverso la quale tutto doveva transitare. Un esempio? Una località rurale minuscola come Castagna, sulle colline sopra la Valle del Quieto, forniva un gran numero di “batelanti” ovvero di marinai dei burci da fiume e da mar: un mestiere che quelle genti esercitavano facendo contemporaneamente il lavoro di contadino, allevatore o apicoltore. Mare e terra si confondevano, la lontananza era relativa”.

Il bosco di Montona non è solo fonte d’ispirazione, è legato anche a vicende personali…

“Per me la storia forestale – soprattutto quella antica – è una notevole fonte di ispirazione. Sicuramente è un argomento molto complesso, che si presta a diverse interpretazioni, anche se credo che, in ultima istanza, la ragione del fascino che emana un bosco sia molto semplice. L’ho scritto, tra l’altro, nel romanzo “Galia” e, ancor prima nel saggio “Il legno di San Marco, dai boschi dell’Istria a Venezia”. In ambedue le pubblicazioni sostengo che, lavorando molto duro come si faceva nel Cinquecento e nel Seicento, la foresta di Montona, pur di non grandi dimensioni, riusciva non solo a fornire pregiate qualità di legno, ma anche a riprodursi, a non scomparire ma, anzi, a migliorare. I proprietari dei terreni dove crescevano gli alberi, e tra questi anche i miei avi, non erano tuttavia felici in quanto obbligati a una rigida osservanza delle leggi che tutelavano il bosco, rispondendo penalmente di ogni cosa, anche della più piccola infrazione o danno alle piante”.

Che cos’è stata l’Istria in famiglia negli anni della sua formazione?

“Dell’Istria, e delle sue travagliate vicende, sentivo parlare spesso a casa; per me – che non ero un “nativo” istriano, ma figlio di nativi – sembrava un mondo quasi immaginario, una sintesi di posti magici, di ricordi ed episodi a volte piacevoli, a volte spaventosi se vogliamo. Credo che il tutto trascendesse, tra l’altro, le epoche più recenti. Delle quali, tuttavia, la forza del ricordo, la nostalgia delle case abbandonate, trovava sempre, come una lava sotterranea, il modo di salire in superficie. Alla tristezza per quei fatti poteva seguire la spensieratezza, persino l’umorismo di altri. Da mia nonna, tanto per dirne una, sentivo parlare di episodi esilaranti accaduti sul treno della “Parenzana”. Il bello era sentire raccontare tante piccole storie di minuscole stazioni ferroviarie e di passeggeri di tutte le classi sociali che stavano molte ore in treno per il tragitto, tutto sommato breve, da Parenzo a Trieste: per la nonna era come se fossero il presente. Ma erano passati solo, si fa per dire, 80 anni…”.

Quali tradizioni sono state conservate in famiglia?

“Per quanto sempre più attenuate, alcune tradizioni si sono tramandate: specialità culinarie, la parlata istro-veneta e, per quanto possa ricordare, anche vecchie filastrocche apprese da bambino. In fin dei conti proverbi popolari e filastrocche erano un linguaggio efficace per l’educazione dei piccoli, oggi, ahimè, sono spesso del tutto estranei a tradizioni familiari e a modi di vivere dei propri luoghi d’origine”.

Quali curiosità suscitavano in lei i racconti dei parenti?

“Trovo che sia sempre un arricchimento sentire le storie raccontate da parenti o persone anziane. Ascoltare è il miglior segnale non solo di rispetto, ma anche un modo per essere consapevoli di quanto il nostro mondo sia cambiato e cresciuto negli anni. A volte la mia curiosità era forte quando sentivo il racconto di vicende, anche drammatiche, vissute da parenti e amici nel periodo più tragico e difficile dell’Istria, ovvero quelle accadute con l’arrivo dei tedeschi nel 1943, la guerra partigiana e poi l’esodo del dopoguerra. I libri di storia che avevo a scuola, non ne parlavano affatto”.

Come ha vissuto e vive i ritorni?

“Era soprattutto mia madre a volermi portare ogni anno in Istria, per fare poi lo stesso mesto itinerario: la visita ai defunti nei cimiteri di Buie e Montona e poi la visita ai “vivi”, cioè ai pochi rimasti. Un itinerario struggente anche perché fatto in novembre, con giornate corte e spesso piovose. A me non piaceva molto quel clima “commemorativo”, ma percepivo sensazioni difficili da descrivere. Oggi ci sono i contatti con le Comunità, la presentazione dei libri, tutta un’altra storia”.

Com’è stato crescere a Gorizia, formarsi a Trieste, con questa consapevolezza delle radici altrove?

“Ho sempre ritenuto che fosse importante appartenere a più identità, non a una sola. Ho avuto la fortuna di aver ricevuto un’educazione aperta, che non coltivava risentimenti nei confronti di chi era subentrato agli italiani in Istria. Poi ho compiuto studi anche in altri Paesi europei e questo mi è stato di ulteriore giovamento”.

Per città come Fiume e Trieste, anche nel passato un’appartenenza plurima era considerata fonte di ricchezza, ma quale dimensione assume oggi l’identità di frontiera?

“Viviamo un periodo difficile per tutti: migrazioni, terrorismo, protezionismo, nazionalismo e altro non fanno che accentuare paure, tensioni e diffidenze crescenti. Ne possiamo uscire solo con il convincimento che non si possa fare a meno di stare insieme, di dialogare, di convincerci che le sfide che abbiamo davanti richiedono solidarietà, collaborazione e non chiusure. Chi vive ed è vissuto sulle frontiere può capire e insegnare certe cose, molto meglio di altri”.

E’ l’Europa, per chi deve mediare con il confine, la strada da percorrere?

“Certamente e nonostante la crisi profonda che la sta attraversando. Quale alternativa abbiamo altrimenti?”.

Lei è direttore dell’Accademia Europeista dell’FVG, quale l’approccio con i giovani, quale formazione è possibile e necessaria?

“Mi occupo da diversi anni di formazione europea dei giovani: ho visto in loro entusiasmo e apertura nei confronti dell’idea di un’Europa federale, di Regioni e Stati senza frontiere e aperta al mondo. Saranno proprio i giovani, ormai, a fare quell’Europa che ancora, purtroppo, non abbiamo e non siamo riusciti a realizzare”.

La collaborazione attraverso i progetti europei in che modo ha mutato i rapporti tra le genti del territorio?

“Ci sono stati molti progetti europei, gestiti da Stati, Regioni, Comuni, Associazioni ed Enti di ogni genere. Ogni progetto aveva ed ha il suo significato e le sue funzioni con risvolti più o meno positivi nell’educazione, nell’economia e nella società. Le genti ne hanno risentito positivamente quando sono state coinvolte, o lo sono ancora. Non sempre, per varie ragioni anche burocratiche, questo avviene e non sempre le risorse disponibili risultano sufficienti o ben gestite. Molto resta da fare se si vuole veramente agire per un risultato autenticamente europeo nel sentire e nell’agire quotidiano delle persone. Mi trovo piuttosto bene in Europa, però non mi fa certo piacere che qualcosa non vada nel verso giusto nella nostra cara Unione, a torto o a ragione da più parti criticata. Ci sono conflitti più o meno latenti, tentazioni di chiudersi in gabbie e pregiudizi del passato, classi politiche impresentabili: questa crisi potrebbe sortire l’effetto della decadenza, della frammentazione o dell’implosione del vecchio continente. Oppure preludere a una rottura dell’immobilismo, forse maggiore integrazione politica in senso federalista e miglior giustizia sociale? Non lo so, ma credo ci sia bisogno di un risveglio delle coscienze e spazi per idee e gente nuova”.

Che cosa ha voluto evidenziare di tutto ciò nei suoi libri?

“Ho voluto dire, al di là dei vari temi trattati, che la storia, ogni storia è unica e difficilmente si ripete. Invece l’essere umano tende a manifestare e ripetere costantemente certi comportamenti. Quando sono comportamenti negativi o distruttivi, si ha l’impressione che la storia non abbia insegnato proprio nulla”.

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