INSEGNANDO S’IMPARA I taxi neri di Belfast

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INSEGNANDO S’IMPARA I taxi neri di Belfast

Se venite a Belfast scoprirete che ci sono i taxi neri e i taxi-taxi. A confondere ulteriormente la questione c’è il fatto che anche alcuni dei taxi-taxi sono neri e di modello molto simile agli altri (anche se più recenti e in condizioni migliori). La differenza tra le due categorie sta nel fatto che i secondi corrispondono alla nostra idea di taxi, cioè un veicolo con autista che ci porta a destinazione su pagamento di un pedaggio (calcolato a tempo o a chilometraggio), mentre i taxi neri sono una specie di sostituto degli autobus. Per capire come si sia arrivati a questa situazione, bisogna andare indietro di cinquant’anni durante gli anni bui del conflitto nord-irlandese, quando le barricate, le sparatorie e le esplosioni erano all’ordine del giorno. A quell’epoca le aziende dei trasporti avevano grosse difficoltà a operare tra i disordini, senza considerare anche il fatto che gli autobus venivano regolarmente messi a fuoco. Va da sé che l’assenza di regolari e affidabili collegamenti urbani rendeva problematico raggiungere il luogo di lavoro o recarsi a scuola, soprattutto da determinate zone della città. Però le comunità più colpite trovarono una soluzione: andare in Inghilterra ad acquistare i vecchi cab dai tassisti londinesi. Li avete presenti? Quelli neri di forma arrotondata che appaiono in moltissimi film dell’epoca. Nel veicolo dalla carrozzeria antiquata, ma piuttosto spaziosa, trovavano posto almeno sette persone, otto stringendosi un po’, nove o dieci, se c’erano bambini sulle ginocchia delle mamme e c’era sempre anche una carrozzina che sbucava dal bagagliaio posteriore. Il tutto per l’equivalente di un corsa in autobus. I taxi neri operavano (operano tutt’ora) lungo linee fisse: la Falls Road a Belfast ovest e alcune zone di Belfast nord, da un capolinea all’altro, proprio come il trasporto pubblico. Vengono definiti, infatti “Community Service Taxis”. Basta fermarli con la mano in un qualsiasi punto lungo la strada, salire e, quando si vuole scendere, picchiettare sul vetro divisore dietro all’autista. Questo efficientissimo servizio divenne subito popolare tanto che la soluzione temporanea è diventata permanente e i taxi neri sono una delle caratteristiche della città. Ed è proprio questa la situazione che trovai i primi anni quando non avevo ancora la macchina e lavoravo in una scuola sulla Falls Road. Era molto comodo uscire dall’edificio scolastico e avere la scelta di autobus o taxi nero – quello che arrivava prima. Eccetto che era molto più interessante e istruttivo viaggiare sui taxi.

Di solito cercavo di trovare posto davanti, accanto all’autista e chiedevo quanto fosse il pedaggio, anche se lo sapevo, in modo da far capire subito che ero straniera. Questo accendeva la conversazione con risultati a volte sorprendenti. Una volta un tassista mi fece viaggiare gratis per il semplice fatto di essere italiana. Non mi ricordo se avesse un’idea particolarmente positiva dell’Italia, se ci fosse andato in viaggio di nozze o magari perché il Papa risiede a Roma (la Falls Road è la via cattolica per eccellenza), in ogni caso non volle saperne di prendere il denaro che gli porgevo. In cuor mio ne fui contenta anche se sentivo di non essermi meritata il trattamento preferenziale. In fondo è come venir privilegiati per avere gli occhi azzurri piuttosto che verdi.

Un’altra volta finii con l’imparare un’importante lezione sul modo di comunicare dei nord-irlandesi. La corsa era iniziata nel solito modo (“Ah, sei italiana? Cosa fai a Belfast? Lavori alla scuola? Ti piace la città?”…) finché il signor autista non mi informò che anche lui aveva studiato l’italiano. Questo stuzzicò il mio interesse e cominciai a fare domande sull’istituto che aveva frequentato, l’insegnante del corso… A quell’epoca gli italiani che insegnavano erano pochi e si “spalmavano” tra le scuole e gli istituti che organizzavano corsi di lingua, perciò andava a finire che ci si conosceva un po’ tutti. Improvvisamente il mio interlocutore, che fino quel punto aveva condotto una conversazione briosa, diventò più reticente e alla mia domanda diretta “dove ha studiato la lingua” rispose con un evasivo “Ach, you know” che potrebbe tradursi con un “Sai com’è”. Siccome io non sapevo “com’è”, insistetti finché lui disse “In prigione”. All’epoca ero abbastanza ingenua, per non dire tonta, riguardo a certe cose, perciò, non paga di aver già fatto una gaffe, mi scavai letteralmente la fossa con la domanda meno appropriata per la situazione “C’è stato a lungo?” Solo quando lui rispose “Sedici anni”, capii di essermi spinta troppo in là. Il tassista non sembrò prendersela troppo per quella che ai suoi occhi doveva esser stata pura invadenza e la cosa finì lì.

Tempo dopo raccontando l’aneddoto ai familiari di mio marito chiesi “Tu sai cosa significa quando uno ti dice ‘ach, you know’?” “Certo! Significa che devi leggere tra le righe e non fare altre domande!”. Il punto è proprio questo: loro lo sanno, noi no. E questa è la lezione che bisognava imparare. Quassù una mezza risposta non è un invito a insistere come da noi (Come stai? – Così, così. – Dimmi tutto), ma è un paletto che va rispettato. L’esperienza, anche se imbarazzante, è stata di grande utilità per il mio lavoro con gli adulti dove è d’obbligo mantenere un certo livello di riservatezza. Perciò se loro non fanno il primo passo parlandomi spontaneamente di loro stessi, io non chiedo. In fondo, si può sempre parlare del tempo.

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