ECONOMIA E DINTORNI Economia internazionale: il quadro generale preoccupa

Gli scenari globali si fanno sempre più incerti. la nevrosi finanziaria regna sovrana in tutto il pianeta. focus sulla situazione in Europa e in Cina

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ECONOMIA E DINTORNI Economia internazionale: il quadro generale preoccupa

Nei precedenti interventi in materia geoeconomica abbiamo a lungo argomentato in merito alle palesi incoerenze delle scelte americane negli scenari globali. Alla luce dei costanti incrementi inflattivi e della quantità di dati in divenire sul Pil europeo e cinese, ci corre l’obbligo focalizzarci anche su queste due realtà, avvertendo il lettore che probabilmente ciò che è vero oggi potrebbe essere clamorosamente smentito domani; la nevrosi finanziaria regna sovrana in tutto il pianeta.

Il Vecchio continente

La decisione Bce del rialzo dei tassi, comunicata di recente da Christine Lagarde con la sensazione che si volesse scongiurare una possibile frammentazione della politica monetaria continentale, ha preoccupato tanto i mercati finanziari quanto i protagonisti dell’economia reale.
Troppo spesso dimentichiamo che senza il mondo della produzione e della logistica la finanza sarebbe implodente e fine a sé stessa. Oggi il divario tra economia reale e finanza si sta allargando. Un primo motivo è la tempistica: mentre i dati economici si riferiscono a misurazioni concrete avvenute e passate, la finanza guarda al futuro, ovvero si acquistano titoli scommettendo sulla loro rivalutazione. Come facilmente intuibile, ipotizzare eventi futuri probabili, ma non certi è all’origine del divario; infatti si creano aspettative spesso sovrabbondanti rispetto alle concrete realizzazioni. Le aziende produttive dell’economia reale cercano risorse per i propri investimenti in immobilizzazioni, in risorse tecnologiche ed umane; gli investitori ricercano opportunità di rendimenti. Infatti nella riunione del 9 giugno la Bce ha annunciato un aumento dei tassi di interesse di 25 punti base a luglio, ipotizzando un ulteriore rialzo a settembre per fronteggiare il prevedibile incremento delle pressioni inflazionistiche, che porterebbe come conseguenza il consolidamento dei prezzi esageratamente aumentati, senza possibilità di ritorno ai valori precedenti.

Incertezza

Né i mercati né il mondo della produzione hanno apprezzato la strategia, ritenendo poco efficace agire sulla politica monetaria rispetto a interventi strutturali di rilancio dei settori ad alto profilo e dei relativi consumi. Per altro nulla di concreto si è detto in merito alla possibile frammentazione dei costi finanziari tra i membri della zona euro, il cui squilibrio è fin troppo evidente nei dati del famigerato spread. Pertanto il giudizio sul messaggio della Bce è unanime: incertezza, incertezza, incertezza.
Secondo Reuters, molti investitori criticano l’atteggiamento di Lagarde, che sembra dare maggiore voce alle banche centrali nazionali e ai Paesi con una posizione monetaria più aggressiva; il suo predecessore, Mario Draghi, si era concentrato invece sul contenimento a tempo indeterminato dei costi del debito, riuscendo nel miracolo di tenere in minoranza la posizione della Germania nel board di Francoforte.
L’Italia, secondo mercato del debito pubblico in euro per dimensione, ha subìto immediato contraccolpo: in pochi giorni i titoli di Stato sono crollati, i rendimenti nominali italiani e quelli relativi agli equivalenti tedeschi di riferimento sono cresciuti a dismisura e lo spread è in evidente rialzo. Il rendimento delle obbligazioni italiane a 10 anni è aumentato di ben 20 punti base al livello più alto dal 2018 (a 3,715%), sfiorando i picchi di otto anni fa. Contraccolpo meno cruento, ma ugualmente pesante, anche per i rendimenti spagnoli, portoghesi e greci.

Frammentazione

Nonostante la complessità della sua macchina, sembra che la Bce non disponga ancora del tipo di strumenti idonei ad una corretta gestione della frammentazione degli investimenti.
In una recente nota di Olivier Blanchard, ancora oggi uno dei più ascoltati consulenti del Fondo Monetario Internazionale, si legge che “di fronte ad interventi finanziari parziali, gli investitori richiedono rendimenti più elevati, con conseguente rialzo dello spread; la Bce non attiva processi sufficienti per affrontare questo problema, per risolvere il quale occorrono politiche di incentivazione agli investimenti complessivi”.
Lagarde, in conferenza stampa, si è limitata a ribadire l’impegno per una corretta gestione della politica monetaria, rimanendo in un limbo generico e confusorio che ha ulteriormente preoccupato gli operatori economici, i quali hanno svenduto le obbligazioni dei Paesi del Sud; e come dicevamo, i rendimenti dei titoli di Stato italiani a 10 anni sono ora di 235 punti base superiori a quelli tedeschi, il differenziale più ampio degli ultimi tre anni.
L’Ufficio Studi di Société Générale, ad esempio, teme che la Bce agisca in ritardo rispetto alla “modalità crisi” del mercato dei titoli di Stato europei; un approccio così vago può portare solo all’aumento ingiustificato degli spread. Ed è stata tiepida l’accoglienza nei confronti della successiva affermazione del capo della Banca centrale francese, Francois Villeroy de Galhau, secondo cui “nessuno dovrebbe avere il minimo dubbio, anche nei mercati, sulla nostra volontà collettiva di prevenire la frammentazione”.
In sintesi, la generale impressione è che non ci sia chiarezza sulla possibilità di elaborare qualsiasi nuovo strumento; ciò che serve è un altro programma di acquisto di obbligazioni, necessario per evitare che le condizioni finanziarie si inaspriscano in modo sproporzionato nelle economie mediterranee più indebitate.

Il Drago d’oriente

Pochi mesi fa, ante guerra in Ucraina, in occasione dei festeggiamenti per i 100 anni dalla fondazione del Partito Comunista, Xi Jinping ha espresso concetti estremamente chiari: “La Cina non accetterà ipocrisie da parte di coloro che sentono di avere il diritto di farci la predica. Chiunque cerchi di intimidire la nazione si troverebbe in rotta di collisione con un grande muro di acciaio forgiato da oltre 1,4 miliardi di persone”. Al di là della consueta retorica di stampo maoista, il messaggio è cristallino, ulteriormente confermato dalle tensioni Usa-Cina in corso da oltre due anni ad oggi; Xi sa bene che è in corso un calo nella performance cinese, e tale calo può comportare un problema ancor più serio per tutta l’economia mondiale.
Tutto dipende da tre fattori chiave, non solo per la potenza asiatica. Primo: l’indice ufficiale degli acquisti nel settore manifatturiero (PMI) è sceso (in misura non troppo rilevante, va detto) nel corso di tutto il 2022; secondo: il PMI ufficiale cinese, che si concentra in gran parte sulle grandi aziende statali, ha rilevato un calo della produzione dello 0,8 p.c. (che per i numeri cinesi rappresenta un valore importante); e terzo: i nuovi ordini dall’esportazione, invece, sono diminuiti per alcuni mesi consecutivamente.
Nelle ultime settimane, stabilizzata la reazione all’evento bellico, la crescita dei nuovi ordini è di nuovo in aumento; il segnale è di economia in ripresa, ma ciò comporta nuova domanda di energia, e una carenza di approvvigionamento di carbone nelle regioni meridionali della Cina, iniziata a metà maggio, ha colpito le attività produttive, anche se la propaganda governativa ha mandato segnali rassicuranti.

I rincari delle materie prime

Restano impregiudicati l’aumento dei costi delle materie prime, la carenza globale di semiconduttori e la ripresa dei casi di Covid-19 nella principale provincia di esportazione del Guangdong. Non proprio rose e fiori. Peraltro il rapporto debito-Pil ha raggiunto livelli record, esattamente il 289,7 per cento. Un numero simile a quello degli Stati Uniti, ma inusuale nella storia “industriale” della Cina moderna, la cui politica economica è stata orientata alla riduzione della leva finanziaria. In effetti la Cina ha visto l’incremento del debito durante la crisi finanziaria del 2008; il Governo e la Banca centrale hanno istituito notevoli quantità di stimoli finanziari, soprattutto nella modalità di prestiti bancari. La programmazione prevedeva un allentamento negli anni a seguire, ma la pandemia ha sconvolto ogni pianificazione.
Ciò che colpisce, studiando attentamente l’analisi della BIS (sigla che identifica la Bank for International Settlements, ovvero la Banca dei Regolamenti Internazionali, la più antica istituzione finanziaria mondiale), è che una parte consistente del debito è di tipo societario, cioè contratto dalle varie corporate cinesi, circa il 160 p.c. del Pil. Il debito privato costituisce il 61,7 p.c., mentre quello sovrano il 67,1 p.c. In sostanza, il dato più sorprendente evidenzia che in soli quindici anni, dal 2006 al 2021, il rapporto Debito/Pil della Cina è incrementato dal 143,4 al 289,7 per cento. Secondo molti osservatori di lunga esperienza internazionale, la Cina non corre in ogni caso grossi rischi. La Cina è di fatto riuscita ad imporsi, alle spalle dei soli Stati Uniti, come la seconda economia del mondo fin dal 2010, conservando saldamente la posizione negli anni successivi. Il risultato è stato ottenuto anche grazie alla corretta gestione dell’indebitamento, che ha alimentato la massiccia inarrestabile crescita economica. Inoltre, il Governo Xi ha progettato un nuovo piano teso a dare un taglio profondo al monte debiti nel corso dei prossimi anni; l’obiettivo non è fine a sé stesso: il testo dichiara apertamente di voler giungere al raddoppio del reddito pro capite entro il 2035. Spesso abbiamo espresso riserve su eventuali eccessi di aspettative contenuti nelle programmazioni degli economisti cinesi, ma molto spesso siamo stati smentiti dai fatti, sintetizzati nella tenacia di quel popolo a non voler deludere i “timonieri”. Pertanto la storia recente ci insegna che crisi o non crisi, pandemia o non pandemia, guerra o non guerra, la crescita economica della Cina non conosce sosta.

Ed ora un po’ di vacanze

Amici lettori, vi abbiamo tediato per una lunga stagione con le nostre osservazioni macro economiche e con alcuni riferimenti di storia del pensiero economico-sociale. Ora vi meritate una pausa, che terminerà con il numero del prossimo settembre. Un suggerimento: aspettiamoci un rientro comunque movimentato, con l’aria che tira in due mesi potrebbe di nuovo cambiare ogni scenario. Ad majora!

*senior partner di juris consulta-cultura d’impresa

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