DIARIO DI UN DIPLOMATICO Le sventure diplomatiche d’una cravatta croata

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DIARIO DI UN DIPLOMATICO  Le sventure diplomatiche d’una cravatta croata

Che il telefono sia stato inventato da Meucci, è ormai parte della cultura e della storia italiane. D’altra parte, gli statunitensi e ancora una buona parte del mondo anglosassone, ovvero i popoli del Commonwealth britannico, credono fermamente che il telefono lo abbia inventato l’americano Edison. La stessa cosa si ripete anche con il water-closet, il gabinetto moderno a sciacquone, che tutto il mondo crede sia stato inventato in Gran Bretagna, mentre invece i bulgari hanno scoperto che il primo water-closet sarebbe stato inventato proprio in Bulgaria.
Ma poi, durante il mio soggiorno d’Ambasciatore a Roma, mi sono imbattuto in una versione nostrana, e cioè croata, di una simile invenzione. La cravatta è, generalmente, un accessorio dell’abbigliamento maschile, che certi mercenari croati della Frontiera militare croata in servizio in Francia, durante la Guerra dei trent’anni (1618-1648) indossavano a mo’ di foulard annodato al collo. A causa della lieve differenza di pronuncia tra la parola croata per i “croati”, con la corrispondente francese “croates”, quel particolare foulard prese il nome di cravatta (cravate in francese). Luigi XIV, il re di Francia noto con il nome di “Re Sole”, cominciò a indossare una cravatta di pizzo intorno al 1646, all’età di sette anni, e la sdoganò come accessorio di moda per la nobiltà francese. E così, quando la Croazia divenne indipendente nel 1991, la cravatta assunse un valore nazionale da esportare nel mondo e con esso la “verità storica” sulla cravatta.
Così quando il Presidente croato Tuđman decise che anche i croati avevano delle tradizioni radicate nel tempo da far vedere al mondo, la “cravatta croata” fu ridisegnata e abbinata all’uniforme della Guardia del Presidente della Repubblica.
Ma non ci si fermò lì: per sostenere la storia della cravatta che conquista il mondo, furono organizzati un’istituzione – l’Academia Cravatica – e un reggimento a cavallo che in costumi storici doveva propagare la cravatta nel mondo.
Il Parlamento croato proclamò solennemente il 18 ottobre quale “Giornata della cravatta” e stanziò anche dei fondi per la celebrazione di quest’importante data.
Ma il Reggimento della cravatta, la “Kravat pukovnija” dimostrò di essere un progetto con molti risvolti, per cui si cominciarono a organizzare mostre di storia della cravatta, sfilate e varie attività artistiche al segno della cravatta.
Il Ministero della Cultura finanziò anche la pubblicazione di un romanzo storico sulle avventure della “cravatta croata”, scritto dallo scrittore Božidar Prosenjak, mentre un altro illustre letterato croato, Miro Gavran, organizzò dei convegni dove storici, artisti e perfino diplomatici discutevano dell’importanza della cravatta come “marchio di qualità” croato. Alla fine, Gavran fu insignito dalla Società croata per le Nazioni unite del titolo di “primo Ambasciatore croato della cravatta”.
E il Reggimento della cravatta cominciò a girare per la Croazia, da città a città, salutato dalle autorità locali e dagli spettatori che assistevano alle sfilate. Il più grande successo fu quando l’Arena di Pola, nel 2010., fu rivestita di una grande cravatta rossa, imitando lo stile dell’artista Christo Javacheff, che usava impacchettare edifici, ponti, statue e grandi oggetti. Ma l’ambizione di questo Reggimento e anche dell’Accademia croata era di calare a Roma e – impacchettare il Colosseo! Cioè, rivestirlo con una cravatta gigantesca. E dovetti subire, da Ambasciatore, le pressione del mio governo e di questa sedicente “accademia” che voleva venire a Roma per far vedere all’Italia che la cravatta era il nostro contrassegno nazionale. Feci di tutto per sventare quest’idea assurda. Qui mi venne in aiuto il Comune di Roma: infatti, per far entrare un cavallo nel centro dell’Urbe bisogna avere un permesso e questo comporta il pagamento dei costi di rimozione degli escrementi di cavallo: un po’ meno di mille euro al giorno per ogni equino. Per di più, la Sovrintendenza ai monumenti della capitale italiana non comprese l’importanza nazionale di quest’avvenimento per la Croazia e io non feci proprio niente per convincerla. Ma furono i costi dello sterco equino che scoraggiarono, alla fine, i miei capi a Zagabria. Per di più, suggerii, discretamente, che in fin dei conti quei soldati croati a Parigi provenivano dal Confine militare: etnicamente, non potevano essere croati, ma serbi, come allora lo erano i reggimenti alla frontiera con i turchi. E poi, se questo venisse scoperto… e non se ne fece niente, per fortuna.

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