Ricostruire l’identità (anche) al cinema

Vittorio De Sica, cineasta tra i più influenti, è stato uno dei padri del Neorealismo, regista, ma anche interprete di indimenticabili commedie all'italiana

0
Ricostruire l’identità (anche) al cinema

Nella programmazione delle sale cinematografiche e sulle piattaforme web il cinema americano occupa la maggior parte dell’offerta in Italia e in Croazia. Per il cinema italiano è difficile vivere da protagonista se quello d’oltreoceano propone storie in cui l’effetto speciale e le star dominano sul grande schermo. Eppure c’è stata una stagione in cui il cinema italiano ha insegnato a tutto il mondo il valore delle piccole storie, non necessariamente consolatorie, con un contenuto di verità e spesso senza lieto fine. Mi riferisco al Neorealismo, che ha contribuito a svegliare le coscienze italiane, a guardare senza “filtri rosa” il dopoguerra, quando crollate le certezze, insieme ai palazzi, rimaneva da ricostruire non solo una nazione, ma anche un’identità. L’impatto che hanno avuto sul cinema europeo Roberto Rossellini, Luchino Visconti e Vittorio De Sica ha contribuito, uscendo dai confini nazionali, a ricostruire non solo il cinema, ma anche l’identità, ha influenzato registi come Orson Welles, Elia Kazan e John Landis e la nascita della Nouvelle Vogue in Francia.

 

L’attenzione va a Vittorio De Sica, artista poliedrico e complesso, dapprima attore teatrale e poi interprete di grandi commedie all’epoca dei telefoni bianchi e infine regista. Carlo Lizzani diceva che attraverso i suoi film De Sica “riusciva a far diventare importanti le piccole cose, a dare significati profondi alle vicende quotidiane”. Rimane comunque un mistero come De Sica, un attore considerato “leggero e bello” abituato a interpretare protagonisti sentimentali, sia diventato uno dei più grandi registi tragici d’Europa. È come se Tom Cruise si trasformasse improvvisamente in Michael Moore. Eppure, tra la sua attività da attore e il regista tragico neorealista alcuni legami ci sono. De Sica portava con entusiasmo il suo talento d’attore nel suo stile di regia, istruendo gli attori dilettanti sul modo di recitare, mettendo in scena le parti per mostrare loro come dovevano essere fatte le cose. Sebbene De Sica abbia continuato a lavorare con Marcello Mastroianni, Montgomery Clift, Sophia Loren e Jennifer Jones, non ci sono stelle del cinema nei suoi primi capolavori realizzati a cavallo tra la fine degli anni ‘40 e i primi anni ‘50.

Gli attori: operai e professori

Negando il glamour da star, De Sica faceva il casting in base all’autenticità di un volto. Lamberto Maggiorani, il magro protagonista di Ladri di biciclette, era un operaio. Carlo Battisti, che interpretava Umberto D., nella vita reale era un professore universitario in pensione. Nessun attore di grande fama avrebbe potuto vivere sullo schermo come queste persone. Dopo tutto, come affermava De Sica: “Ci sono milioni di personaggi, ma solo 50 o 60 star del cinema”. Ai suoi occhi era una strana illusione che così poche persone potessero incarnare fedelmente l’esperienza di così tanta gente. Grazie a questo approccio l’operaio e il professore universitario diventarono attori legati all’artificio quanto attori di Hollywood del calibro di Cary Grant o Spencer Tracy. I film di De Sica raccontano la verità sul mondo contemporaneo non come documentazione, ma attraverso l’illuminazione evocata della poesia. I suoi primi film – specialmente Shoeshine (Sciuscià, 1946), Ladri di biciclette (1948) e Umberto D. (1952) sono tra le glorie del cinema europeo. Insieme sono valsi 4 Oscar come miglior film straniero.

I primi passi nello spettacolo

Ma veniamo a Vittorio De Sica e ai suoi primi passi nel mondo dello spettacolo. Nasce il 7 luglio del 1901 a Sora, in Campania. La famiglia sente di appartenere a Napoli, il padre Umberto, un impiegato di banca, sarà per Vittorio il primo maestro; è un padre pieno di iniziative che suona, fa il giornalista, si circonda di innumerevoli passatempi e conduce una vita modesta. Con la Prima guerra mondiale la famiglia si sposta a Firenze e poi definitivamente a Roma, dove nasce la passione di Vittorio per il teatro e la canzone. Da ragazzino canta le canzoni napoletane, a quindici anni si esibisce per i feriti di guerra negli ospedali di Roma. A 17 anni fa la sua prima comparsata in un film muto e muove i primi passi di una carriera che durerà 60 anni. Termina nel frattempo gli studi di ragioneria per fare piacere al padre che è comprensivo, ma gli chiede di prendere il diploma. Nel 1923 segue per due anni la mitica compagnia di Tatiana Pavlova. Per lui è la classica gavetta da generico: secondo attore brillante, poi secondo attore giovane e infine la conquista di ruoli da protagonista. A quei tempi nessuno veniva promosso per simpatie o perché aveva fatto un “reality show” e così, nel 1930, a 29 anni De Sica è già primo attore. Lo stesso anno viene notato dal regista Mario Mattioli, titolare della compagnia Za-Bum, che lo vuole negli spettacoli di rivista con l’attore comico Umberto Melnati. Nel 1933 decide di fondare una compagnia con Sergio Tofano e con Giuditta Rissone, che sposerà e con la quale avrà una figlia, Emilia. Ma la sua carriera non si limita al teatro.

I ruoli brillanti

Già da attore brillante inizia a girare per il cinema, nel muto con il film La compagnia dei Matti(1928) del regista Mario Almirante, padre di Giorgio Almirante. In un’intervista De Sica dichiarò che fu quel film a rovinargli la reputazione dell’attore bello con quel film: “Il truccatore mi truccava talmente male, con dei baffi alla cinese, e io con quel nasone, molto magro ero talmente brutto con la protagonista del film, Elena Lunda, che Pittaluga, padrone del cinema italiano, decretò che io non sarei mai più entrato in uno studio cinematografico”. Arriva però il sonoro e tutto cambia, in meglio, con Mario Camerini e i film Gli uomini, che mascalzoni, Il signor Max e Grandi magazzini. Sono storie semplici, romantiche, piccolo borghesi e rassicuranti che raccontano in una vita simile a quella che conosce De Sica. De Sica aggiunge ai personaggi che interpreta il suo tocco, la sua allegria, il gusto dello sberleffo. È il “piacione di classe”, con il gusto per la battuta insieme alle sue canzoni comiche come la celebre: Parlami d’amore Mariù. De Sica si ritrova così uomo di successo, con due famiglie e tre figli, Emilia dal primo matrimonio e Manuele e Christian. Con doppie famiglie ci saranno anche doppi Natali, Pasque e Capodanni; sempre cercando di fare felici tutti.

L’incontro con Zavattini

Nel 1939 si mette per la prima volta dietro la macchina da presa e dirige il suo primo film da regista, una commedia leggera dal titolo Rose scarlatte. Proseguirà con film simili – spicca tra gli altri per qualità Teresa Venerdì – fino al 1942. L’anno dopo avviene il salto. Con I bambini ci guardano inizia la collaborazione con un uomo al quale De Sica abbinerà il suo nome per gli anni a venire, col quale nascerà la coppia più prolifica del cinema italiano di quei decenni: Cesare Zavattini. Il loro è un incontro di sensibilità simili, entrambi vivono nel loro tempo, consapevoli che le cose stanno cambiando in modo irreversibile. Si conoscono nel ‘39 quando De Sica coinvolge Zavattini nella stesura di Teresa Venerdì; poi la collaborazione cambia segno perché di lì a poco l’Italia sarebbe stata sconvolta dai lutti, dalla fame e dalla distruzione e non si poteva tacere e far finta di niente. Entrambi sentono la necessità di dare voce alla realtà delle cose. Dopo anni di commedie dei telefoni bianchi, dopo le commedie di Mario Camerini, sentono la necessità di dare un senso nuovo al cinema incentrandolo sulla realtà. Non sono alla ricerca di finali positivi, di sentimentalismi e di piccole storie d’amore.

Potenza narrativa

Con Zavattini, De Sica scorge una potenza narrativa, una rettitudine intellettuale che lo conquista, la capacità di Zà era di rendere le cose fotografandole, senza lasciarsi andare in preda a una fantasia al servizio del sentimentalismo, senza rendere i fatti più brutti o più belli. Per fare questo non c’è bisogno di storie con personaggi fittizi, basta guardare fuori dalla finestra e trovare storie reali, in una realtà che deve essere mostrata al pubblico, come quella della guerra e del dopoguerra. Nel 1972, in un’intervista per Radiomontecarlo, De Sica dichiara: “L’obiettivo della cinepresa mi interessava sempre di più; dire oggi che fino a quel momento pensassi al realismo sarebbe forse presunzione, ma è verità che avevo già intuito la possibilità che portare la macchina da presa fuori dagli stabilimenti, all’aria aperta, ovunque fosse la vita degli uomini.” Poi, rispondendo alla domanda se fosse vero che era in grado di “far recitare anche i sassi”, De Sica spiega: “Ci sono due categorie di registi, quelli che hanno un’abilità di tecnica cinematografica, formale, e poi ci sono registi che fanno recitare bene gli attori. Io faccio parte di questa seconda categoria; di tecnica me ne intendo poco e faccio quella più modesta che esista. Voglio che il pubblico non si accorga della macchina da presa, cerco di portare il pubblico dove avviene la scena e dove i miei personaggi agiscono e poi curo la recitazione”.

Ieri, oggi, domani è un film diretto da Vittorio De Sica nel 1963.

Una vita di successi

De Sica è un appassionato giocatore dalle fortune alterne che per mettere a posto le finanze dissestate, pur da affermato regista, continua a fare l’attore. È con il regista Alessandro Blasetti che avrà un grande successo grazie a un episodio in cui interpreta la parte dell’avvocato difensore di Gina Lollobrigida. Vanno citati anche i suoi ruoli nei film Il generale Della Rovere di Rossellini e quello del Maresciallo Carotenuto che indossa in Pane amore e fantasia (1953) di Comencini. Due anni dopo il successo del film Il giardino dei Finzi Contini, nel 1974, si spegne vicino a Parigi per i postumi di un’operazione per un cancro ai polmoni. Una delle sue ultime apparizioni sarà a Canzonissima, dove interpreta in modo sublime “Signorinella”. In quegli anni gli ospiti dei varietà del sabato sera erano artisti del calibro di Vittorio De Sica.

Il Neorealismo, le critiche, il successo
Il cinema di regime durante la guerra si era spostato da Roma a Venezia presso la Repubblica di Salò. Nel 1943 De Sica non accetta di andare a Venezia e si rifugia nella basilica di San Paolo fuori le mura in Vaticano e gira La porta del cielo, coinvolge Zavattini e aspetta che gli Alleati risalgano la penisola allungando i tempi di ripresa. Evita di allinearsi, salva la vita a donne e uomini ebrei braccati dai nazisti. Attende che finalmente la guerra finisca per spiccare il volo con Sciuscià. Nasce una corrente cinematografica espressiva che cambia il cinema italiano, acclamata dal pubblico: il Neorealismo. Emilia De Sica, la primogenita di Vittorio, racconta l’aneddoto dell’incontro avvenuto una domenica quando il padre Vittorio, passando in bicicletta per piazza di Spagna vide Rossellini sulla scalinata intento a prendere il sole. “Robè, che stai a fa’?”, gli chiese. Rossellini rispose: “Devo fa’ un film con Anna, poi ho preso per la parte di un prete, una parte drammatica, un comico che si chiama Fabrizi”. Poi chiese a sua volta: “E tu, che stai a fa’?”. La risposta di De Sica: “Voglio fare un film sui bambini, gli sciuscià, che puliscono le scarpe a Via Veneto, vabbè ciao Roberto”. È in quel momento che per De Sica nasce il Neorealismo.

Ladri di biciclette

La grande onestà intellettuale di Zà(vattini) e la capacità di De sica trovano una dignità nel racconto cinematografico, un racconto che con Ladri di biciclette diventerà un riferimento mondiale per cineasti ed entrerà nella storia del cinema. Il regista e autore Mario Soldati scrive a De Sica: “Caro Vittorio tu albeggi, noi tramontiamo; telefonami, soffro, ciao.” Il Vaticano chiede il sequestro per offesa alla morale e religione e nemmeno alla sinistra del tempo, che sente tradita la sua idea di sindacato e vicinanza ai lavoratori. Critiche arrivano anche dal pubblico che fischia la pellicola. La solitudine del protagonista e del figlio fa male a troppi, questa potrebbe essere la verità. Forse anche per queste critiche De Sica realizza un film diverso, più onirico, felliniano, ispirato a un libro di Zavattini, Totò il buono e Miracolo a Milano, che l’establishment considera un film eversivo. È la storia di alcuni barboni e di un orfanello che partono alla ricerca di una vita migliore. La pellicola viene premiata, ma in Italia non viene capito lo spirito di Zavattini che questa volta gioca sulla favola, sulla ricerca della bontà e sulla tristezza di una vita che è diversa da come si vorrebbe sia. Nel 1951 è la volta della favola del ragazzo che a cavallo di una scopa vola sopra il Duomo – un’immagine che anni dopo ispirerà Steven Spielberg per la scena con le biciclette in ET. Umberto D. (1952) è interpretato da un professore di Glottologia, Carlo Battisti.

La lettera di Andreotti

De Sica confesserà: “A poco, a poco ottenni la sua convinzione, gli mostravo perché mi imitasse e poi lavoravo per togliere quello che c’era di mio e far emergere così la sua personalità e i suoi difetti. Questo perché ho un’educazione teatrale di molti anni; sono ancora attore”. Nemmeno questa volta il governo è felice del film che non fa sconti a un’Italia che fa fatica a stare dietro al sogno di progresso. Giulio Andreotti, all’epoca sottosegretario con delega per lo Spettacolo, dopo la proiezione del film scrive una lettera diventata famosa: “Se è vero che il male si può combattere anche mettendone duramente a nudo gli aspetti più crudi, è pur vero che se nel mondo si sarà indotti erroneamente a ritenere che quella di Umberto D. è l’Italia della metà del XX secolo, De Sica avrà reso un pessimo servizio alla sua patria”. Nascondere la polvere sotto al tappeto come vorrebbero i politici e il Vaticano non ferma De Sica che va avanti per la sua strada: amare il prossimo come il cinema. In una lettera alla figlia Emilia scrive: “La vera autentica forma di governo si ispira a un sano socialismo, il capitalismo ha invaso il globo”. Con La ciociara (1960) interpretata da Sophia Loren (che vinse l’Oscar), De Sica-Zavattini si confermano capaci di esportare uno stile italiano in tutto il mondo.

Film da Oscar

Shoeshine in inglese, Sciuscià in dialetto napoletano, i lustrascarpe, ha per protagonisti due bambini, Pasquale e Giuseppe che si guadagnano da vivere, coltivano sogni senza speranza, in una Roma priva di aspettative. La Roma del dopoguerra di De Sica conquista il pubblico e la critica straniera. Viene istituito nella Notte degli Oscar, nel ‘46, un premio speciale per poterlo dare a Sciuscià con la seguente motivazione: “Nato palpitante di vita in una nazione devastata dalla guerra dimostra al mondo che lo spirito creativo può trionfare sulle avversità”. La famosa statuetta andrà anche a Ladri di biciclette, Ieri, oggi, domani e al Giardino dei Finzi Contini. Inoltre, anche Matrimonio all’italiana fu candidato all’Oscar per il miglior film in lingua straniera. A De Sica andò invece la nomination per l’attore non protagonista con Addio alle armi.

Quando il dolore diventa visibile

I personaggi di Vittorio De Sica sono persone invisibili che rende visibili. In genere la mancanza di piccole somme di denaro li spinge alla disperazione; la perdita di una bicicletta può distruggere un’intera vita. Tormentati dall’oppressione e dalla povertà, i suoi protagonisti cadono in atti di compromesso morale; gli eroi devono diventare ciò che la loro coscienza condanna: una spia, un bullo e un ladro, un mendicante. La tristezza in questi film è la conseguenza di una struttura sociale. In Umberto D. e in Ladri di biciclette siamo portati all’interno di vite particolari, in storie uniche che riescono a incarnare una sconfitta generale. Quest’impressione della vita individuale si ritrova nell’occhio di De Sica per i dettagli, incisi nella superficie delle cose come i graffi sul muro della cucina dove, in Umberto D., ogni mattina la cameriera incinta strofina sul muro i fiammiferi per accendere il gas. Sono grandi film urbani, che ci portano a conoscere quella che per il pubblico borghese è la città invisibile dei poveri: i banchi dei pegni, gli appartamenti angusti e sgangherati, il boudoir della chiromante, i mercati, le mense dei poveri e i circoli sociali.

Questi film ci permettono di penetrare in un brulicante mondo metropolitano e ci presentano dolori ai quali altrimenti resteremmo indifferenti. I film ci invitano, con persuasione mai enfatica, a essere testimoni di queste tragedie. Esseri umani sguarniti, ingenui e posseduti da una semplice fede nella vita che ritroviamo nell’amore dei bambini lustrascarpe per il cavallo che desiderano comprare con i propri risparmi, nel sentimento di Umberto D. per una ragazza incinta sola e per il suo cane. Nei film di De Sica le persone non vengono ricompensate; la storia ci porta oltre il momento della perdita e ci lascia solo con la possibilità di andare avanti. Ad esempio nel finale di Ladri di biciclette, quando padre e figlio si prendono per mano mentre si muovono tra la folla anonima, viene illustrato un simbolo di compassione e solidarietà umana che appare commovente. Tuttavia, mentre camminano si perdono di vista. Hanno l’un l’altro, ma non ci sono più. Per De Sica c’è una risposta a tutto, tranne alla morte.

Tutti i diritti riservati. La riproduzione, anche parziale, è possibile soltanto dietro autorizzazione dell’editore.

L’utente, previa registrazione, avrà la possibilità di commentare i contenuti proposti sul sito dell’Editore, ma dovrà farlo usando un linguaggio rispettoso della persona e del diritto alla diversa opinione, evitando espressioni offensive e ingiuriose, affinché la comunicazione sia, in quanto a contenuto e forma, civile.

No posts to display