Fiume, la storia di una città di passione

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Fiume, la storia di una città di passione

Che cos’è stata Fiume nel passato? E, soprattutto, cos’è Fiume oggi, l’odierna Rijeka della maggioranza croata? È l’interrogativo, o meglio il dilemma per molti aspetti ancora insoluto, al quale ha cercato di rispondere lo storico triestino Raoul Pupo con il suo nuovo libro “Fiume città di passione”, uscito recentemente per i tipi di Laterza. Nelle oltre 300 pagine di questa nuova e attesa storia di Fiume, Pupo parlando dell’impronta del capoluogo quarnerino indica una caratteristica, tipica del percorso di molte altre città europee fra Ottocento e Novecento: quella della polarità fra “urbicidio” e “resilienza”.

Privata dell’anima degli abitanti

Fiume, nel secondo dopoguerra – afferma lo storico – ha subito un “urbicidio” (o, potremmo aggiungere, “poliscidio”). Come tante altre città, alcune molto più sfortunate perché completamente distrutte, il suo tessuto urbano, la sua “fisicità” sono stati privati, in gran parte, della comunità originaria, dell’anima dei suoi abitanti. Tuttavia – ci dice lo studioso – la città non è sparita, il suo tessuto urbano continua a esserci, è cresciuto, mutando e adattandosi – con ciò che è rimasto della componente italiana, oggi una piccola minoranza – alle nuove realtà. Un esempio straordinario di “resilienza”, di radicamento capace di spuntarla anche sugli aspetti più devastanti della modernità. Ma, si chiede e ci chiede Raoul Pupo, si tratta della stessa città?
La risposta è insita nella sottile distinzione fra “urbs” e “civitas” (o polis), fra l’insieme urbanistico e architettonico, la struttura fisica della città e la sua “anima”, la sua identità, coincidente con la “comunità di cittadini”, una comunità di destino così come la intendevano i greci e i romani. La città per gli antichi è soprattutto il progetto di un’identità fra “polis” e “polites”, città e cittadino; che va intesa non tanto come luogo fisico, quanto, prima di tutto, come comunità vivente.
“Una comunità – afferma Pupo – disposta ad abbandonare alle fiamme case e templi pur di mantenere la propria identità, da trapiantare magari altrove, perché quel che conta sono le persone e non i mattoni”.
Dopo il 1945 l’“urbs” è rimasta, mentre la “civitas” se n’è dovuta andare, rischiando di disperdersi e portando via con sé – afferma l’autore – “uno dei connotati forti della vecchia Fiume e cioè il multiculturalismo, già compromesso durante il ventennio fascista”.
La Jugoslavia, dopo la guerra, ha preteso di far nascere un’altra città, un’altra artificiale “civitas” sulla stessa “urbs”, abbandonandola al monolitismo nazionale e innescando un processo di “semplificazione”, di “reductio ad unum”; lo stesso che ha devastato l’Europa centro-orientale nel corso del Novecento, privando quest’area di una delle sue maggiori ricchezze; la pluralità.
Se così è – afferma l’autore – emergono, nell’ultimo passaggio storico di Fiume, soprattutto gli elementi di rottura, specialmente se essi “si producono in maniera repentina e le trasformazioni non hanno quindi il tempo di venir metabolizzate e inserite dalle generazioni successive in un’autorappresentazione coerente capace di legare passato e presente”. Rimane dunque sullo sfondo, risultato delle lacerazioni e degli sradicamenti del Novecento, l’immagine incombente della città dell’esilio, “paradigma – così Pupo – di una condizione tipica del Novecento europeo, ma che il secolo nuovo sembra voler dilatare al mondo: quella del profugo”.
Nel suo libro Raoul Pupo scruta, con un preciso e ampio raggio analitico, i vari periodi storici della città, dal corpo separato alla città irredenta, dalla “città di vita” di D’Annunzio al fascismo di confine, dalla guerra al secondo dopoguerra, ovvero al difficile passaggio da Fiume a Rijeka.
Nella sua attenta analisi, sorretta da un linguaggio piacevole e accattivante, tale da attirare anche i non addetti ai lavori, quasi una narrazione letteraria, ci spiega i tanti nodi e passaggi storici della città, mettendoli in relazione con i grandi processi europei e mondiali, con i fenomeni di costume, le tendenze culturali, le pulsioni civili dei vari periodi. Una luce particolare si proietta sulla parentesi, straordinaria e controversa, di D’Annunzio, quel laboratorio, spesso precursore di spinte e pulsioni che avrebbe contaminato la società italiana ed europea.
Ma, ciò che è più importante, nel suo sguardo finale Raoul Pupo offre, basandosi sull’analisi storica, degli straordinari strumenti per comprendere che cosa sia Fiume oggi e, soprattutto, che cosa possa diventare nel futuro.
Non è un caso che nel capitolo finale l’autore citi due grandi intellettuali fiumani: Paolo Santargangeli e Osvaldo Ramous, un “andato” e un “rimasto”.

Soltanto ospiti

Noi siamo sempre altrove, ospiti soltanto: sta di là il fiume che separa e toglie” afferma – citato da Pupo – l’autore de “Il porto dell’aquila decapitata”. “Città pellegrina che mi allaccia, m’inganna e mi consuma e ormai non vive che nelle parole mie e dei pochi che mi rassomigliano, veterani di fughe mancate” recitano alcuni dei versi più belli ed emblematici di Ramous.
Tra “urbs” e “civitas”, fra realtà urbana odierna e “comunità di destino”, l’insieme di cittadini formanti la sua identità vi è una componente importantissima: la comunità italiana “rimasta” che oggi continua, nonostante tutte le sue debolezze, a costituire il tratto d’unione – un filo sottilissimo – fra passato, presente e futuro. Quei “veterani di fughe mancate” rappresentano se non l’unico, uno dei pochi gracili appigli per ricostruire l’“anima”, ritrovare l’identità perduta della città. Loro sono la “Fiume” ancora concretamente presente nell’odierna “Rijeka”. I progetti che si stanno promuovendo per ripristinare il bilinguismo e gli odonimi storici della città, in vista del 2020, anno di Fiume città europea della cultura, sono il segno di questa presenza, di uno sforzo teso a riconquistare i valori della “civitas – polis” dimenticata, della condivisione di valori per tutti gli odierni cittadini di una Fiume – Rijeka plurilingue e multiculturale, porto – dunque approdo sicuro – delle diversità.
Per comprendere il presente della città è necessario scrutare il suo passato attraverso “lo stato di coscienza”, gli aneliti, le dinamiche culturali, i dilemmi e i fermenti identitari che si sono incrociati in una città divisa e complicata come Fiume, prodotto, come altri nuclei urbani dell’Adriatico orientale (ed europei) della sovrapposizione di innumerevoli sedimenti storici, linguistici e culturali, simbolo, per molti aspetti, dell’“inafferrabilità” del concetto stesso di città; espressione della coesistenza di diverse dimensioni e realtà, di identità profondamente intrecciate che spesso si specchiano senza, al contempo, incontrarsi mai.
“Fiume città di passione” di Raoul Pupo è anche, simbolicamente, una delle “città invisibili” di Italo Calvino. Come tutte le città, è anche il frutto dell’immaginazione, di una narrazione, di un’idea.
È un po’ come Diomira, la città della memoria di Calvino, o Despina, la città del desiderio, o Sofronia la città doppia: metà permanente, l’altra transitoria. O ancora la calviniana Anastasia la quale “non fa che risvegliare i desideri uno per volta per obbligarti a soffocarli”, o Ottavia, la città-ragnatela sospesa nel vuoto, o Pentesilea, dove il visitatore, dopo ore e ore di vagabondaggio, non ha ancora capito se si trova al centro o non l’ha ancora raggiunta, e se, una volta raggiunta, sia possibile uscirne.
Tutti questi luoghi, frutto dell’immaginazione, del paradosso, raccontano la nostra realtà quotidiana: indicano la simultanea molteplicità di un mondo che ci illudiamo di conoscere e controllare, e che invece ci sfugge inevitabilmente.
Fiume, la città della passione, la città di Adamich, Ciotta, Maylender, di D’Annunzio e di Zanella, di Leo Valiani, di Gemma Harasim, di Emma e Irma Gramatica, di Emidio Mohovich, di Grossich, di Francesco Drenig, di Enrico Morovich, la città di Ramous e di Venucci è anche questo; un qualcosa che ci portiamo appresso che è sempre “altrove”, un caleidoscopio in cui si assommano e si elidono i segni più controversi, indecifrabili. In fondo, ci dice Calvino: “Di una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda”.

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