«Canzoni d’una volta» Concerto per i sessant’anni di carriera di Lidija Percan

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«Canzoni d’una volta» Concerto per i sessant’anni di carriera di Lidija Percan

POLA | Sessant’anni di splendida carriera musicale. È l’imponente anniversario che Lidija Percan, la più significativa rappresentante della canzone istriana, celebra con un concerto dal titolo bilingue “Canzoni d’una volta – Pjesme zauvijek”, in programma oggi, alle ore 20.30, nel Teatro cittadino di Pola (INK). L’evento – che si svolgerà nell’ambito delle celebrazioni della Giornata della Città di Pola – vedrà la celebre cantante istriana affiancata per l’occasione dal Coro della chiesa di San Antonio, dal Coro di voci bianche Zaro, dalla SAC “Mate Balota” e da Monika Demori (nipote di Lidija Percan). E poi ancora Marinela, Alen Vitasović, Serđo Valić, Bruno Krajcar, Vesna Nežić-Ružić, Anelidi, In vino veritas, Dražen Turina Šajeta, Zdenka Kovačiček e Ivo Pattiera.

Con i suoi sei decenni di presenza sulla scena musicale istriana, Lidija Percan si è imposta al pubblico con canzoni in lingua croata, ma soprattutto grazie a quelle in italiano, in prevalenza dialetto veneto, sia d’autore che popolari. Fatto, quest’ultimo, che ha contribuito in maniera significativa alla diffusione della cultura e della lingua italiane nei territori dell’ex Jugoslavia. In occasione del concerto di questa sera, abbiamo voluto incontrare Lidija Percan per una chiacchierata.
“A casa abbiamo sempre parlato in lingua italiana, per essere più precisi, in istroveneto – ha esordito –. Dialetto che ho sempre amato e che considero mio. Ho frequentato la scuola italiana, ma a causa dei ritocchi dovuti alla Storia, l’intera classe è stata trasferita in quella croata”.

Che cosa significa per lei cantare?

“Tutto. È la mia vita, le mie emozioni e sentimenti. In cuore mio ho sempre voluto soltanto cantare. Amavo la musica. Ricordo che da bambina, ogni volta che pregavo la Madonna, la imploravo di poter diventare bella come lei e di poter soltanto cantare”.

Come si è avvicinata al mondo della musica?

“È stato nella chiesa di Castelnuovo, dove avevo iniziato a eseguire componimenti vocali di musica sacra, genere che non ho mai studiato. Li interpretavo che ero piccolissima. Poi, una volta trasferitami a Pola, da quindicenne, mi… imbattei in brani di musica sacra nella chiesa di San Antonio. Contemporaneamente avevo iniziato a frequentare assiduamente la Comunità degli Italiani di Pola, che all’epoca portava il nome di Circolo Italiano di Cultura. È lì che avevo acquisito i miei primi brani di musica leggera. Ero la prima cantante della Comunità polese. Prima di me non c’era stato nessuno. Ho intrapreso i primi passi sotto la direzione del maestro Lino Rocco, che dirigeva anche l’orchestra mandolinistica con una ventina di membri”.

Che ricordi conserva del suo paese natio, Castelnuovo d’Arsa (Rakalj)?

“Sono molto legate a Castelnuovo d’Arsa, ci vivo ancora. È il mio paese, la mia oasi. È il posto dei miei ricordi. Lì sono nata e lì desidero restare per sempre”.

E della Comunità degli Italiani di Pola?

“La frequentavo assiduamente. Ci andavo spessissimo. Oltre a Lino Rocco, la cui intera famiglia era dedita all’insegnamento dell’arte musicale – la moglie insegnava pianoforte e il figlio era violoncellista –, tanto da trasmettermi l’amore e la cultura musicali, ricordo Nello Milotti, uno dei più noti e apprezzati compositori, pedagoghi e direttori di coro istriani. È stato un bravissimo professore, ma anche una persona gentile, sempre pronta ad aiutare. Lo stimavo tanto per la sua gentilezza e lo pregavo spesso di aiutarmi a sistemare gli spartiti. Ricordo di come Nello Milotti fosse un convinto sostenitore dell’utilità del canto in chiesa, perché secondo lui, soltanto in quello specifico ambiente si poteva acquisire l’essenza vera e originaria della musica”.

Le sue canzoni, soprattutto in dialetto istroveneto, hanno assunto con il tempo un’espressione sintomatica dell’esodo della popolazione italiana da queste terre. Subito dopo la guerra, la sua dizione in lingua italiana era perfetta, ma in quelle dei periodi più recenti, si notano delle stonature. Che cosa è successo?

“Penso che ciò rispecchi la realtà di quello che è accaduto in Istria. Con l’esodo, le città si sono svuotate dall’elemento italiano, e come diretta conseguenza, la parlata locale, quella del dialetto istroveneto, è venuta a mancare. Dall’utilizzo quotidiano, il dialetto è stato purtroppo rilegato all’uso privato, tra le mura di casa. Non parlando più in dialetto, è venuto a mancare anche il suo esercizio quotidiano. Cosa, che nel mio caso, si è rispecchiata pure nelle canzoni. Devo però dire che mi addolora che i giovani, che hanno terminato le scuole e le Università in lingua italiana, e quindi possiedono una formazione invidiabile, non si facciano avanti. Sono consapevole del fatto che tantissimi di essi se ne vanno all’estero alla ricerca di una sicurezza finanziaria, che in Croazia purtroppo stentano a ottenere. Credo però che bisognerebbe puntare molto di più sui giovani per creare una Comunità forte e sana”.

Come sono nati i suoi brani, specialmente quelli contenuti nell’album “Canzoni d’una volta” quali “Reginella Campagnola”, “Ciribiribin paghé una birra”, “La bella campagnola”, “Ancora un litro de quel bon vin”, “Mamma mia dammi cento lire”, e tanti altri che sono splendidamente accompagnati dalla mandolinistica?

“Mi recavo a Trieste ad acquistare gli spartiti di musica. A procurarmeli era una famiglia triestina che li conservava per me. La maggior parte di queste canzoni popolari sono state arrangiate e prodotte da Stipica Kalogjera, figura portante della musica croata, per la Jugoton, la principale casa discografica dell’ex Jugoslavia. Il suo apporto è stato fondamentale. Stipica Kalogjera non possedeva alcun legame con la cultura e la lingua italiane, ma aveva un dono per l’arrangiamento, la composizione e il ritmo della musica. Mentre gli altri avevano bisogno di studiare e analizzare i brani per poterli poi arrangiare, lui riusciva a farlo in modo naturale e immediato. Gli anni intensi, pieni di creatività trascorsi alla Jugoton di Zagabria, furono tali anche grazie ai direttori artistici Vlado Seljan e Pero Gotovac, fautori e promotori del bilinguismo e del belcanto italiano. Cosa che segnò l’inizio di una nuova era di produzione della Jugoton con la canzone italiana, che portò alla realizzazione di ben 8 album”.

Queste canzoni hanno avuto l’aiuto o l’apporto dei coristi e dei musicisti della Comunità degli Italiani?

“All’inizio si trattava dei coristi dello studio zagabrese, mentre negli album successivi abbiamo ottenuto la collaborazione del coro maschile ‘Valdibora’ di Rovigno. Molto bravi, grandi esperti di musica. Li invitai a venire alla Jugoton e ancora oggi mi ricordo dello stupore e della meraviglia di Stipica Kalogjera nel sentire le loro voci calde e potenti cantare in lingua italiana”.

Che cosa significava per lei cantare in lingua italiana nella Jugoslavia postbellica?

“È stata una sensazione bellissima. Non ho mai avuto problemi, di alcun genere. Cantavo anche per i militari nelle varie Case dell’Armata popolare jugoslava, e non ho mai vissuto impedimenti. Le dirò anche che nelle mie canzoni non è mai intervenuta la censura politica”.

Tra tutte le canzoni che ha interpretato, quali sono quelle a cui tiene di più?

“Amo tutti i brani della serie ‘Canzoni d’una volta’, che contiene ben 8 album. Sono canzoni a cui sono particolarmente legata perché erano quelle che usava cantare mio padre. E io, bambina, per forza di cose, le assimilavo immediatamente, condividendo con lui l’emozione dell’ascoltarle. Quelle in lingua croata, a cui tengo particolarmente, sono invece ‘Hiljadu suza za jednog mornara’ e ‘Sve su se laste vratile sa juga’ che il compositore Đorđe Novković scrisse per me”.

Tra le sue esibizioni, qual è quella che ricorda con maggiore affetto?

“I concerti tenuti negli Stati Uniti, organizzati dalla Comunità Istriana degli Usa. La prima esibizione negli States fu all’Astoria Hall di New York nel 1972. Fu uno spettacolo meraviglioso. Ricordo che rimasi particolarmente sorpresa dalla partecipazione del pubblico. Seguirono altri concerti tra cui anche quello con Đani Maršan per Capodanno. Tenni inoltre dei concerti in Unione Sovietica, dov’ero l’unica ad avere il permesso di cantare in italiano – e non nella lingua di provenienza dello Stato, in quel caso serbo-croata –. Me lo permisero perché venivo dall’Istria, terra di confine con l’Italia. Rimasi sbalordita del concerto in Russia, perché gli spettatori, circa 5mila, furono talmente disciplinati e ordinati che la cosa m’impressionò non poco. Il pubblico non fece il benché minimo rumore, né entrando in sala né tanto meno alla fine del concerto, al momento dell’uscita.Erano tutti incredibilmente disciplinati”.

Che cosa è rimasto oggi della tradizione musicale istriana, sia italiana che croata?

“È rimasta una forte cultura musicale, che induce molte persone a occuparsi professionalmente di musica. Penso che ancora oggi ci sia una consistente produzione musicale che riscontra un certo successo, ed è dovuta alla lunga tradizione che abbiamo”.

Molti giovani scelgono la carriera musicale. Che consigli si sente di fornire loro?

“Il mio consiglio per chi sente la vocazione musicale è di intraprendere questa carriera. Ma prima di farlo, deve studiare, ottenere una formazione, perché essa facilita poi l’intero percorso. Oggi non basta avere soltanto il dono del canto, ma è necessario raggiungere anche una determinata formazione musicale. Un altro consiglio che mi sento di dare, è quello di essere persistenti e tenaci, come lo sono stata io, e di non mollare mai, perché prima o poi il loro sogno si avvererà”.

Perché le canzoni in dialetto istroveneto non trovano oggi una controrisposta, com’è successo nel suo caso? “Ciribiribin”, “La mula de Parenzo” e altri brani durano infatti ancora nel tempo.

“Credo che tutto dipenda dai redattori musicali e in quale misura scelgano di ‘far girare’ alla radio le canzoni di produzione locale. Che noi lo vogliamo o no, è questo che decreta la fortuna e il successo che avrà un brano. Non avrei mai pensato che la mia interpretazione de ‘La mula de Parenzo’ sarebbe diventata così celebre da persistere nel tempo. Ero fermamente convinta che altri brani si sarebbero imposti tra il pubblico. È stato invece il gusto di un redattore musicale, che l’ha fatta girare ripetutamente alla radio, a definirne il successo”.

Qual è il suo rapporto con la Comunità Nazionale Italiana?

“Di natura sono una che tende a essere buona e generosa con tutti. È anche vero, però, che non ho mai chiesto nulla a nessuno. Credo comunque che, essendo stata, grazie alla mia musica e per mia stessa convinzione, una delle principali fautrici della diffusione della cultura e della lingua italiane nell’ex Jugoslavia, la Comunità Nazionale Italiana mi abbia spesso trascurata. Sinceramente non mi è chiaro quali siano i motivi per un simile trattamento. Mi dispiace tanto, perché sono convinta che insieme avremmo potuto fare molto di più. Devo però aggiungere che il presidente della Giunta esecutiva dell’Unione Italiana, Maurizio Tremul, è stato molto gentile nello sponsorizzare in parte il mio concerto celebrativo, promettendo di esserci stasera”.

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